L’angelo

 

di Elton Kalica

 

Tintinnio di chiavi, il cancello che sbatte, passi che danno il segnale inconfondibile dell’arrivo dell’agente; rumori che rimbombano nella mia cella satura di pensieri.

E’ mezzogiorno e, non essendo l’ora della conta, istintivamente dedico un po’ di attenzione a questo rintocco invisibile per vedere che cosa succede: la paura che incombe impone sempre curiosità, specialmente quando si è assuefatti al brivido. Abbasso ulteriormente la televisione per percepire meglio il ritmo. Ascolto, cerco d’interpretare, di anticipare il seguito, in modo da trovarmi preparato ad affrontare la contingenza annunciata.

I passi lenti formulano il richiamo alla vita che la cella rende indifferente, cinica, noncurante, anche se in fondo, non differenziano questo luogo dandoli vita.

Spesso, da fuori delle mura del mio carcere si sente il canto di uccelli che non riesco a distinguere, i quali con le loro melodie compongono quell’unità invisibile ma palpabile della vita; la vera vita che scorre lontano ma che non mi trascina, che mi dà soltanto la gioia di affacciarmi alla finestra e guardarla scivolare: quell’unità di melodie non è una natura morta, non assomiglia a questi passi, che ora mi spingono ad affacciarmi al cancello con la stessa inquietudine e con la stessa ansia con cui guardo gli uccelli.

Quando, affacciato alla finestra, il panorama che osservo è il muro di cinta, e immagino con piacere quello che nasconde, che separa, allora a richiamarmi è la vera vita. Se poi mi aggrappo al cancello ad ascoltare il ritmo dei passi blu, ed aspetto di vedere l’agente fermarsi davanti a me mentre apre la porta dicendo “puoi andare a casa”, allora non immagino più con piacere la vera vita che scorre, ma mi strazio dall’illusione di vedere spuntare la vita dal pavimento secco e nero, dal cancello rosso e sporco, dai passi tetri e morti.

Sono avvolto dallo stesso strazio adesso che ho abbassato la televisione per sentire il corridoio vuoto, i passi interminabili, le grida appannate, contenuti dello stesso unico quadro.

I passi non si sono ancora fermati, dove staranno dirigendosi? Si fermeranno mai? Forse continueranno per l’eternità come il tic-tac di un orologio. Non è l’ora della conta, è l’ora della posta, e i passi sono il messaggero che porta notizie, che, belle o brutte che siano, trovano sempre come mezzo questi passi, lo stesso corridoio che fende silenzioso le grida della gente chiusa, la medesima ora spensierata e vuota.

L’agente si ferma di fronte al mio cancello. Perfetto, c’è posta per me, un messaggio da fuori, dalla vera vita. Dal pavimento nero non è spuntata la vita – non ci speravo nemmeno – tuttavia è giunto un messaggio. Dovrei essere contento di essere ricordato dai vivi attraverso questa lettera, dovrei sentirmi fortunato perché tra tutti i compagni, i passi hanno portato il messaggio a me; ma sento la fortuna che si rattrista. Niente brividi, solo angoscia fredda e aritmia del cuore in allarme. Il messaggero conosce bene il suo mestiere, sa leggere le facce, l’attesa, il dolore. Strappa al rallentatore l’angolo della busta, mentre io, con la mia mente cerco di premere il pulsante dell’acceleratore. Mi vede contorcere la fronte nell’impazienza e, così si sente ripagato; il disturbo della sua camminata cerca la ricompensa nella mia faccia tesa, ed ora l’ha trovata. Si assicura della legalità del contenuto e mi consegna la busta. Guardo la sua faccia e tremo: ha assunta dei lineamenti spaventosi, ha gli occhi rossi e le orecchie appuntite.

Riconosco la calligrafia ordinata e pulita di mia madre, e leggo velocemente il solito inizio che, terminato, lascia spazio al corpo fatto di parole consolanti, e di suoni terribili. Lego, ma mi sembra di udire le parole scritte, il suo pianto invade la mia cella.

Il mio miglior amico – lego – è morto, e lei che lo ha visto crescere assieme a me – sento – piange. Mi appaiono immagini sbiadite, sequenze disconnesse, tempi e spazi alterni, di anni scivolati in discordanti silenzi, di lui – il mio miglior amico, ormai morto – e di me, che passo gli anni nell’attesa di riprendere a vivere senza pensare all’inevitabile.

Chiudo gli occhi e rivivo la sua vita in pochi secondi, un’intera storia, passata in rassegna con la velocità della luce: noi all’asilo, a scuola, al liceo, maturandi, poi niente. L’ultima volta che gli ho parlato, è stato il giorno che sono partito da Tirana, l’abbracciai e gli assicurai che l’aspettavo a Bologna, dove intendevo iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza. Avevamo diciannove anni, e ora vedo che l’ultimo suo ricordo è un viso da ragazzo dove la barba era appena spuntata senza uniformità.

