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Lavorare… a chi tocca?
Esiste una "aristocrazia" fatta di detenuti-lavoratori? Se esiste, vale forse la pena di sentire che cosa ne pensano i detenuti stranieri, spesso tagliati fuori da questa piccola casta di fortunati
Di Elton Kalica, maggio 2003
Se il problema del lavoro in generale è un fenomeno molto complesso, quello del lavoro in carcere è un vero rompicapo. Lavorare è comunque un sogno per tutti i reclusi. Dal punto di vista dell’Amministrazione, in un ambiente carcerario la domanda di lavoro si soddisfa con quel po’ che l’istituto offre, e che si chiama "lavoro domestico", come se avesse davvero a che fare con la nostra casa... Quando poi la provvidenza bussa alla porta, materializzandosi in un paio di capannoni aziendali, come a Padova, allora ecco che il recinto di felicità si apre per far entrare altre pecore affamate e infelici. Oltre alle normali problematiche economiche del disoccupato libero, lo status di detenuto include anche una serie di aspetti legati alla sua condizione psico-fisica. Essere disoccupato in carcere può significare vivere un dramma e spesso una vera tragedia. Faccio un esempio: un detenuto proveniente da un paese extracomunitario è stato condannato ad una pena non indifferente. Egli, oltre alle solite spese affrontate da tutti i detenuti per cibi e bevande, per detersivi e medicinali, avrà spese ulteriori in pacchi, posta e telefonate. Se questo detenuto appartiene a quel novanta per cento che non percepisce nessun reddito, allora troverà come unica fonte di sostentamento la propria famiglia nel proprio paese. Per poter mangiare, lavarsi e telefonare, chiederà i soldi ai famigliari che vivono già, per conto loro, in difficoltà. L’assurdità della sfortuna spesso s’intreccia con il sarcastico cinismo del destino: invece di mantenere lui la famiglia, come la logica dell’emigrante vuole, è la famiglia che lo fa. In questo modo, oltre alla lunga pena di detenzione che ha inflitto il giudice, oltre all’isolamento familiare che impone la politica estera dei paesi occidentali, rendendo difficilissimi i colloqui tra famigliari stranieri e carcerati, si aggiunge anche la difficoltà economica. Situazione che graverà sull’economia di casa per 10-15 anni, finche il nostro detenuto uscirà e forse troverà un lavoro. Effettivamente, questa condizione nella quale versano i detenuti in Italia, nel carcere di Padova sembra essere un po’ più distesa, e questo vale specialmente per gli stranieri che si trovano assegnati il 30-40% degli eventuali lavori interni. Queste persone sicuramente passano il tempo tenendosi occupate e investendo le proprie energie in modo tale da poter: evitare litigi e disguidi, caratteristici della vita passiva; avere una buona relazione comportamentale che le aiuterà ad uscire prima; migliorare le condizioni dei propri famigliari; migliorare la propria condizione di vita; avere un piccolo capitale a disposizione in prospettiva della scarcerazione, da poter investire in ricerca di lavoro. Si può continuare a lungo con questa lista di benefici che l’occupazione regala ai detenuti, ma sicuramente basta così, per descrivere cosa significhi lavorare. Se si pensa però che solo una piccola parte può accedere a questi benefici, inevitabilmente prende piede l’idea che in carcere c’è una maggioranza di detenuti che passano gli anni stesi sulla branda, e c’è una minoranza che si distingue per una qualità di vita migliore da tutti i punti di vista.
Allora la domanda del secolo è: con quali modalità è assegnato il lavoro dentro il carcere? Il lavoro domestico, a sua volta, è diviso in "lavoro a rotazione" e "lavoro fisso". Il lavoro a rotazione si limita agli ambiti relativi ai singoli piani. Il carcere è suddiviso in bracci ed ogni braccio necessita di un addetto alle pulizie, lo scopino, e un addetto alla distribuzione del vitto, il portavitto. Queste due mansioni sono svolte a turno, cioè ogni mese i detenuti si danno il cambio in base ad una lista fatta, credo, dagli agenti. In un braccio di cinquanta persone, essendovi due tipi di mansioni, la media di lavoro è nella migliore delle ipotesi una volta ogni 10-12 mesi.
