Sogno
di sabbia
di
Elton Kalica
Per
un pescatore, sicuramente quel panorama avrebbe annunciato una notte
minacciosa. Un esperto di mare non si sarebbe mai azzardato a prendere il
largo, anche se avesse avuto da sfamare tre famiglie.
Il
cielo si era buttato addosso una coperta pesante e non faceva trasparire
neanche la più piccola stella. Aveva avvolto gelosamente anche la luna
come per dire: fate quello che volete laggiù, noi siamo via.
Il
dorato della sabbia, che tutto il giorno aveva giocato scottando i piedi
dei fanciulli e rubando monete e braccialetti agli adulti, ora era sparito
per lasciare posto ad un grigio stanco.
La
sabbia, senza perdere lo stesso spirito giocoso, come un camaleonte, aveva
atteso la luce della luna e delle stelle, per poter continuare a giocare
con le reti dei pescatori ed i loro cani. Ma quando capì che per quella
notte, il cosmo aveva disdetto il suo consueto appuntamento, si distese
rilassata per tutta la baia.
Prese
sonno subito e diventò fredda e grigia.
Il
mare era quieto, anzi non c’era per nulla. L’assenza del cosmo
l’aveva confuso e come sempre, la confusione aveva finito per esaurirgli
le energie e costretto ad una tetra degenza. Le onde si trascinavano verso
la spiaggia in silenzio, per fare soltanto un piccolo salto giocoso sul
bagnasciuga. Sembrava si fossero accorte del sonno della sabbia e
cercassero di non svegliarla.
Non
era normale per il mare agonizzare in questo modo, specialmente quello,
che non stava mai fermo e che tramava continuamente ogni sorta di
cospirazione, pur di far sentire la propria presenza. Si divertiva di
giorno con tutti quei mezzi che scivolavano sopra, facendogli il
solletico. Luccicava, nel vedere quegli uomini sulle tavole, che giocavano
con le sue onde, le quali, come figli capricciosi, ignoravano i suoi
richiami. Andava su e giù, avanti e indietro per la baia con la
spensieratezza di un adolescente. Quando ne aveva abbastanza di giocare
con le solite barche e voleva sgranchirsi le gambe, quando il caldo lo
soffocava e voleva trovare la freschezza di una corrente ghiacciata,
allora strisciava via, fuori dalla grande porta, scoprendo una distesa
fredda e delicata di sabbia. Con l’aria tirata come una super-star,
abbandonava la sua fortificazione per andare a divertirsi e farsi
trasportare dalla frenesia della quotidianità oceanica. Non si voltava
neppure a guardare l’ormai inutile costa che, spoglia dal peso
dell’acqua, tirava un respiro di sollievo. La costa, dal canto suo, si
era abituata a questi colpi di testa del mare e lo guardava con passività.
Sapeva che poi sarebbe tornato puntualmente con quella sua aria pesante di
sempre, però, accadeva che, come una mezza lunato sorridente,
s’illudeva che forse l’auriga mollasse le redini e cosi, la sabbia
poteva respirare libera. Ma la nuvola dell’ineluttabilità la portava giù
dal fantasticare facendole vedere i piedi che cominciavano a immergersi
nell’acqua. Il sole scendeva giù dalla sua torre di controllo e
accendeva le mille luci dietro le sue spalle nere e nel frattempo, la
marea gonfia tornava a base e stanca riprendeva il respiro. Anche se, in
realtà, il ritorno non lo costringeva mai in un angolo a riposare. Non
conosceva il sonno. Da grande mare, da custode di un intero universo, il
suo compito era di rimanere sveglio. Di solito se la prendeva con i
pescatori che gli tiravano le reti contro. Nessuno era in grado di dire
con certezza se i suoi denti ringhiassero oppure ridessero. Tutti
cercavano di indovinare, di fare supposizioni completamente infondate.
