La maturità di conoscere i propri limiti, e quelli della nostra società

Camminare a testa bassa non è perdere la dignità

È difficile qui dentro convincere le persone ad abbandonare la loro fiducia in una idea deformata della dignità, anche perché questo significa educare a dei concetti che corrispondono ad un modello di vita fatto di umiltà e rispetto verso gli altri

 

di Elton Kalica, giugno 2008

 

Le paure che mi avevano disturbato il sonno nelle notti prima del Convegno “Sto imparando a non odiare” profetizzavano un duro e ingestibile scontro tra le persone invitate a parlare delle loro storie di sofferenze e le persone detenute presenti per conoscere il volto delle vittime, ma ora posso affermare che quelle paure hanno perso la partita con la realtà, che ci ha restituito un incontro pacato fatto di reciproco rispetto.

La sera stessa dell’evento finalmente ho fatto “un sonno tranquillo”, abbandonandomi alla branda e provando un forte senso di gratitudine verso i miei compagni per il loro rispetto, e verso gli invitati che avevano deciso di rendere quella giornata un evento storico, l’inizio di qualcosa di molto più grande. La ritrovata serenità però non era destinata a rallegrarmi a lungo con la sua compagnia, visto che la mattina successiva ho scoperto che alcuni compagni detenuti avevano stretto i denti con nervosismo al monito che una dei famigliari delle vittime aveva fatto, rivolgendo a chi le ha ucciso il padre un invito a camminare a testa bassa.

La reazione ostentava come uno stendardo la difesa della propria dignità, considerata un diritto inviolabile, e qualcuno aveva l’aria quasi offesa. “Camminare a testa bassa significa perdere la dignità…”, diceva uno, “Io quando uscirò di qui terrò la testa alta perché la galera me la sto facendo tutta!”, continuava un altro con la fermezza di chi vuole che gli venga riconosciuta una cosa che gli appartiene per natura.

Avrei voluto analizzare le impressioni scolpite nella mia mente dalle parole dei relatori e poi scriverle, per offrire al lettore un altro puzzle da mettere nel quadro degli effetti prodotti in noi da questo particolare incontro, ma a questo punto non posso sottrarmi dal fare invece una considerazione su queste inaspettate reazioni.

Il punto cruciale sta ovviamente nella concezione che si ha della dignità in quella società che io, per “deformazione professionale”, sono ormai abituato a dividere tra “regolari” e “banditi”. Partendo da questa divisione, penso che una persona regolare intenda per dignità la pretesa che uno ha nei confronti degli altri di essere rispettato per le cose buone che ha fatto: rispetto dovuto come riconoscimento di una vita vissuta seguendo la legge e i valori condivisi dalla società in cui si vive.

Diversa è secondo me la concezione che si ha della dignità qui in carcere. Ci sono persone che credono di dover essere rispettate per il potere che hanno di fare del male – spesso già dimostrato attraverso le azioni che le hanno portate qui – quindi si tratta di un rispetto dovuto come riconoscimento ad una vita dedicata ad accumulare denaro e potere, spesso infrangendo la legge. Molti sono convinti che la vera dignità la si perde se non si è abbastanza forti, abbastanza furbi o abbastanza ricchi, e qualsiasi persona regolare troverebbe difficoltà a convincere anche l’ultimo dei banditi che la dignità si ha quando si vive nel rispetto dei valori condivisi e non credendo in altre “subculture”.

Anch’io, ingenuamente, per un po’ di tempo sono stato affascinato da modelli di vita che proponevano la forza, la fedeltà e il coraggio come valori fondamentali e assoluti nella vita di una persona, e quando mi sono ritrovato a vivere clandestinamente per le strade di Milano ho applicato gli stessi valori ad un’azione che non era più improntata a una utopica civiltà di uomini forti, ma a una quotidiana avidità. Commettere un reato all’età di vent’anni senza però avere la mentalità di un criminale, mi ha gettato nella bocca insaziabile di quella macchina chiamata giustizia, che con i suoi spietati ingranaggi continua a tormentarmi anche dopo più di undici anni di carcere. Un’esperienza che mi accomuna a tanti immigrati dell’Est europeo, che come me hanno sì commesso dei reati, ma che non avevano nulla di criminale nella testa quando sono partiti da casa: l’immigrazione però ci ha corrotti nel comportamento con i valori degenerati di una libertà mal compresa, e il carcere con i suoi schemi mentali si sta ora radicando nelle nostre teste, a tal punto che la vita sarà sempre più dura per noi, per le nostre famiglie e per i nostri Paesi, che dovranno pagare il prezzo più alto di questa immigrazione finita male.