 

Tanti anni sono passati da allora, misuriamo il tempo frazionandolo in anni, mesi, giorni, ma quando si pensa ad un amico, un amante o un parente, si misura il tempo ricordando gli avvenimenti più importanti della sua vita a quel punto sbiadito, oppure i lineamenti del suo viso sempre più stanco. Penso al tempo che è scivolato furtivamente dalla mia vita e lo spezzo in due periodi, una prima parte in cui il mio amico è vicino a me, presente, vivo, e un’altra in cui è lontano da me e ugualmente vivo; sempre fermo nei suoi diciannove anni, sospese eternamente dalla mia memoria.

Questo secondo periodo si compone di molte altre vicende che hanno come scena, il carcere dove sono detenuto da cinque anni – lunghi e dimenticati – mentre non so niente di come il mio amico ha passato questo stesso periodo. Non so se era felice o triste, se era amato oppure odiato, non so nemmeno com’era il suo volto nel momento della morte ignoro se era magro o grasso, ricciuto o stempiato, sorridente o triste. Chi gli è stato vicino negli ultimi giorni, lo ricorderà per sempre nei suoi venticinque anni; conserviamo sempre il ricordo eterno e immutabile di chi muore, o di chi è lontano. Ho trascorso questi anni di detenzione, ricordando in modo anacronistico i miei amici, i miei parenti, la mia ragazza, ricordandoli nella loro gioventù, ormai conservata soltanto da me, e, cambierò le loro immagini dalla mia mente, soltanto se un giorno potrò sostituirle con quelle reali, soltanto se potrò rivederli. Il mio amico invece – cosi come i miei nonni ed altri parenti ormai morti – rimarrà per sempre in me, con il suo volto di sei anni prima della sua morte; come i volti che ho visto quando sono partito per l’Italia e che ora invadono disordinatamente la mia memoria, nelle loro immagini più belle, che la mia mente ricordi. E’ un album di persone che ora non ci sono più, quello che sfoglio adesso. Nel caos di occhi sinceri, bocche indulgenti e dolci, nasi acuti e intelligenti, distinguo persone appartenenti al passato, che una volta riempivano il quadro della mia esistenza. Tutto si muove incolore, senza un ordine di spazio o di tempo, decine di volti di ragazzi, di giovani, di vecchi, di donne e di uomini; riconosco tanti ma non tutti. Mi salutano, mi sorridono, mi fissano intensamente come l’ultima volta che li ho visti, quando erano vivi, e ora sono tutti morti; tutti con lo stesso privilegio di essere rimasti nella mia mente, più giovani e più belli di quello che erano nel momento della morte. Forse è per quello che ora mi sorridono: desideriamo sempre che gli altri ci ricordino belli e giovani dopo la nostra inevitabile morte.

Cerco con gli occhi il mio amico, ma non lo vedo; forse non è ancora giunto tra loro, tra i tanti. Ora le sequenze del loro apparire diventano più brevi e più veloci, come dei flash. Una catena di volti umani accerchiati di luce attaccano i miei occhi chiusi e la mente annebbiata dal dolore e dall’ansia della ricerca. Poi, il buio.

Ho sentito raccontare di svenimenti, perdite di coscienza brevi e lunghe, e tutti sostengono di ricordare poco o nulla degli ultimi momenti, prima della caduta. Io invece, ho tutto inciso chiaro nella mente, persino adesso mentre scrivo narrando la storia e il dolore, ho avvertito quasi la stessa sensazione di vertigine e di annebbiamento, come se nella mia mente si fosse creata una voragine dove si cade ogni volta che ci si mette il piede.

Non so come e dopo quanto tempo, fui ritrovato accasciato per terra e portato in infermeria – difficile ricostruire una situazione dove la mente è assente – ma ricordo di aver continuato a cercare il mio amico tra i tanti volti luminosi, e, di averlo in fine trovato. Parlammo a lungo ricordando i tempi della scuola trascorsi insieme, poi, l’ascoltai in silenzio, mentre mi raccontava con entusiasmo ciò che aveva fatto durante gli anni della mia assenza, ciò che avrei fatto anch’io se fossi stato a Tirana assieme a lui, facendomi così ugualmente partecipare, sebbene siano passati molti anni; anche se io sono in carcere, e lui sia morto. Poi giunse il momento dell’addio e, sorridendo, volò su in cielo avvolto dalla luce bianca del mio risveglio.

Vidi con tristezza la bocca storta dell’infermiera che mi guardava con la stessa impassibilità di sempre, e la smorfia del dottore che, accertato il mio rianimo, ordinò di riportarmi in cella.