Vini

 

di Elton Kalica

 

Tutte le mattine, dal tavolino del nostro bar preferito, mentre ci prendiamo il caffè, vediamo passare una folla di persone, stiamo a guardare immobili, come fosse un fiume primaverile che scorre, senza soffermarci sulle particolarità, i dislivelli o i ripetuti sbalzi dell’acqua, fintanto che la nostra attenzione viene catturata dal passaggio lento di una foglia caduta da chi sa dove; di un fiore caduto per sbaglio da una mano tremante; di un vecchio ramo che vuole finire i suoi giorni in un paese lontano.

Osserviamo sempre ciò che rompe l’uniformità. Gli occhi immersi in qualche pensiero fisso guardano assenti la folla frettolosa, finché non arriva ondeggiando, una donna alta con il passo slanciato e una gonna cortissima e rossa, o un uomo che corre inseguito da qualche pericolo, oppure una creatura strana uscita da chi sa dove e con delle sembianze indefinibili, che solo lui, creatore di se stesso, conosce. Osserviamo con interesse ciò che non è grigio, anche se a volte può essere sgradevole. La moltitudine crea sempre uniformità e da questa inevitabilmente balza fuori il diverso, quello che si fa notare con curiosità e che fissiamo nella nostra mente con mille domande silenziose, supposizioni sciocche, pensieri inadeguati. Allora appoggiamo sul tavolo la tazza di caffè e guardiamo la diversità che si distacca nel panorama dei volti grigi, giacche svolazzanti.

Certo che quando dedichiamo un momento di riflessione a qualcosa o qualcuno poi ce ne ricordiamo a lungo: difficilmente si dimentica quel particolare momento che ha richiamato silenziosamente la nostra attenzione. Anche soltanto dedicare pochi pensieri, ci fa sentire creditori, ne prendiamo nota e a volte richiamiamo a nostro piacimento, tutti i dettagli e le sfumature. Tentiamo sempre di riempire i nostri diari, gli armadi, i bagagli e le teste di cose diverse, singolari; in seguito se ci viene chiesto cosa abbiamo fatto durante il primo anno di scuola, non raccontiamo le lunghe ore di studio e le interminabili interrogazioni, ma le sorprese, gli amori, le delusioni, i torti subiti, i rancori scolpiti nella memoria; se ci domandano chi abbiamo visto passare, non rispondiamo di aver visto 235 uomini e 164 donne mentre correvano al lavoro, a scuola, a casa, ma di aver notato una bella gnocca con una minigonna di Gucci; un gangster con la scorta e con un diamante al dito; un pazzo da legare tatuato in testa; un travestito con gli occhi gonfi. Amiamo parlare di ciò che esalta, che travolge.

Le moltitudini compatte, a mia sorpresa, le ho trovate anche in carcere, mentre scontavo una pena di sei mesi per aver dato un pugno a mia moglie – veramente i pugni erano stati più di uno ma preferisco dire così a chi me lo chiede. Ce la prendiamo sempre con i muri, le porte, gli armadi, la macchina per i nostri errori o disgrazie, e ce la prendiamo con la moglie per le nostre incapacità e trascuratezze.

Entrai nel carcere con delle paure, dei preconcetti e delle idee insinuate dai celebri film di storie terribili. Trovai le stesse scene, i luoghi immaginati, ma non i personaggi che mi sembrava di ricordare e con le loro teorie sull’onore e sulle filosofie di vita. I carcerati, anche se diversi dalla mia immaginazione, si assomigliavano tutti nei loro sguardi scivolosi, a volte persi e remoti e altre volte sagaci; si assomigliavano nelle loro mani bianche e sfuggenti, come se le avessero tenute sempre a mollo, anche quando le dimenavano per aria in discorsi persuasivi; si assomigliavano nei loro corpi appesantiti dalla sedentarietà che schiaccia le ginocchia magre. Sembrava irreale vedere questi denominatori comuni che quasi tutti conservavano con gelosia e che, anche i nuovi giunti prevedevano di assumere: veramente una massa molto compatta nelle sembianze.