Una
notte si mise a giocare con delle barche, facendole dondolare con
attenzione. Come se fossero dei bambini in culla le accarezzava, con le
palme bianche e deformate di bollicine. Un vecchio saggio disse con
convinzione che quella notte il mare era di buon umore: come osava
commentare i suoi stati d’animo! Quel vecchio non sapeva che
l’universo aveva imposto delle regole inderogabili che andavano
rispettate. Il mare mostrò i denti digrignando e si dette una scossa
nervosa che rovesciò tutte le imbarcazioni. Allora rise per il resto
della notte a pieni polmoni. Partiva dall’imbocco della baia in una
corsa ad ostacoli, e, ad ogni ostacolo, un salto d’onda atterrava
rumorosamente in un enorme ceffone, ad ogni risata calpestava una barca
frantumandola, e allora ridacchiava ancora di più. Forse, una volta
scattato la molla, si dimenticò del vecchio pescatore e dei suoi compari
- così come fa un bambino con
i suoi giocatoli sul tappeto di casa – per continuare a ridere e saltare
di gioia. Trascorreva così, spensierato, i giorni, i mesi, i secoli.
Invece,
in questa notte di dormienti, si stava annoiando del buio e del silenzio.
Voleva stare come sempre, sveglio e caldo, ma capì che sarebbe stato
impossibile. Malgrado, non volesse assopirsi e diventare freddo come la
sabbia, si rassegnò all’idea e allentò il respiro. Calò l’ultimo
sipario.
L’uomo
rimase fermo in un angolo della spiaggia. Ebbe un brivido freddo che gli
salì per tutto il corpo. Dette un’occhiata al buio in segno di saluto,
e poi vide la mano tremare. Il respiro affannoso mostrava il lungo
viaggio, tradiva la sua fretta. Capì che il tempo, offeso, si era
assentato trasportato da questa rinuncia unanime.
Cercò di controllare il suo respiro, per non svegliare il vento.
Piegato in avanti s’incamminò verso l’acqua. Era nero, alto, con
delle spalle strette. Il collo fine e lungo, s’intonava alla perfezione
con una testa ovale che si stringeva, piano ma deciso, verso l’alto. I
piedi scalzi esibivano delle caviglie sanguinanti. Portava abiti di un
colore che non si distingueva, in quella sua silhouette delicata e
serpeggiante che all’improvviso sparì. Si perse nel buio, per dare poi
segno della sua esistenza, soltanto quando un’onda, al contatto con i
suoi piedi, si spaventò e, dopo una timida esclamazione, fuggì, dando un
silenzioso allarme.
Ci
fu l’oblio. Il cielo opaco, la spiaggia grigia, il mare triste, unione
unanime. L’uomo sudava. Forse desiderava che tutto finisse lì, o forse
voleva richiamare l’attenzione di chi aveva la soluzione. Ansioso decise
di proseguire. Entrò nell’acqua. I piedi erano pesanti ma decisi. Il
tonfo dei suoi passi non causò l’espandersi dei cerchi, che di solito
non aspettano altro per partire veloci, onde in miniatura. Non dovette
vagare a lungo, non dovette neppure cercare. Contò mentalmente sei passi
e con la mano toccò il legno stanco della barca. Forse qualcuno glielo
aveva data in precedenza quest’informazione o per lo meno non vuole
pensare diversamente: nella vita di un uomo, succedono tante cose che, non
solo è difficile spiegare, ma spesso non si desidera nemmeno
tentare di capire. Salì
sul mezzo provvidenziale e prese a remare. Un lungo vogare e leggero che
lo trasportava in silenzio.
L’imbocco
della baia era lontano. Due alti promontori guardavano imperiosamente
verso l’oceano. Il capo di destra era una roccia millenaria. Tantissimi
ammiratori la salivano di giorno, complimentandosi di quel suo look
mostruosamente bello. Le offrivano poi in dono lo spettacolo del loro
tuffo dalla cima dello scoglio. Lei, come una regina seduta sul trono da
sempre, accettava in silenzio lo spettacolo.
