Imparare a confrontarsi anche con le vittime dei reati di ogni giorno

Noi raccontiamo il carcere, loro ci insegnano come stare al mondo

Gli studenti, gli insegnanti e i volontari hanno l’esperienza, l’intelligenza, l’umanità e la sensibilità per farci pensare a cosa significa vedere la vita con gli occhi addolorati e spaventati delle vittime

 

di Elton Kalica, febbraio 2008

 

Sicuramente sono stati tanti gli studenti che ho visto e conosciuto ai tempi della mia vita scolastica, però gli studenti che ho incontrato durante questi quattro anni di progetto di conoscenza tra scuole e carcere non solo superano di gran lunga il numero di quelli che ho visto in dodici anni di scuola, ma hanno anche una qualità della comunicazione diversa: i miei compagni di scuola volevano parlare sempre del più e del meno e non avevano mai tempo e pazienza per ascoltare, invece questi studenti ascoltano sempre con curiosità e attenzione.

Di solito vediamo arrivare gruppi di trenta o quaranta studenti. Loro prendono subito posto tra le sedie messe in fila per l’occasione e si guardano un po’ intorno come se, prima delle nostre facce, volessero raccogliere nella memoria l’arredo della nostra aula. Ma l’aula della nostra redazione ha poco di galera – otto computer, due stampanti, due scanner e tanti tavoli – e presto i ragazzi finiscono per concentrarsi su di noi. Ci scrutano con curiosità. Forse qualcuno è anche un po’ deluso dalla nostra “normalità” fisica e d’abbigliamento. Ma da questi incontri ho imparato che il primo luogo comune a crollare, anche se in parte, è l’immaginario del carcerato brutto, sporco, cattivo e con la palla al piede. Dico in parte, perché il fatto di non essere brutti e sporchi, oppure di non avere la palla al piede, non ci libera anche dall’essere cattivi. La cattiveria credo sia distribuita in tutti gli esseri viventi, però qui dentro il livello di cattiveria è di una concentrazione maggiore, ma quando abbiamo di fronte i ragazzi ci scrolliamo tutti di dosso la pelliccia del lupo, la mettiamo sul tavolo e diciamo che quella pelliccia si chiama “illegalità” e indossarla non è uno scherzo, perché poi si finisce in galera e si rovina la vita a qualcuno, e anche a se stessi.

 

Ma c’è un nesso tra le nostre “ragazzate” di una volta e il carcere?

 

Con il tempo ci siamo accorti che il modo migliore per ragionare è il confronto continuo. Negli incontri con gli studenti ci si confronta tanto e ciò che noi diciamo spesso è frutto di lunghe discussioni. Ma questo non basta. Allora, ci riuniamo in redazione con i volontari esterni che ne fanno parte e ne discutiamo anche dopo aver finito gli incontri con gli studenti: devo dire che con loro il confronto è ancora più duro. Ricordo che una volta c’erano tra noi anche degli insegnanti, oltre i soliti volontari, e abbiamo cominciato a discutere su alcuni comportamenti che qualche studente ha a scuola e che spesso sfiorano l’illegalità. Si parlava di un ragazzo che si è messo a fare della “pazzie” per una compagna di scuola e per esprimere il suo sentimento imbrattava i muri della scuola scrivendo delle frasi d’amore. In realtà, l’argomento non era facile da trattare, perché in un ambiente maschile come il carcere si è portati a fare il tifo per il ragazzo, e qualcuno casca anche nel solito discorso da bar: “Ma cosa vuoi che sia, queste cose le abbiamo fatte tutti… in fondo, non c’è nulla di male!”. Per fortuna che le insegnanti e le volontarie hanno una visione più reale dei limiti attraverso cui si può esprimere un sentimento e ci hanno fatto osservare che forse non è un caso che il ragazzo in questione abbia dei grossi problemi nello studio e nel comportamento, così come non è una caso che il suo idolo sia quel fotografo famoso finito in carcere per estorsione.

Qualcuno continuava ad essere dell’idea che è normale avere come idolo a quell’età Fabrizio Corona, e che questo non significa essere un delinquente, ma le osservazioni delle insegnanti sono state intelligenti perché hanno stimolato la riflessione. La maggior parte di noi ha fatto simili bravate, andava male a scuola, aveva come idolo qualche delinquente, e quindi quel ragazzo assomigliava molto a come eravamo noi. A quel punto non potevamo più dimenticarci di essere in carcere, anche per reati gravissimi, e come per magia è nato in noi il dubbio che forse poteva esserci un nesso tra quelle “ragazzate” di una volta e il carcere.