Ma anche lì, a volte saltava fuori la diversità: un magro psicotico che ripeteva delle frasi precostituite o un piagnucolone che inseguiva i nuovi arrivati raccontando le sue disgrazie e la propria innocenza, oppure l’effeminato con le unghie rosse e il culo grosso.

Così, quando gli amici seduti intorno ad un tavolo, mi chiedono di parlare del carcere, richiamo sempre alla memoria quei quattro elementi che uscivano dall’uniformità. Si parla della diversità più facilmente e con più accuratezza perché la normalità si guarda con occhi svagati, mentre ciò che la rompe si osserva con curiosità, e la curiosità fa annotare nella memoria i dettagli, ed era curiosità quella che mi obbligava ad osservare con meraviglia e minuziosità un uomo molto diverso: il suo nome era Vini.

Vini fu la prima persona che vidi appena entrai nel penitenziario. La mia cella era di fronte alla sua, quindi spesso oltraggiavo la sua intimità sbirciando la sua vita informe. I primi giorni della mia permanenza in quella cella erano talmente confusi che non mi sono neanche accorto di avere un vicino di cella. Pensavo soltanto a come sarei sopravvissuto per sei mesi in un luogo cosi piccolo e sporco, a cosa mi sarebbe successo, a quello che sarebbe cambiato fuori dopo la mia interminabile assenza. Avevo paura di alzarmi dal letto e camminare, di affacciarmi al cancello e vedere cosa succedeva, di parlare con la guardia e affrontare l’incognito. Poi scattò il meccanismo che la sofferenza impone e le cose cominciarono a diventare familiari: presi confidenza con la televisione – l’unico interlocutore libero – con il lavandino – l’unica cosa veramente necessaria – con il corridoio che univa ventisei celle mescolando un unico, nebuloso insieme di rumori, odori, voci, pianti, risate, che ora neppure ricordo.

Più difficile mi fu prendere confidenza con l’idea di vedere la faccia di Vini ogni giorno.

Vini era un uomo che si comportava da donna, o usando il gergo del carcere, un frocio perso. In precedenza non avevo conosciuto dei froci, quindi, essendo i miei parametri di giudizio molto inflessibili, inizialmente il mio pregiudizio m’impediva perfino di guardare Vini.

Descriverlo è veramente una impresa ardua; spesso vediamo cose, facce, gesti, scene che riusciamo a classificare verbalmente come normali, anormali, felici, infelici, patetici, cinici, e  con mille altri aggettivi, ma a volte, proprio per la loro particolarità, ci è difficile anzi impossibile descriverli. Bisogna essere degli psicologi per descrivere i gesti di un uomo mentalmente morboso e Vini era veramente tale. Il suo viso riusciva a cambiare, dietro il suo comando, una quantità di mimiche ed espressioni, e curiosamente, ciò che invece non mutavano erano gli occhi: piccoli e tondi che uscivano come se volessero sfuggire dalle cavità; le due grandi occhiaie rosa che più di stanchezza indicavano benessere, mettevano in risalto le piccole orbite, esageratamente instabili. Inconfondibili erano anche le sue guance, sempre rosa, che si univano in un solo muso rotondo, che perdeva armonia soltanto dal piccolo naso e dallo spacco netto e lungo della bocca, così da fargli assumere le sembianze di una rana, il tutto era inquadrato da dei cappelli ricci, rasati sui lati e lunghi una decina di centimetri sopra la testa. 

Nella mia cella ogni cinque minuti si sentiva un acuto singhiozzo; siamo abituati a detestare i singhiozzi perché un volta comparsi non spariscono più per lunghi e fastidiosi minuti: Vini invece ne emetteva uno, singolo, tagliente e con il suono femminile che ricordava il singhiozzo di una bambina. Questo strano suono che arrivava in tutte le celle con regolarità aveva ormai  abituato le orecchie dei carcerati, ma per me fu sempre un vero tormento. Diventò un incubo a tal punto che finivo per chiudere il blindato e mi coprivo le orecchie con il cuscino.

