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Il verde dimenticato
di Elton Kalica
Elaborato classificato al 2° - 3° posto ex aequo al premio letterario “Voci dalla finestra” (sezione prosa), promosso fra i detenuti delle carceri italiane dal Distretto 2030 R.I. e dal R.C. Torino Polaris, nell’anno 2004
Due fogli, una domanda d’acquisto e una lettera per un amico, volano via dal tavolo rapiti da una corrente d’aria, che provvede ad abbandonare la mia stanza con la stessa velocità con la quale l’ha invasa. Disteso sul mio letto, assisto con indifferenza a questa scena senza tempo. Ho già provato a chiudere la finestra, ma il caldo soffocante mi ha convinto di patteggiare con il vento distruttore e lasciare la finestra aperta. Ormai il dolore cervicale mi accompagna da anni, cosicché un eventuale colpo d’aria passerebbe tranquillamente inosservato. Ignorandolo, rimango immobile e chiudo gli occhi che accettano con piacere il buio profondo. Il verde delle siepi copre i tronchi dei pini e delle betulle, facendo da sfondo uniforme al panorama. Forse le violette e le primule si nascondono, mimetizzate nel tetro del giorno senza tempo, visto che, oltre alle ombre del verde cinabro scuro, nessun altro colore appare. Lui corre, è giovane; capelli neri e disordinati che ribelli coprono il collo e le orecchie. Invece di saltare, scivola in velocità costante attraverso questo parco denso e tenebroso: il passo leggero e la corsa si trasformano in un’ inavvertito navigare. Un ragazzo corre a testa bassa nel parco saturo d’immobili ombre che, prese a serbare il silenzio del grigio circostante, l’avvolgono di una sbiadita sfumatura. In questo mio ordinario sogno, nonostante il palese ristagno dell’aria, la giornata è fresca; l’annuvolamento verde delle piante non mi impedisce di scrutare l’uniforme paesaggio dell’opprimente bosco, e inoltre posso distinguere in basso, forse con un po’ d’immaginazione, la vita polverosa della città di sempre. Il passo del ragazzo ora è morbido nell’affrontare una salita zigzagante, senza cambiare il ritmo. Di fronte gli si prospetta un sentiero sconosciuto, ma lui non rallenta. Lo stretto passaggio è però sufficiente per far penetrare un uomo, serpeggia tra i cespugli compatti, nascondendo la sua lunghezza e la vera direzione, ma lui s’inoltra ugualmente con decisione in questa natura selvatica che – mi accorgo soltanto ora – mi è tanto famigliare quanto questi leggeri passi. Forse qualcuno si sarebbe insospettito dall’assenza di canti di uccelli, oppure si sarebbe dovuto chiedere perché le foglie fossero immobili. Ecco che la salita termina, ma non la corsa. Il respiro è quello di un dormiente, forse anche il battito cardiaco. Cespugli, allori e siepi si confondono e fanno del parco un mistero che richiama antiche paure, ma il rilievo del sentiero invece – confermo – ha qualcosa di familiare. Sembra che le gambe lo conoscano bene, allo stesso modo in cui hanno riconosciuto tutto il percorso. I passi si inseguono a vicenda felici; saprebbero accarezzare con disinvoltura ogni radice o avvallamento del sentiero secolare, mentre dal canto loro i salici piangenti avvolgono il paesaggio di ombre e ignorano i glicini eclissati malinconicamente in questo deserto pauroso. Ora i dubbi diventano certezze e lo sfondo tetro che ingloba tutto si spezza. Un tronco, supino in un piccolo pezzo di terreno pianeggiante, sembra aver trovato riposo dopo chissà quale pellegrinaggio. Il tronco è una vecchia conoscenza. Finalmente, quell’albero abbattuto da secoli, risveglia qualcosa facendomi scogliere il nodo dell’enigmatico sogno. L’occhio, disorientato dal labirinto vegetale, ora si complimenta con la destrezza delle gambe che, così come il cane che corre catturato dai suoi sensi, hanno trovato puntualmente il vecchio tronco steso su un prato costantemente verde. In questa felice visione, la mia spenta e ancorata memoria trova conferma. Lei, splendida come sempre, seduta in solitudine aspetta a testa china il disperdersi delle tenebre. La mano bianca unisce il suo braccio al tronco dell’albero in una linea continua; sembra che l’abbia accarezzato per secoli la superficie del tronco – fino a scrostarlo e lisciarlo – con quella mano, e che ora, esausta, si sia arresa all’agonia dell’ultimo respiro. Il ragazzo, disinteressandosi del tronco, le si siede vicino. L’abbraccia, le bacia le guance, gli occhi, il collo, il petto. Un’ affannoso e assordante respiro indurisce lo sfondo dandogli, con un fulmineo pennello, dei colori violenti mentre gli occhi, chiusi dal piacere, scintillano. Ahimè! Anelito entusiasmo, che disturbavi quotidianamente l’ubriacante sinfonia di quell’angolo gioioso e che oggi, soltanto tormenti la mia anima senza stelle. L’odore della pelle, nella sua naturale funzione, accelera tutte le funzioni: i baci, il cuore ma anche il tempo è dannatamente veloce. La passione si ripete nella sua evoluzione difforme, e rapisce i due giovani corpi, ormai nudi. Maledizione! I quattro punti cardinali continuano a ruotare; un uragano che non riesce a coinvolgere nella passione il tronco, il prato, i salici e le ombre che fermi e ormai svegliati, si rivestono di bagliori accecanti. Il temuto albore irrompe puntualmente nel mio sogno, vita continuamente frazionata dall’irruenza del disperato risveglio. Tutto è così silenzioso. Qualcuno si dovrebbe chiedere dell’assenza dei canti degli uccelli, oppure si dovrebbe insospettire delle foglie immobili. E il vento? Anche il vento è assente… Ma che ore sono? Questo vento, mi ha cullato dolcemente con la sua freschezza, permettendomi con rara bontà di dormire nella triste serenità dei ricordi. Ora sarà meglio che chiuda la finestra. |