Mi sento fortunato a riuscire ancora a sognare

Quando una persona passa molto tempo chiusa in carcere, anche i ricordi più belli si annullano nella sua mente

 

di Emiliano Behari, novembre 2006

 

Sono appena salito in cella dalla redazione di Ristretti Orizzonti, della quale faccio parte, e sono rimasto molto coinvolto dalla discussione di oggi sul tema degli affetti. La nostra redazione è fatta da persone diverse sia per esperienze di vita che per cultura, sensibilità, nazionalità, religione. Così nei diversi dibattiti che facciamo sulla realtà del carcere ci sono molte opinioni contrapposte, però quando il tema della discussione è la sfera affettiva, tutti noi ci sentiamo simili nel poterci identificare nella stessa esperienza di privazioni che il carcere provoca. In carcere gli affetti rimangono solo virtuali. Gli unici che hai, sono i ricordi più belli delle persone che ami e a cui vuoi bene. Io sono straniero e da due anni mi trovo in carcere: direi poco, a confronto del mio compagno di cella che se ne è fatti tredici.

Questo per dire che intorno a me ci sono persone che dagli affetti si sono distaccate molti anni fa, e sono convinto che quando una persona passa molto tempo in carcere anche i ricordi più belli si annullano nella sua mente. Ad esempio io mi alzo di mattina e racconto al mio compagno di cella che la notte ho sognato di essere con la mia ragazza o nel mio quartiere in Albania, assieme ai miei amici, mentre invece il mio compagno non sogna più niente del genere.

É terribile come il lungo isolamento dal mondo esterno annulli ogni forma di affetto. Io sento di avere ancora la mente fresca, e sono anche abbastanza fortunato rispetto a molti stranieri che qui in Italia non hanno nessuno a sostenerli moralmente. Io almeno faccio colloqui con i miei cugini e le mie zie, ho potuto vedere qui in carcere anche mai madre, che é venuta dall’Albania con un visto turistico per incontrarmi, visto che ha ottenuto perché sua sorella, che vive regolarmente in Italia, ha fatto da garante per lei. Moltissimi detenuti stranieri però sono senza un legame con il territorio, e non conoscendo nessuno disposto a fare da garanzia per i loro familiari e ad aiutarli ad orientarsi e sistemarsi da qualche parte non troppo lontano dal carcere, rimarranno sempre esclusi dal diritto di abbracciare i loro cari.

Quanto alle difficoltà che una persona detenuta incontra nel gestire la propria sfera affettiva direi, sulla base della mia esperienza personale, che il primo periodo di detenzione è molto difficile: non è per niente semplice infatti, abituarsi alla solitudine quando per molti anni della tua vita hai dormito accanto ad una donna o in una casa piena di vita, mamma, papa, fratelli, sorelle; quando sei stato abituato a svegliarti con la colazione che ti aspetta in tavola e ad aprire gli occhi con tua madre o la donna che ami che ti danno il buongiorno coccolandoti. Invece qui la mattina ti trovi l’agente che sbatte la porta blindata per farti ricordare che sei in galera.

In carcere gli affetti li trovi solo nelle parole scritte nelle lettere o dette per telefono. Ad esempio qui la posta arriva sei giorni alla settimana, a mezzogiorno, e quando passa l’Agente della posta, in quei momenti io mi ritrovo agitato e in ansia mentre lo guardo per sentire se pronuncia il mio nome. E quando lo fa mi solleva moralmente. Ricevere una lettera è il segno che qualcuno ti pensa. Ma con il passare del tempo in carcere anche le lettere si riducono, e gli unici che rimangono a sostenerti scrivendoti sono i familiari, quelli più stretti: madre, padre, fratelli e sorelle. Gli amici non ne parliamo. C’é un detto che si ripete spesso anche qui dentro: i veri amici si vedono nel momento del bisogno. La maggior parte di noi però non è che chiede loro un sostegno economico, no! L’unica cosa che si domanda è magari una cartolina, che possa suscitare in te un ricordo e farti pensare che non ti hanno dimenticato.

Il telefono è in realtà per me, come per la maggior parte degli stranieri, l’unico mezzo per avere un contatto diretto attraverso il quale provare emozioni ed esprimere parole di affetto ai familiari, parlare loro di come passi la vita in carcere. Quando chiamo mia madre lei è molta affettuosa e preoccupata, come tutte le mamme verso i propri figli d’altronde. Ogni volta che parlo con lei per telefono mi chiede: “Cosa mangi oggi?”, e io ogni volta le rispondo la verità e cioè che mangio bene, perché il mio compagno di cella è un paesano che fa il cuoco e il pasticcere. Certe volte le racconto che mangio alcune pietanze albanesi che sono effettivamente difficili da cucinare in carcere, e allora lei ride e non mi crede. Ma onestamente non m’importa se creda o meno alle ricette che prepariamo, perché quello che mi sta a cuore e mi fa felice è sentire mia madre ridere insieme a me, quando le racconto quello che facciamo o che succede qui: cose per lei impossibili in un posto come il carcere.

La vera, profonda critica che farei al sistema carcerario italiano è quella di essere disumano e umiliante quando va contro la natura dell’uomo nell’impedirgli di vivere la sua sessualità. Se solo si dà uno sguardo a tutti gli altri paesi europei e addirittura ad alcuni del terzo mondo, si scopre che il sesso in carcere è concesso e c’è una ragione fondamentale dietro a tale scelta. Si riconosce in tal modo che il rapporto di coppia in una famiglia è fondamentale per l’unione della famiglia stessa. Quando vieta di vivere il sesso ai detenuti lo Stato non fa altro che rovinare le loro famiglie, non le valorizza, non le rispetta. In aperta contraddizione tra l’altro con mille discorsi sul ruolo fondamentale giocato proprio dalla famiglia nell’ottica del reinserimento.

Io non credo di esagerare se dico che lo Stato è dunque in parte complice della rovina di tante famiglie, perché non si limita a privare il detenuto del diritto a un rapporto fisico e spirituale con la sua compagna (comminandogli un’ulteriore pena, che per altro non risulta scritta da nessuna parte nella sentenza di condanna), ma priva anche la moglie o la fidanzata, colpevoli solo di essersi innamorate del proprio uomo, di un diritto da sempre considerato fondamentale. Mi dispiace, ma questo atto barbarico non é degno di un Paese che si vanta di esportare la sua civiltà ad altri Paesi meno sviluppati.