Mentre Vini appoggiava con delicatezza le punta delle dita sul suo immaginario seno e si esibiva con gli occhi chiusi in quel suono acuto e veloce, mi riempivo di odio per questo suo lungo, lento ed interminabile singhiozzo, prodotto da quella brutta bocca da rana; lo guardavo con ripugnanza: diventò una condanna aggiunta.

Niente si conserva nel tempo, i colori dei vestiti e dei muri che vanno sbiadendo, le materie che si arricchiscono continuamente di segni e si appiattiscono, le opinioni che mutano i loro colorati indumenti; spesso anche i sentimenti cambiano e le persone odiate finiscono per essere accettate. Mi abituai all’idea di avere un frocio in condominio e, cosa più importante, le mie orecchie si abituarono ai suoi singhiozzi. Credo che anche Vini avesse capito la cessazione delle ostilità; mi salutava con molta gentilezza quando mi affacciavo al cancello per vedere se arrivava la posta, il mangiare oppure le sigarette. In carcere si attende sempre qualcosa e con impazienza: appena ti viene in mente una lettera vai al cancello e vedi se arriva la posta; ti viene in mente un parente e vai a vedere se ti chiamano per qualche colloquio; hai fame e vai al cancello a vedere se arriva il carrello. Cosi, mentre immerso nel pensiero che mi aveva spinto al cancello attendevo il rumore dei passi, immancabile giungeva la voce di Vini: “Ciao Luca!”

Lo guardavo sempre con gli occhi di uno che è stato appena svegliato.

“Buongiorno, buongiorno Luca, che bel sole oggi” aggiungeva con la massima femminilità nella sua voce.

 Non ho mai risposto ai suoi saluti, ma non li ho mai ignorati. Mi piaceva fissarlo con durezza senza dire una parola, un po’ per gioco, credo, o forse per comunicargli il mio disappunto; non si sa mai comportarsi con quelli strani, quelli fuori della norma

”Si, si è una bella giornata” rispondeva poi da solo al suo commento, poggiando una mano sull’immaginario petto e facendo risuonare con il suo singhiozzo il corridoio.

Ed è stato proprio in questo periodo di “distensione” che accade quello cui non si crederebbe mai di dover assistere finché non ti ci trovi davanti, in modo palpabile e reale.

La cella di Vini era tutta di colore rosso, le tende, le lenzuola, la tovaglia, le ciabatte, il grembiule e perfino gli stracci con i quali spolverava ogni mattina. In quel periodo di “distensione”, come ho già detto, avevo accettato l’idea della sua presenza ed avevo cominciato ad osservare i suoi veri  gesti e le attività monotone.

Lo sbirciavo spesso in quegli ultimi giorni, ma in realtà senza un occhio particolarmente indagatore. Faceva parte della nostra relazione di buoni vicini: ci si diverte sempre a sbirciare i vicini, soprattutto quando ci regalano delle stranezze, e Vini era tutto uno spettacolo che “intratteneva”. Girava per la cella camminando sulle punte dei piedi, la mano penzolava sempre priva di comando, per accentuare la sua femminilità; si legava un asciugamano in testa e cantava una vecchia canzone napoletana: insomma, si credeva una vera donna di casa e si teneva impegnato per tutta la mattina. Con puntualità si fermava, metteva la mano sul petto immaginario e aspirava quel suono da strano singhiozzo.

Realizzai che Vini durante gli undici anni della sua spensierata permanenza in quella cella, aveva ripetuto con maniacalità gli stessi passi, gli stessi gesti, la stessa canzone, lo stesso singhiozzo. La sua quotidianità era riassunta in un unico nastro che continuava a girare da undici anni.

