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Elvis e il suo viaggio da Durazzo alle carceri minorili italiane
“Volevo venire in Italia soprattutto per cercarmi un lavoro, perché per guadagnare quello che qui guadagna in un mese un operaio semplice in fabbrica, in Albania dovresti lavorare sette mesi”
di Elvis, ottobre 2004
Sono albanese, la mia famiglia è composta dai miei genitori e due fratelli più grandi di me. Sono cresciuto a Durazzo, una grossa città che si trova a quaranta chilometri dalla capitale, esattamente di fronte a Bari, dalla quale è separata da 120 km di mare. Sono partito dall’Albania nel 2000. Avevo 15 anni, frequentavo il primo anno delle scuole superiori. Avevo un gruppo di amici che uno alla volta mi stavano lasciando solo. Partivano per l’Italia, partivano per una vita migliore, per cercare un po’ di fortuna. Sapevo che se fossi arrivato in Italia da minorenne avrei potuto ottenere con più facilità il permesso di soggiorno. In Italia c’erano già i miei fratelli, molti dei miei amici, io volevo venire soprattutto per cercarmi un lavoro, perché per guadagnare quello che qui in un mese si guadagna lavorando anche solo da operaio semplice in fabbrica, in Albania dovresti lavorare minimo sette mesi.
Partendo dall’Albania pensavo di trovare in Italia un po’ di fortuna Mi imbarcai nella primavera del 2000 su una nave commerciale, destinazione Barletta; per il passaggio dovetti pagare due milioni e 300mila Lek, l’equivalente di circa 4 milioni e 500mila delle vecchie lire. Sulla nave, un vecchio mercantile, eravamo in una quarantina, tutti uomini di tutte le età. Prima di arrivare nel porto di Barletta si affiancarono due gommoni, noi salimmo sopra e ci dirigemmo in città verso un vecchio porticciolo molto vicino al centro. Da lì arrivammo alla stazione, quindi ognuno proseguì per la sua destinazione. Partendo dall’Albania pensavo di trovare in Italia un po’ di fortuna, ed invece dopo due anni fui coinvolto in una rissa, e morì un uomo. Avevo 17 anni. La mia esperienza da uomo libero in Italia si è fermata il 2 dicembre 2002. Mi arrestarono a Bari, e mi portarono all’I.P.M. “Fornelli”, l’istituto minorile della città. Sapevo che avevo sbagliato: in quell’attimo di rabbia avevo tolto la vita a un uomo di 36 anni, ora dovevo pagare. Appena entrato in carcere, la sensazione di angoscia per essere chiuso tra le sbarre fu forte. Mi misero in isolamento per motivi di giustizia, dopo tre giorni il magistrato mi interrogò, ma mi lasciò altri 12 giorni in una cella con solo un tavolino, uno sgabello e un materasso. In quelle due settimane, devo dire che ogni giorno mi chiamavano nei loro uffici per colloqui l’educatrice e la psicologa, e questo mi aiutò a superare il trauma dell’ingresso in carcere. Un pomeriggio finalmente mi fecero salire in sezione con gli altri ragazzi. Dopo cinque mesi fui trasferito per “avvicinamento colloquio” a Torino al “Ferrante Aporti”, istituto che tra noi era rinomato, perché dicevano tutti che si stava bene. A Bari stavo male perché non potevo fare colloqui e poi era tutto molto regolato, tipo militare: ogni ora della giornata avevi una precisa cosa da fare e dovevi fare quella. A Torino si era più liberi di gestirsi la propria giornata. Non c’erano troppi obblighi, e quello che facevi lo facevi volentieri perché eri stato tu a sceglierlo. Anche i rapporti tra noi e gli agenti, che al minorile lavorano in abiti civili, erano piuttosto amichevoli, privi di conflittualità. Tra le attività che si potevano svolgere c’erano la scuola, il corso di pizzeria, di meccanica, di giardinaggio, l’addestramento di cani. Il mio programma era questo: tre giorni della settimana frequentavo il corso pizzaioli, gli altri tre addestramento cani. Una volta alla settimana si faceva musica e teatro, seguiti da insegnanti esterni. Mi piacevano molto i cani, è una delle attività che svolgevo più volentieri, ma quando faceva freddo la pizzeria era molto meglio. Tra le persone alle quali penso con più affetto lì a Torino c’è un’educatrice molto giovane con la quale ho instaurato un rapporto di amicizia. Quando avevo bisogno era sempre presente, conservo di lei un bellissimo ricordo. Sono rimasto a Torino per 10 mesi, poi mi hanno trasferito all’Istituto minorile di Treviso, perché i miei parenti abitano in Veneto. Ero già stato a Treviso, portato lì per gli interrogatori, mentre il processo per l’omicidio l’avevo fatto a Venezia, dove mi avevano condannato in primo grado a 12 anni, ma in appello poi la pena era stata ridotta a 9 anni e 4 mesi. Conoscevo quindi già tutti gli operatori. I detenuti invece cambiano in continuazione, eravamo in pochi ad avere reati gravi e quindi molti anni da fare. Gli altri nel giro massimo di sei mesi erano tutti fuori. Treviso era simile a Torino. Ti lasciavano più libero rispetto a Bari, che nel confronto sembrava un carcere militarizzato.