Io ho avuto la fortuna di conoscere in carcere persone e libri che mi hanno riportato alla ragione, ma in considerazione del periodo di follia in cui sono rimasto intrappolato per qualche anno, mi sento di affermare che una certa concezione della dignità che si ha qui in galera è difficile da sradicare, soprattutto in quelle persone che credono che per meritare il rispetto degli altri si deve essere nelle condizioni di fare paura, perché solo chi ti teme ti rispetta.

 

Essere rispettati per la capacità di far del male è stato un gioco pericoloso

 

La verità è però che oggi non solo chi è stato formato in un ambiente di malavita è stato modellato in un mondo di violenza e paura: no, oggi basta ascoltare i comizi di certi politici che incitano alla violenza collettiva verso gli “indesiderati” per capire che minacciare, bruciare e linciare sono azioni che possono essere accettate e interiorizzate anche da parte di chi con la malavita non ha nulla da spartire. È quindi tanto più difficile qui dentro convincere le persone ad abbandonare la loro fiducia in una idea deformata della dignità, anche perché questo significa educare a dei concetti che corrispondono ad un modello di vita fatto di umiltà e rispetto verso gli altri, e questo modello ultimamente viene presentato dai media come una vita da “sfigato”.

La lunga esperienza di galera che ho dietro le spalle mi fa credere che alla dignità venga attribuito anche il significato di grande considerazione per se stessi, che non si discosta tanto da quell’autostima che viene identificata come il motore del successo e che è molto sentita un po’ dappertutto nella società. E così come nel mondo degli affari, anche nella malavita dichiarata che è il carcere, la grande considerazione verso se stessi è vista come una corazza che uno si crea per difendere l’unica proprietà che abbiamo, e cioè l’integrità fisica. Allora alla rivendicazione del camminare a testa alta corrisponde l’assunzione di atteggiamenti “dignitosi” per far capire agli altri che non gli è permesso di minacciare o violare questa proprietà. Del resto, basta pensare che si trattava sempre di una questione di proprietà, della “propria” donna in quel caso, quando solo pochi anni fa si considerava dignitoso saper salvaguardare la fedeltà coniugale, anche facendo pagare con la vita il tradimento.

Se il giorno del Convegno qualcuno ha detto che si doveva camminare a testa bassa, e qualcuno poi si è risentito dicendo che non intendeva abbassare la testa, è successo soprattutto perché abbassare la testa significa anche non fare più paura, significa accettare di vivere non dimenticando le proprie responsabilità, ma più di ogni altra cosa significa rinunciare al proprio orgoglio.

E allora la conoscenza della sofferenza altrui, la riflessione sui propri comportamenti e i buoni propositi di una vita condotta nella legalità vengono immancabilmente a scontrarsi con il nostro orgoglio, che è più grande dell’edificio che ci detiene, e in questo modo continuiamo a rimanere incastrati nella ragnatela della violenza, dell’avidità e del disprezzo per il prossimo. Qualcuno vorrebbe convincermi che, in fin dei conti, questi sono i valori che ci impone la società di oggi, ma non ci riuscirebbe perché io so bene quanto noi, detenuti ed ex detenuti, non saremo più la società. Quelli fuori, lavoratori, dirigenti, ragionieri, avvocati, banchieri e politici, se lo possono permettere, di partecipare alla corsa verso il successo, noi invece secondo me non possiamo più permettercelo perché quella corsa l’abbiamo persa.

Non si è perdenti a vita però se si ha l’intelligenza di capire di aver sbagliato tutto, se si arriva a pensare che forse gareggiare in simili gare è stato sbagliato, se si prende coscienza che essere rispettati per la capacità di fare del male è stato un gioco pericoloso per sé e per gli altri, visto che spesso qualcuno finisce per essere ammazzato e altri finiscono in carcere condannando sempre qualcun altro a crescere senza genitori. Io credo che si è più vincitori se si abbandona questa assurda gara, anche perché se si mettono da parte l’orgoglio e l’avidità ci sono molte più probabilità di essere rispettati.

Camminare a testa bassa non mi fa paura, non è perdere la dignità, ma se mai significa iniziare a conquistarsela piano piano, la dignità, senza dover far male a nessuno.