Dunque, fu proprio in quei giorni ricchi di curiosità che vidi rompersi questa quotidianità. È strano come a volte scopriamo cose che sono state ferme, immobili, immutati da sempre e poi, appena cominciamo ad interessarcene, le vediamo frantumarsi, mutare, distruggersi come se avessero atteso secoli prima di regalare questo cambiamento esclusivamente a noi. Ci si domanda poi se siamo lì, spettatori involontari, richiamati soltanto per assistervi e allora pensiamo che, senza di noi, forse non sarebbe successo niente e tutto avrebbe continuato ad essere uguale per sempre. Ero entrato in carcere da appena un mese per aver picchiato mia moglie e dopo settimane interminabili di rimorsi, inquietudini, pianti, avevo cominciato ad abituarmi allo sporco dei muri, al freddo dei cancelli, alla falsità della gente ed anche a Vini, il mio vicino di cella frocio perso.

Era l’ora di socialità e stavo scrivendo una lettera, quando vidi tre detenuti entrare nella cella di Vini.

A quell’ora scrivevo sempre delle lettere ed ero sempre seduto verso il cancello, cosicché vedevo tutti i suoi movimenti. Di sera il regolamento del carcere permetteva un paio di ore di socialità tra i detenuti della stessa sezione. Vini non usciva mai dalla cella per fare socialità e in quei pochi giorni di “distensione” non avevo visto nessuno andare da lui. Avevo guardato il mio vicino sempre nella sua viziosa solitudine e ora che c’erano tre uomini con lui mi sentivo nervoso. Appoggiai sul tavolo la penna e mi accesi una sigaretta, si fuma sempre quando ci si trova in nuove e inaspettate circostanze.

La cella rosa, una volta l’unico panorama, dove rilassavo il mio sguardo quando si stancava dei pensieri, dove Vini trovava tutto lo spazio necessario per i suoi grotteschi balli, innaturali salti e disturbanti singhiozzi, ora era stata trasformata in un piccolo e incolore quadrato, dove quattro uomini si stringevano oscurandolo. Parlarono e risero per una decina di minuti come dei vecchi amici, loro in piedi e Vini seduto sul suo letto. Nessuno degli ospiti girò la testa per guardare dalla mia parte, ed io, uditore silenzioso, cercavo di cogliere i dialoghi.

Poi uno s’avvicinò a Vini, gli mise la mano sui capelli ricci come una lunga ombra obliqua, nascondendo al mio sguardo la sua faccia. Il rosa delle tende penetrò attraverso il braccio teso e la sua schiena gobba, avvolgendo gli occupanti della stanza, silhouettes anonime che ora sono in me presenti solo come memorie sfocate. Forse l’uomo chiedeva a Vini di ballare, di ridere, oppure di baciarlo; forse Vini aveva atteso quell’incontro da tempo, e ora si preparava a ballare, ridere, baciare. La controluce colpisce l’occhio impedendogli di decifrare le sfumature, ma spesso, quando si conoscono i particolari, le sagome diventano eloquenti, i movimenti si traducono in chiare scene e tutto trova il suo senso e il suo posto nella memoria.

Così, dopo che i due ospiti si unirono in un’unica ombra, discostandosi dalla scena come un sipario, vidi in controluce la sagoma dell’altro protagonista abbassarsi i pantaloni e avvicinare il braccio, che cadeva sulla testa di Vini, verso la propria nudità. Si chinò verso la sua mano che non si fermò ma cominciò ad ondeggiare avanti e indietro; il braccio, ormai l’unico arto mobile, faceva un lento movimento come se lui si stesse masturbando, poi si staccò dalla testa scura di Vini, rimasta ormai per inerzia l’unica cosa mobile. Mentre il movimento perverso prese velocità, l’ospite levò la mano dietro la testa in segno di abbandono, come se volesse dimostrare ai suoi silenziosi amici, oppure a me, lontano spettatore, il suo godimento per quel fellatio.

