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Lo schiaffo provvidenziale
di Elton Kalica
Avevo sopportato l’arroganza e la stupidità di Giuseppe diverse volte, finché quel giorno non potei più resistere gli affibbiai un manrovescio sul muso facendolo sputare sangue per qualche minuto. E’ strano come con un semplice gesto – nel mio caso, il movimento di un braccio – si riesca a buttare fuori lo stress, l’avvilimento, l’odio che abbiamo accumulato nei confronti di qualcuno; l’idea di avergli fatto del male ti fa rilassare per qualche istante, ti ripaga della ingiusta sofferenza subita. Così, anche se in realtà avrei voluto dargli altri schiaffi, fui abbastanza soddisfatto, mentre l’altro si puliva col fazzoletto il labbro spaccato; ma non voglio parlare più a lungo di questa reazione abbastanza convincente e forse giustificata – concretizzata più nel dolore morale che in quello fisico di uno schiaffo. La mia giusta soddisfazione trovò risposta la notte stessa. Giuseppe aveva raccontato tutto all’ispettore capo e quest’ultimo, aveva fatto la dovuta relazione al direttore, il quale ordinò con urgenza che il detenuto, vale a dire il sottoscritto, fosse accompagnato in isolamento, nell’attesa del consiglio disciplinare”. Camminai lungo il corridoio, a me già noto, in compagnia di tre agenti silenziosi trascinando il sacco nero, con dentro lenzuola, coperte e due cambi di biancheria. Nella fretta impostami, avevo trovato il tempo e l’abilità di infilare anche due libri dentro le lenzuola, ma non avevo potuto prendere la lettera per la mia ragazza, scritta a metà; rammentai per qualche secondo il mio viso rilassato mentre scrivevo pensieri emotivamente speciali; con la convinzione che sarebbero giunti alla destinataria entro il tempo calcolato. Mi sentii ingenuo ad ipotecare il mio tempo: come facevo a fare calcoli quando sapevo che non avevo nessun dato certo riguardo alla mia esistenza, presente e futura? Troppe erano le circostanze che ne avevano il controllo assoluto, che se lo contendevano tra loro, e non c’era mai certezza su chi effettivamente avrebbe prevalso: il direttore, gli agenti, i detenuti pronti a rapportare, il magistrato, il destino stesso; erano tutti elementi incontrollabili che potevano influenzare la mia esistenza a loro piacimento, in assenza totale di una qualche modifica da parte mia, studiata o istintiva; anche l’istinto riesce a controllarsi quando riconosce l’ineluttabilità. Decisi quindi che non avrei più lasciato una lettera a metà: scrivere, imbustare, spedire prima, e poi aspettare le novità che il momento contingente mi avrebbe imposto a suo piacimento. Per mia fortuna, non mi abituai subito alla nuova temporanea abitazione, che non starò qui a descrivere: non si può descrivere una scatola di scarpe con dentro una branda, se non con il silenzio. Era proprio il silenzio quello che regnava nella cella d’isolamento, nei primi giorni della mia permanenza. Ne approfittai per leggere e meditare; si legge e si pensa molto quando si ha il corpo immobile e la consapevolezza che si rimarrà così, ancora per anni. Poi arrivò il mio tormento: un uomo che gridava con tutte le sue forze “Voglio uscire da qui” e che poi, mentre recuperava fiato per ripetere urlando questo suo desiderio, bestemmiava a voce bassa, come se temesse più un’offesa terrena che divina. Con difficoltà mi abituai anche a questo, e continuai il mio impegno con i due romanzi, con l’accompagnamento di questo sottofondo eretico. Accadeva che il grido di libertà fosse così acuto (invadeva, infatti, il piccolo corridoio seguito da un’eco che mi ritornava raddoppiando la tonalità del grido successivo), tanto da distogliermi dalla concentrazione ormai acquisita; allora non mi rimaneva altra scelta che affacciarmi al cancello e chiamarlo, invitandolo a fumare una sigaretta delle mie. “Non urlare cosi forte!” gli dicevo “fuma una sigaretta con me e poi mettiti a letto.” “No. Io non posso stare in isolamento, tu non capisci, devo uscire fuori di qui!” mi rispondeva, mentre allungava la mano fuori del cancello, per prendere la sigaretta che avevo buttato sul pavimento. Il primo giorno del suo arrivo questa scena si ripeté cinque sei volte. Il secondo giorno cominciò con le solite bestemmie a voce bassa, quasi gemiti, ma abbastanza forti da essere da me sentiti: “Perché? - porco dio; dio cane - che sfiga; ma perché? - dio porco”. Frasi che mi fu facile ignorare; non ci pensavo nemmeno a muovermi dal letto finché non ricominciasse con i