Un posto dove tutti, italiani e stranieri, possono dialogare

C’è bisogno di posti come questo per imparare a rispettare l’altro

Credevo di aver trovato nella redazione un ottimo passatempo, ma alla fine mi sono appassionato alle discussioni e spesso sento il bisogno di intervenire, di parlare

 

di Elvin Pupi, giugno 2008

 

Quando mi trovavo in una Casa circondariale aspettando il processo, ho sentito spesso parlare di Ristretti Orizzonti, ma non avevo mai pensato che ne avrei fatto parte fino a quando non mi hanno trasferito in questo carcere. Stare sempre in cella non è facile, anzi ti fa uscire fuori di testa, e io, dopo un lungo periodo di isolamento, di detenzione difficile, piena di rabbia, avevo deciso di non stare più tutto quel tempo chiuso in uno spazio soffocante come la cella. Una via per uscire era cercare di entrare nella redazione di Ristretti, così ho cominciato a chiedere da tutte le parti, finché alla fine si è liberato un posto e mi hanno preso.

Ho trovato un luogo in cui stavo bene, le persone erano tranquille, non c’era nervosismo nell’aria. Mi sono subito scelto un computer e ho cominciato a studiarlo, per capire come funziona. Insomma ero contento, perché passare quattro ore al giorno in un’aula, grande sei volte le dimensioni della cella, mi sembrava una cosa fantastica. Avevo trovato un ottimo passatempo.

Non sapevo invece che la cosa mi stava prendendo. Il motivo di questo mio coinvolgimento sono state le quotidiane riunioni che facciamo in redazione. In queste riunioni parliamo sempre dei problemi della giustizia, delle leggi che stanno facendo e di come i giornali trattano questi temi, ma poi si finisce per parlare anche di cose personali e a volte anche per litigare. Io all’inizio ascoltavo senza intervenire perché non sapevo cosa dire, non ero abituato a parlare di queste cose. Adesso invece ho cominciato a dire quello che penso.

Qui in redazione ci sono persone che conoscono bene le questioni della giustizia e sanno ragionare, così come ci sono altri che pensano di saperne più di tutti, ma che fanno dei ragionamenti che mi sembrano poco credibili. Di sicuro i ragionamenti di Ornella mi convincono di più, perché lei quando parla non ha odio o pregiudizi. Lei ragiona sempre mettendosi nei panni degli altri, se si parla di stranieri lei ragiona come se fosse una di noi, se si parla dei problemi dei tossicodipendenti lei cerca di mettersi nei panni di una persona che soffre e cerca di capire meglio il problema, se si parla di vittime dei reati lei ci spiega cosa significa trovarsi con una tragedia in casa, se si parla di intolleranza o di razzismo lei è con il diverso, con chi viene emarginato. E certo parlare di queste cose in carcere non è facile, soprattutto con quei detenuti che a volte l’odio accumulato in galera lo vogliono sfogare contro i più deboli.

All’inizio io venivo in redazione solo per uscire dalla cella, ma alla fine mi sono appassionato alle discussioni e spesso sento il bisogno di intervenire, di parlare. Ma parlare significa ascoltare, ragionare, e significa anche sapere la lingua. Così mi sto accorgendo che sto migliorando sempre di più la mia conoscenza della lingua italiana. Esprimermi bene non è facile, ma ci provo e già non faccio più la fatica delle prime volte.

Oggi si festeggiano dieci anni di vita di questa rivista, che secondo me ha cambiato la faccia della galera. Però devo dire che c’è anche qualcuno che la pensa diversamente, e a me dispiace sentire qualche detenuto infelice dire che la redazione è una perdita di tempo, e che non serve. Io ascolto Ornella e le altre volontarie e penso a come queste donne sono dieci anni che vengono qui perché vogliono farci ragionare, vogliono darci quella voglia di cambiare che il carcere difficilmente dà. Poi vedo le cose che stanno insegnando a me e penso a quanti stranieri sono passati qui prima di me e hanno potuto imparare la lingua come sto facendo io. Basterebbe questo per convincermi che la redazione è una cosa importantissima qui in carcere, e siccome è un posto dove tutti, italiani e stranieri, possono dialogare, io credo che oggi come oggi, c’è bisogno di posti come questo se vogliamo imparare a vivere insieme e rispettarci a vicenda.