“Assistiamo spesso a delle stranezze, a volte con piacere, altre volte con disgusto, ci succede comunque di portarle impresse nella memoria per sempre. Durante la mia breve permanenza in carcere fui costretto ad assistere ad una scena che mi fece vomitare, ma nel momento in cui gli amici ancora oggi mi chiedono di parlare del carcere, richiamo sempre alla memoria  la storia di Vini.”

“Si parla della diversità con più facilità poiché la normalità si guarda con gli occhi immersi in qualche pensiero estraneo, mentre ciò che la rompe si osserva con curiosità, e la curiosità fa annotare i dettagli nella memoria. Ed era curiosità quella che mi obbligava a continuare a guardare la sagoma di quell’uomo che con la testa china parlava ad un altro uomo, forse pazzo, che immaginavo fosse talmente impegnato da non poter rispondere.

Non so se sarei rimasto a guardare anche gli altri ospiti che sicuramente attendevano il loro turno, ma accadde che, quando l’ospite fu congedato, e mentre dal buio del muro si staccò un'altra ombra per prendere il suo posto di fronte a Vini immobile, il primo si accorse della mia presenza, reagì senza neanche indossare i pantaloni. Venne al cancello, allungò fuori la mano tirò il blindato, lasciandolo socchiuso. Calò il sipario anche se solo per il primo atto.

Tutti abbiamo visto degli omosessuali per strada, in autobus, al lavoro, intendo dire quelli effeminati che si fanno riconoscere, sappiamo che ce ne sono altrettanti in closet, ma oltre ad essere consapevoli della loro perversione non ci soffermiamo ad immaginarli nei loro anormali rapporti. Tra il sapere che una cosa succede e il vederlo, oppure immaginarlo, c’e una grande differenza; almeno questo è ciò che ho pensato quella sera, prima nel vedere in controluce quell’amplesso, e poi quando ho assistito alla drammatica conclusione di quella inconsueta visita dei tre uomini nella cella di Vini.

Dopo che l’ombra nuda aveva chiuso il blindato, scappai dalla mia poltrona verso la finestra per prendere un po’ d’aria. Dopo essere andato a farmi un caffè e fumare una sigaretta in bagno, tornai al posto di prima. Ripresi la lettera lasciata a metà e cercai inutilmente di trovare le idee lasciate in qualche angolo che ora la mia mente sconvolta non ritrovava più. In cambio, accesi la televisione come se le sue immagini sconnesse mi dovessero riportare indietro di mezz’ora, per poter cosi, dimenticare le scene ormai radicate. Era come se qualche oscuro mistero cercasse di tenermi concentrato su quell’Ante Prima che non avevo chiesto di vedere, forse era la stessa misteriosa entità che mi aveva spinto di bere e picchiare mia moglie che ora, m’imponeva di essere testimone di ciò che si stava consumando dietro il blindo socchiuso.

Stavo pensando di buttarmi sul letto, quando all’improvviso ebbe inizio la seconda parte: Il blindo della cella di Vini si spalancò con forza liberando un urlo lungo e rocco “Aiuto!” Lui si era aggrappato con le mani al cancello e cercava d’infilare la faccia insanguinata tra le sbarre, le labbra spaccate e gonfie non cambiavano il suono che usciva già articolato dai polmoni. Realizzai che fosse nudo soltanto quando una mano strinse i suoi capelli e lo tirò indietro staccando la sua faccia rossa dalle sbarre dove rimasero aggrappate le sue lunghe dita; dopo un secondo, anche le mani mollarono la presa per difendere la faccia dai pugni e dagli schiaffi che la colpivano.