Doveva
andare verso quella porta spalancata. Nonostante non forzasse la voga,
l’uomo ansimava. Non c’erano altri suoni nell’aria. I remi, nella
loro complicità, tagliavano la superficie dell’acqua senza il minimo
tonfare. C’era nell’aria soltanto l’umido e il fresco affanno di
quell’ombra avvolta dal buio della baia.
Il
capo di sinistra, che rispecchiava l’altra colonna d’Ercole,
s’innalzava ugualmente altezzoso. In realtà, questo fratello trascurato
e nevrotico, era orgoglioso di essere temuto dagli uomini. Andarlo a
visitare significava la morte. Quello scoglio traditore nascondeva sotto
il mare dei artigli assassini, i quali, coglievano ogni occasione per
rubare alla superficie imbarcazione e uomini: golosamente li tirava giù
nei suoi abissi, ridendo e sbavando schiuma bianca.
L’uomo
continuava a scivolare via con mancanza di respiro. Paura? Forse era
impazienza, oppure soltanto incredulità e ansia. Ignorava cosa ci fosse
oltre l’imbocco. D’altronde tutto gli era sconosciuto
in questa notte assente: non aveva saputo neppure che a riva
l’avrebbe aspettato la complicità del mare e nessuno gli aveva detto
che quella notte tutti si sarebbero smarriti nello spettacolo del buio,
che il cielo aveva cancellato le ombre. Tuttavia, si era incamminato verso
l’acqua come l’uccello chiamato dalla sua stagione preferita, il quale
sa di trovare il vento che lo attende puntualmente e l’accompagnerà nel
suo insicuro volo.
Ora
il largo misterioso tratteneva il respiro per non svegliare il cosmo, e
lui sentiva che doveva lanciarsi ad occhi chiusi.
Gli
vennero in mente ricordi lontani, quando il mistero non aveva quest’aria
cupa. Un tempo vagante e imprecisato, prima di distendersi su quella baia
era partito dal Nord e aveva seguito la scia dei ghiacci viaggiando per
anni su una valle infinita e colorita di vegetazione ondeggiante. Non
ricordava perché aveva voluto lasciare quel posto paradisiaco. Il viaggio
l’aveva ubriacato. L’oceano gli aveva fatto da guida e coccolato con
retoriche ciceroniche. Aveva intrapreso azioni, anche se insensate,
inevitabili. Si era lanciato impaurito tra enormi iceberg. Spesso aveva
dovuto saltare via con il cuore gelato, scottato da gaiser e fumarole
soffocanti. Ma, ricordava, che il più delle volte si era divertita,
soprattutto giocando a nascondino tra gole e corsi d’acqua sotterranei.
Il
fondo del oceano era incantevole, ma, incontrando milioni di simili, aveva
sentito racconti d’avventure grandiose; di montagne bianche e valli
verdi; di torrenti e cascate tonanti; di laghi coperti di melodie
primaverili. Meravigliato da tutto ciò, aveva deciso di raggiungere la
cima di una montagna e toccare la neve, per poi scendere un torrente con
la velocità di un respiro. Una volta arrivato, sorpreso, disilluso, si
era insabbiato. La curiosità gli era stata fatale e quella baia
paradisiaca era diventata la sua trappola.
L’uomo
si dette una scossa. Continuò la voga scotendo la testa come se il
pensare potesse portarlo a perdere la strada. Il viaggio proseguiva ad un
rilento straziante. I muscoli bruciavano in segno d’impazienza. Sapeva
che era un’occasione irrepetibile e che, fermarsi, sarebbe stato fatale.
In realtà si confuse per un attimo su quello che veramente voleva, ma
pensò a ciò che aveva sempre voluto fare e abbandonò il dubbio. Questo
ultimo flash gli svelò il miracolo del perseverare.