Quello che ha lavorato per dieci anni e quell’altro che ha dormito per dieci anni L’istituto necessita anche di altri servizi indispensabili come la cucina, la lavanderia, la biblioteca, la distribuzione della spesa di generi alimentari che i detenuti fanno ogni settimana, la manutenzione dell’immobile. Queste mansioni sono svolte sempre dai detenuti. Gli assegnati a questi lavori si chiamano fissi perché mantengono il posto fino alla scarcerazione. Quando ho descritto i benefici del lavoro, facevo riferimento a queste figure di lavoratori a tempo indeterminato. Sono proprio questi i rappresentanti del "detenuto ideale", a cui si ispira la politica di reinserimento, secondo la quale "il lavoratore può essere inserito con più facilità nella società." Apparentemente la suddivisione del lavoro è stata studiata in maniera da far funzionare meglio l’istituto, e i risultati si riscontrano nel buon andamento dei servizi. Ora però, tornando a quel detenuto di prima, che per far fronte alla lunga detenzione doveva chiedere i soldi a casa, si deduce che al di fuori di qualche lavoro a rotazione che lo interesserà una volta all’anno, difficilmente avrà la fortuna di accedere ad un lavoro fisso nei primi anni di detenzione. Egli, nel novanta per cento dei casi, farà parte della massa dei detenuti che lascerà il carcere senza una lira in tasca e poi guarderà con invidia quello che uscirà con 10-20mila euro in banca. Si capisce allora che il lavoro fisso richiede una certa responsabilità e non può essere assegnato a tutti i tipi di detenuti. C’è la necessità, dicono, di un’attenta osservazione per determinare la compatibilità caratteriale del soggetto col lavoro. Tutto vero, ma da qui a individuare come unico strumento di efficienza nello svolgimento di certe mansioni il fatto che si tratti di lavoro fisso, cioè assegnato stabilmente allo stesso detenuto, c’è una profonda differenza. Non a caso succede sempre che appena un lavoratore è scarcerato, si trova subito chi lo sostituisce. Se poi si considera che il carcere di Padova "ospita" 650 persone, appare chiaro che in un carcere di tali dimensioni i detenuti compatibili col lavoro non possono mai scarseggiare. A questo punto, si potrebbe ritenere realizzabile un’idea, fedele al principio di rotazione almeno in parte. Per la precisione: una rotazione tale che, invece di ripetersi ogni mese, si replichi ogni sei mesi, oppure un anno. In tal modo, un detenuto che in un anno ha messo da parte più di tremila euro, a quel punto può lasciare il posto ad un altro compagno ugualmente meritevole. In questo modo, si eviterebbe la creazione di quella che i detenuti chiamano l’aristocrazia del quinto piano (al quinto piano a Padova stanno tutti i lavoranti). Questo non eliminerà quella divisione inevitabile che si crea tra i detenuti-disoccupati e i detenuti-lavoratori, ma per lo meno attenuerà la differenza tra quello-che-ha-lavorato-per-dieci-anni e quell’altro-che-ha-dormito-per-dieci-anni. Una differenza, se non altro, di qualche migliaio di euro. A questo punto non si può non lanciare un sasso anche verso l’altra risorsa che ci contendiamo. Evidentemente, non soltanto il lavoro offerto dall’amministrazione è un bene che scarseggia. Anche lavorare nei capannoni messi a disposizione dalle imprese esterne cambierebbe la vita a tanti detenuti. Il lavoro nei capannoni quindi può essere un "oggetto" interessato allo stesso principio di divisione rotatoria, per poter così essere spartito in maniera più equa tra i detenuti. In ultima, c’è da sottolineare che la sensibilizzazione delle imprese per assumere detenuti in uscita è una cosa fondamentale nell’ambito del reinserimento, e anche della sicurezza delle città. Parallelamente però non si può considerare di minor importanza il lavoro interno agli istituti di pena che interessa, dopo tutto, la serenità e la tranquillità della vita carceraria. Oltre alla tutela della rispettabile società esterna, ci si dovrebbe allora soffermare sull’inquieta società interna, l’ambiente che fa da sottofondo alla rieducazione e alla preparazione per la vita libera. Questo percorso può cominciare realmente, solo eliminando quelle piccole ingiustizie e quelle grandi sofferenze, alle quali quasi continuamente i detenuti si sentono soggetti. Un primo passo può essere quello dell’equa distribuzione del lavoro interno che accontenterà, in primo luogo, un maggior numero di famiglie, che non dovranno più mantenere i loro cari detenuti, e in più allevierà la frustrazione derivante dalla sensazione d’ingiustizia e d’ineguaglianza.
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