Uno degli ospiti poi, indossò in fretta i pantaloni e si affacciò al cancello guardando preoccupato verso il corridoio, in attesa della guardia che arrivò con passo lento e la testa alta. “Ragazzi arriva la guardia” disse, ma l’avviso fermò solo parzialmente il pestaggio: uno andò subito in bagno, mentre l’altro ora controllava l’andatura sempre lenta dell’agente “Minchia! Me che state facendo aa? Fermati ca l’amazzi a cussi! Collega! Venni ca s’acchiapparono arriri chisti ca!” Arrivarono altre due guardie, si posizionarono davanti al cancello e mi oscurarono la visione di Vini raggomitolato che si contorceva tra il sangue, i lividi, i dolori. Ascoltavo però il suo pianto, e la chiave che apriva rumorosamente il cancello per fare uscire i protagonisti dello spettacolo. “Che succediu aa?” “Niente appuntato, Mirco si è arrabbiato con Vini perché, l’ha trovato che barava a carte” “Sì appuntato, gli ho detto che non sopporto i bari, perché lui si era segnato di nuovo le carte da gioco.” “Picchiasti arriri u puipu perché ti rrobbava i caite? Ma a cu u racconti sta minchiata tu aa? Avanti, in cella ca ora viene u ispettura e parla idu cu u puipu! Avanti!”.

Ascoltai questo dialogo guardando le schiene delle tre divise, che poi si mossero per accompagnare nelle rispettive celle i protagonisti di questa parte chiaramente già recitata in quello stesso palcoscenico, e che sicuramente sarebbe stata messa in scena nuovamente in futuro.

Stavo fissando le tende color rosa, quando Vini si levò da terra e con la testa bassa indossò con velocità i pantaloncini e la canottiera del medesimo colore. Poi appoggiò con delicatezza le punte delle dita sul suo immaginario seno e con gli occhi chiusi singhiozzò con quel solito tono acuto e veloce, si avvicinò al cancello e allungo la mano per tirare il blindo, ma prima di chiuderlo mi guardò per un ultimo momento, come se avesse capito la mia attesa della conclusione di questa storia che mi aveva tenuto con il fiato sospeso per quasi due ore, come se sapesse che io ero stato mandato lì per assistere a quell’evento. “Non è successo niente sai, stavamo giocando a carte e abbiamo litigato, adesso però devo andare, Ciao! Ciao!” Mi parlò con una voce da bambina sbattendo le palpebre, forse in segno d’imbarazzo per il suo aspetto orribile. Aveva un occhio viola, la bocca spaccata e gonfia e dal naso colava del sangue che già si stava coagulando. La maglietta sgualcita era piena di macchie rosse, nere, marrone, e l’aveva messa a rovescio.

Siamo abituati a vedere, parlare, toccare persone in condizioni normali, ordinate, pulite. Quando ci imbattiamo in quello diverso, quello che esalta, che stravolge, e che non appartiene alla massa, lo guardiamo con curiosità e diffidenza, ma li notiamo sempre nelle loro vesti migliori – una bella gnocca con una minigonna di Gucci, un gangster con la scorta e con il diamante al dito, un pazzo da legare tatuato in testa, un travestito con gli occhi gonfi ma coerente nella sua metamorfosi – così odiamo, aborriamo, accettiamo, sogniamo, amiamo quello che è peculiare alla diversità, mentre io vedevo Vini in una condizione rivoltante e misera, che mi parlava con le sue frasi nauseanti che prima forse mi divertivano e ora invece mi facevano inorridire.

Essere presente a quella scena mi ha fatto veramente male, forse la punizione che mia moglie aveva scelto per me era proprio quella, di farmi assistere al male vero.

Non so quante volte nella sua vita, Vini sia passato attraverso quella situazione, forse un’infinità; ciò che per noi è diversità, spettacolo, per altri può essere routine, normalità; ma io che fui presente quell’unica volta da spettatore, ho tutto impresso nella mente e rivivo la scena  cui ho assistito in carcere tutte le volte che la racconto ai miei amici.

Per quanto riguarda me e mia moglie, beh, siamo tornati insieme e non le ho più dato uno schiaffo, anche se un paio di volte la tentazione è stata forte; ho imparato la lezione.