soliti strilli. Leggevo, steso sul letto, con il sottofondo delle sue sacrileghe affermazioni e domande e non mi accorsi quando lui, stanco di attendere invano risposte che non arrivavano smise di sussurrare, regalandomi il silenzio dei miei primi giorni d’isolamento, quando ero solo. Non ricordo quando mi accorsi di questo improvviso silenzio; è facile dimenticarsi di uno sconosciuto che ti domanda una sigaretta nel lungo corridoio, oppure di qualcun altro con il quale scambi, magari nella attesa di una visita medica, un insignificante dialogo fatto di commenti futili e sfuggenti; così mi fu ancora più facile disinteressarmi di un uomo che per me non aveva un volto e nemmeno un nome, ma che si materializzava in una voce offensiva, in un grido che importunava, in sussurri disperati, soltanto per procurarmi l’emicrania. Ero steso, immobile, dentro una scatola di scarpe e mi dimenticai che, nella scatola affianco alla mia, qualcuno aveva smesso di gridare, di piangere, e di respirare. Ero nella mia singolare tranquillità che solo l’isolamento sa regalare; quando un odore fetido, invase le mie narici. Forse continuai a leggere fino alla fine del paragrafo, o forse, cercai per qualche istante di risalire mentalmente alla causa di quest’esalazione putrida che stava invadendo la mia cella e che aveva, già impestato il corridoio. Il silenzio, da me fin’ora ignorato, non durò a lungo. Saltai dal letto e aggrappandomi al mio cancello cominciai a chiamare l’uomo senza volto, e senza nome. “Ehi, amico; Ehi, vuoi una sigaretta? Rispondimi!” Ma l’unico a strillare questa volta ero io, mentre l’altro voleva essere lasciato in pace. Non ricevere risposta mi convinse del mio iniziale timore, il silenzio che prima non aveva richiamato la mia attenzione, ora era diventato eloquente, confermando quello che il mio intuito sospettava: l’odore putrido veniva dal suo corpo abbandonato. Avevo già assistito a due suicidi, uno dei quali era stato per impiccagione, e sapevo che spesso il corpo ancora caldo, si rilassava dalla lunga tensione e di conseguenza scaricava senza nessun imbarazzo, tutto il contenuto dell’intestino ancora funzionante, come ultimo gesto terreno, preparandosi per uscire di scena, senza tracce di vita. Quel tanfo, che ora seguiva con accanimento il lungo silenzio, mi convinse che la voce della scatola accanto, il mio tormento del giorno prima, mi aveva lasciato in pace soltanto perché soffocato da un lenzuolo. “Agente! Agente! Agente! Corri!” chiamai a tutta forza, finché non fui raggiunto dall’agente al quale, indicai la cella della voce ormai silenziosa. “Porca puttana!” esclamò lui alla vista di quello che io avevo sospettato a ragione, e corse via. Sparì per un paio di minuti, per tornare con i rinforzi che irruppero nella scatola da scarpe accanto alla mia, dove la voce che io conoscevo cosi bene non risuonava più. Arrivò una barella rumoreggiando, per via di una ruota che zigzagava ribelle; non sentivo più l’odore putrido di prima, eppure i due infermieri si coprirono il naso, ovviamente offeso. Dopo un attimo, l’uomo era pronto a lasciare la scatola adagiato in riposo; speravo di vedere il viso, forse reso viola dalle vene intasate all’improvviso, oppure bianco per il vuoto rimasto dalla fuga della vita, ma la barella uscì silenziosa circondata dagli agenti e gli infermieri che m’impedirono di dare un volto alla voce che mi aveva parlato il giorno precedente; potevo scorgere soltanto la ruota che ora traballava con difficoltà sotto il peso del corpo sconosciuto. Sentii gli agenti, o forse gli infermieri, commentare che aveva ancora polso e che non era morto, l’avevano salvato dalla morte che forse ora mi stava guardando con animosità, trovando in me la causa del suo banchetto mancato. Doveva capire che non era colpa mia se quello sconosciuto aveva deciso, forse aspettato, di offrirsi alla sua tavola, proprio mentre, chi aveva il controllo momentaneo della mia esistenza, aveva deciso di portarmi nello stesso luogo predestinato. E’ divertente come anche la morte, come me che avevo lasciato a metà la lettera per la mia ragazza, non aveva calcolato le influenze misteriose, sempre pronte a deridere gli ingenui. Ne deduco che d’ora in poi, anche la morte deve tener presente e tentare d’avere la sua influenza tra quelle entità che, cosi cinicamente, si contendono il controllo delle nostre esistenze, private dalle ragioni e dagli istinti; altrimenti avrà di nuovo tra i piedi qualcuno pronto a gridare “Agente, corri!” |