Il
sudore cominciò a corrodere l’ombra e lui arrestò i remi. Si levò in
piedi per misurare meglio la sua posizione in rapporto alla baia. Con
sollievo realizzò di aver quasi concluso la fuga. Diede un’ultima
occhiata a ciò che cedeva all’oblio. Vide la calma espressa in forma di
un cerchio immobile, fatto di sagome maestose. Lo smisurato piatto
d’acqua sembrava pesantemente soffocato sotto i suoi piedi, adagiata
come una bestia domata.
L’uomo
sentì l’avvicinarsi del momento. Adesso i due giganti pilastri deformi
si erano distanziati come per fare strada al suo passaggio. Il varco era
diventato largo e spazioso. Guardandolo da lontano sembrava strettissimo.
Dopo il suo dramma, l’aveva sempre ritenuto un tranello studiato con
cinismo: facile entrare, impossibile uscire. Diceva che l’avrebbe
oltrepassato soltanto attraverso un sogno. Invece ora comprese che quei
due alti promontori erano, da sempre, condannati alla divisione e
l’acqua, gli proibiva di incontrarsi. Provò pena. Pensò alla
frustrazione che l’idea della ineluttabilità aveva radicato nei cuori
di quelle due figure immortali e si ritrovò. Il mare non era solo il suo
padrone, ma aveva condannato anche i due scogli alla divisione eterna. E
loro ora, strumenti della potenza, chiudevano con gelosia la baia.
Vide
l’oceano e scolpì con gli occhi la sua salvezza. Smise di pensare alla
disgrazia della separazione. Spaventato accelerò la voga spaccando
l’acqua rumorosamente. Non mancava molto al traguardo. Doveva arrivarci
prima, che gli alti scogli, messi in allarme dal sole, lanciassero le loro
ombre in cerca di dormienti. Alzò la testa e capì che loro, con la
rabbia della loro miseria, odiavano le anime libere. Li vide, nella loro
grandezza goffa e spoglia, arrossire. Arrossire dalla luce del sole che
riempiva la baia di ombre. La preoccupazione lo fece tremare. Come aveva
potuto credere alla fortuna? La fortuna inganna sempre i sognatori.
Conosceva bene quelle ombre che, come tentacoli incastravano, per poi
scacciare le sensazioni negli angoli più bui dell’universo, anche le più
fantastiche dei desideri.
Ecco
che le vide arrivare strisciando. Erano terribilmente accecanti.
“Bambini!
non entrate in acqua che è ancora fredda.”
“No
mamma! giochiamo sul bagnasciuga”
“Carlo,
voi finite di montare la tenda e l’ombrellone, che io vado in macchina a
prendere gli asciugamani e la borsa termica.”
“Amore,
allora prendimi anche le sigarette per favore.”
Le
grida della gente cominciavano a popolare la costa. Il sole basso scaldava
già con insistenza. L’afa, giunta in silenzio, minacciava un ritornello
di sofferenza che, penetrò a martellate le orecchie del sonno. Le onde
non accarezzavano più i suoi fianchi, ma scalciavano con rabbia gratuita.
Diavolo,
se tutto quest’incubo avesse aspettato ancora un minuto, l’uomo
sicuramente sarebbe riuscito a fendere il tormento. Il caldo però,
impaziente, con ferocia era penetrato precocemente nei suoi pori.
Sgranchì
il lungo corpo di granelli e si coprii gli occhi con un pino, guardando
l’imbocco della baia. Addolorata vide le due ombre lunghe che avevano
afferrato il sogno, intrappolando la barca. Con rassegnazione girò le
spalle al sole. Si coprì del mantello dorato e, scottando i piedi dei
fanciulli, continuò a pensare alla prossima notte quando, coprendosi di
grigio, avrebbe visto di nuovo il suo sogno tentare di prendere il largo.
Forse!
Per
il giornale di strada “Terre
di Mezzo”
Piazza
Napoli 30/6, 20146
segreteria@terre.it