Dunque è stato inevitabile anche per me pensare alle mie, di bravate, e a quella voglia di trasgredire alle regole per essere notato da qualche ragazza, per distinguermi dagli altri e non passare inosservato (il mio forse è un caso particolare, perché ricordo che sia i professori che i miei genitori si stupivano del mio comportamento, visto che andavo brillantemente negli studi), ma inevitabilmente ho visto chiaramente il legame diretto che c’è tra quella testa di c. che ero e l’entrata in carcere, perché anche se ho trovato in questo paese troppo spesso avvocati ladri, procuratori spietati e giudici cinici, sono stato io con la mia condotta a diventare l’oggetto delle loro azioni penali, e a volte anche delle loro persecuzioni, sono stato io che mi sono comportato da delinquente, e tutto per dimostrare di essere uno di quelli che scavalca i cancelli, che imbratta i muri e che non ha paura di nulla.

 

I ragazzi ci raccontano a volte come ci si sente ad essere vittime di reati

 

Durante l’ultimo incontro abbiamo discusso su quale sarebbe la giusta pena per uno che guidando ubriaco investe delle persone. Quasi sempre gli studenti che incontriamo nelle scuole manifestano un grande disappunto sulle pene che vengono date in simili casi, sostenendo che ci debba essere tanta più galera per i responsabili. Allora il discorso si è subito fermato su quel caso del ragazzo rom che ha investito quattro giovanissimi uccidendoli sul colpo, e che è stato poi condannato a sei anni di carcere. Quanto è stata giusta la pena inflittagli?, ci si domandava.

Anche in questa discussione non è mancato un iniziale smarrimento da parte di alcuni detenuti che vedevano nella condanna del rom la volontà da parte del giudice di dare una pena esemplare, perché di regola un omicidio colposo rimane pur sempre un fatto raramente condannabile con il carcere, e c’entra poco il bere. In realtà qui dentro siamo tutti abituati a calcolare il male in anni di galera, e a guardarci intorno per vedere quanti anni ha preso uno e quanti anni ha preso l’altro e per valutare chi è stato più fortunato e chi più sfortunato. Ecco perché di fronte ad una tragedia così grande, anche i detenuti più abituati al confronto, come chi frequenta una redazione di giornale come la nostra, finiscono per valutare una ubriacatura in anni di galera invece che in vite umane perse.

Ma poi Ornella, la responsabile del nostro giornale, ci ha fatto notare che le vite dei ragazzini rimasti vittime di questo incidente non sono l’unica cosa da considerare nella valutazione di una condanna così singolare. Lei giustamente ha ricordato che il guidatore del mezzo era al volante ubriaco e in più, invece di prestare soccorso ai ragazzi, è letteralmente scappato. Non solo. Dopo essere stato scoperto e messo agli arresti domiciliari, ha avuto un atteggiamento del tutto incosciente rispetto alla gravità del fatto, perché si è addirittura prestato a fare la pubblicità di occhiali e merci varie, sfruttando la sua fama da “ragazzo cattivo”.

Ascoltando Ornella, la mia iniziale esitazione è raddoppiata: se all’inizio mi rifiutavo di fare una valutazione su questo fatto perché trovavo difficile mettermi sia nei panni di una delle vittime sia nei panni del guidatore criminale, dopo quel ragionamento mi sono accorto che c’era qualcosa di sbagliato nelle teste di molte persone. Un episodio di questo tipo dovrebbe lasciare inorriditi, dovrebbe provocare soltanto sentimenti di condanna nei confronti del guidatore ubriaco che uccide quattro ragazzi, insomma il ripudio dovrebbe essere istintivo e non si dovrebbero cercare “attenuanti” partendo dall’idea che anche a noi piace bere, e che “può succedere” di guidare con un bicchiere di troppo in corpo. Invece se non ci fosse stata una volontaria a prenderci verbalmente a schiaffi, nessuno sarebbe stato capace di pensare semplicemente a quanto orribile è svegliarsi e rendersi conto di aver ucciso quattro ragazzi. Solo dopo questa discussione, qualcuno ha cominciato a riflettere e forse ha capito che questa libertà di fare tutto ciò che si vuole non se la può permettere nessuno, anzi l’autore di un fatto del genere deve per lo meno avere il buon senso di comportarsi in modo attento e schivo e di chiudere la porta in faccia a qualsiasi commerciante ruffiano e senza scrupoli.

Nella nostra redazione discutiamo sempre, prima e dopo gli incontri con gli studenti, perché i ragazzi non solo vengono qui per conoscere il carcere ed evitarlo nella vita, ma ci raccontano anche come ci si sente ad essere vittime di reati, o comunque ci insegnano a provare a mettersi nei panni delle vittime e pensare quanto si soffre a vedere i ladri in casa o a essere sequestrati durante una rapina. È un punto di vista a cui difficilmente pensiamo, perché siamo in carcere, o forse perché siamo sotto punizione e passiamo il tempo concentrati su noi stessi e sulle nostre sofferenze.

Loro sì che lo fanno. Gli studenti, gli insegnanti e i volontari hanno l’esperienza, l’intelligenza, l’umanità e la sensibilità per pensare cosa significa vedere la vita con gli occhi addolorati e spaventati delle vittime, e se vogliamo vivere una vita diversa dalla galera, se vogliamo essere delle persone meno cattive e più umane, dobbiamo imparare prima di tutto ad ascoltarli.