Tutte le occasioni erano buone per incontrare le ragazze della sezione femminile Nelle carceri minorili nascono amicizie molto forti, ad esempio con Denis, mio connazionale, e Christian, italiano, eravamo inseparabili. Abbiamo condiviso la stessa cella per tutto il periodo trascorso a Torino. Anche loro purtroppo avevano la mia stessa condanna. Sono amici che terrò sempre nel mio cuore. Le nostre partite a pallone sono rimaste memorabili, giocavamo contro squadre esterne, eravamo iscritti ad un campionato provinciale di calcetto, ma le nostre partite le giocavamo purtroppo tutte in casa… ogni domenica pomeriggio. Non è che non ci facessero uscire per la paura che mettessimo in pratica il bellissimo film Fuga per la vittoria, il motivo, così ci dicevano, era perché non eravamo tutti definitivi. Chi era definitivo usciva anche più volte alla settimana in permesso premio. Uscivano con educatori, con persone del volontariato, psicologi, perfino con quelli del WWF della protezione animali in via d’estinzione… su questo scherzavamo sempre. All’interno del Ferrante Aporti c’è anche la sezione femminile. Il che è tutto un programma. Nel senso che tutte le occasioni erano buone per vederci, sentirci, e magari soltanto poter sfiorare la guancia o tenere la mano ad una ragazza particolare che mi piaceva. Ad esempio a Natale dalle due del pomeriggio alle dieci di sera si mangiava insieme, si ballava, c’era anche tanta gente da fuori, la palestra si trasformava in una grande mensa, ed il teatro in una sala da ballo. Le attività erano finanziate dal Comune di Torino, e sia assessori, ma a volte anche il sindaco in persona, venivano a vedere, a controllare, a chiederci come stavamo. Nascevano amori prima e durante le feste, finita la festa finiva anche l’amore. Amori della durata di sette ore, tanto durava la festa. In pratica non erano veri amori ma una sorta di competizione tra di noi, e vinceva chi riusciva a dare un bacio alla più carina. Anche per le ragazze era lo stesso. C’era la sorveglianza, ma eravamo così tanti che qualche bacio ci poteva scappare. E poi non stavamo facendo niente di male. Qualcuna di queste storie è andata avanti. Una volta oltre le sbarre si sono frequentati, fidanzati, ed addirittura mi hanno scritto degli amici che una coppia si è sposata. A giugno del 2004 sono passato nel carcere per adulti, e mi trovo qui a Padova. La differenza maggiore che ho visto tra le due realtà è che il minorile in qualche modo mi aveva preparato ad affrontare la vita nel carcere adulto, perché è carcere anche lì, però al minorile il contatto con gli educatori e gli psicologi era costante, più diretto, lì ci si conosce veramente dal punto di vista umano, mentre qui a Padova, carcere per maggiorenni, ho fatto solo quello che viene chiamato “colloquio d’ingresso”, con una educatrice che mi ha detto subito che non sarei stato seguito da lei. Capisco che qui siamo in tanti, e il personale è pochissimo, ma sento la mancanza di questi contatti. Anche da un punto di vista sanitario la differenza è abissale. In tutti i minorili in cui sono stato l’assistenza era immediata, seria ed efficace. Qui spesso le visite sono “a distanza” e si concludono con la pastiglietta di turno. Il dentista poi veniva una volta al mese, e venivamo chiamati tutti per un controllo. Da quando sono qui ho perso una capsula, non riesco ad incontrare un dentista e la cosa è molto frustrante, oltre che dolorosa. La differenza che ho riscontrato nelle relazioni umane, tra i ragazzi del minorile e qui nella Casa di reclusione, è che qui forse c’è maggior tranquillità e senso di responsabilità, almeno in chi ha pene lunghe. Ma girala come vuoi, le sbarre c’erano al minorile e continuano ad esserci qui. Sotto quel punto di vista sono due realtà troppo simili. |
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