Hassan al pronto soccorso

Una piccola storia di “ordinaria” sanità penitenziaria

 

di Elton Kalica

 

Questa mattina, l’aria si presenta subito soffocante. Il desiderio generalizzato dei detenuti del primo braccio è quello di stare a letto e continuare a dormire ancora per un paio d’ore. Il caldo impedisce di prendere sonno durante la notte, cosicché la televisione diventa la migliore delle terapie. Solo verso le due o le tre, quando la temperatura cala un po’, si comincia a dormire, per poi far prolungare il sonno il più possibile, spesso fino a mezzogiorno.

Ma questa stessa mattina, secondo il programma interno, è l’unico giorno della settimana durante il quale si potrebbe andare in palestra a giocare a calcetto. Spesso però il programma non viene rispettato per mancanza di personale, e si rimandano i detenuti alla loro solita routine. Ma questa statistica negativa non demoralizza tutti, anzi sono in tanti che si svegliano con l’idea che oggi c’è la palestra. Così, alcuni più fiduciosi si sono alzati dal letto, hanno fatto il caffè e si sono messi i pantaloncini per essere pronti nel caso si vada in palestra. Altri, quelli scettici per natura, sono rimasti nel letto per evitare altre delusioni.

Ecco che in questa mattina di lunedì, mentre il sole con violenza riscalda la piccola cella aggiungendo alla sofferenza del caldo il ricordo del mare e della spiaggia, l’agente, per la gioia di tutti, grida “PALESTRA!”. Tutti giù dal letto e via a giocare.

Se qualcuno dovesse fare la cronaca della partita in diretta, avrebbe molte difficoltà. La varietà dei colori delle magliette non dà la minima possibilità di distinguere le squadre. Il gioco entra subito in una accesa competizione. Tutti rincorrono con tenacia il pallone oppure seguono con entusiasmo lo schema che non c’è. Ci sono un paio capaci di palleggiare e poi, piazzati nelle rispettive difese, ci sono quelli più robusti, a volte pure grassi, che a fatica tirano su le gambe, ma che quando intervengono su qualcuno lo scaraventano come uno straccio contro il muro. Saltarli è facile, ma se non ci riesci, sei spacciato. Oltre al miscuglio di magliette, di stature e d’agilità c’è anche un miscuglio di caratteri. Alcuni ridono e si divertono calciando il pallone ogni volta che se lo trovano tra i piedi, altri si coinvolgono emotivamente e gridando con nervosismo impartiscono suggerimenti oppure ordinano a chi passare la palla.  

Ecco Hassan, un arabo alto, che vedendo una palla che gli vola vicino, cerca di fare una rovesciata, tipo Crespo. Riesce nel tentativo, anche se cade schiaffeggiando il pavimento, però manca il gol. Dopo tutto è stata una bella azione. Tutti hanno gradito il gol mancato. Ma c’è qualcosa che non va, Hassan è rimasto fermo per terra. Si è fatto male. Nessuno capisce cos’ha. Tutti i giocatori sono corsi ad assisterlo, due di loro si staccano dal gruppo per andare a chiamare l’agente, che si mette subito a parlare per radio. La sua conversazione con l’apparecchio è breve. Hassan ora è in un angolo del campo e la partita riprende.

Hassan è marocchino. I suoi capelli neri, ricci e corti, assieme al viso lungo e scuro, mostrano chiaramente la sua origine. L’espressione della faccia, già di per sé stampata di tristezza, ora è esageratamente sofferente, mentre lui sta lì abbandonato in quell’angolo del campetto. E’ magro e alto, Hassan, e la sua schiena ha una naturale piega in avanti che di profilo lo fa assomigliare a un punto interrogativo che si è perso e non segue più la domanda. Ora però il suo corpo ha preso una forma molto strana. Nella caduta, il suo braccio destro è uscito fuori posto e pende senza controllo. Hassan si appoggia contro il muro e segue la partita con occhi bastonati. Nessuno sa quanto pesa un braccio, ma vedendo lui con la spalla inclinata si può dire che pesi una tonnellata.

La partita continua come prima tra grida, litigi e risate. Passano una decina di minuti e Hassan viene accompagnato da un agente fuori dalla palestra. Sparito dalla nostra vista, bastano due minuti per dimenticarci di lui. La mattina è appena cominciata e bisogna pensare a correre e giocare.

A mezzogiorno, appena finito di pranzare, l’agente del mio braccio mi informa che posso andare dal dentista. Perfetto. Sono più di otto mesi che ho fatto richiesta e finalmente posso andarci. Il dentista mi ha otturato un dente quasi un anno fa, ma nel giro di qualche settimana l’otturazione ha cominciato a disfarsi. Ho perso quasi la metà del materiale in poco più di un mese. A quel punto ho richiesto un’altra visita odontoiatrica. Ci sono voluti appunto otto mesi per essere chiamato e ora mi preparo veloce come se temessi che loro possano cambiare idea e rinviare la visita di altri otto mesi. Percorro scale e corridoi correndo. Giunto nel reparto infermeria mi indicano la cella d’attesa, poiché il dentista è occupato. Entro nella celletta e lì trovo seduto Hassan con quella stessa posizione deforme. L’espressione della faccia è sempre quella di un morente, ma d’altronde non riuscirei ad immaginarlo diversamente.

“Ma cosa fai ancora qui?”, gli domando. “Non ti hanno medicato?”.  Mi guarda dal basso in alto e mi risponde di no. Dopo qualche minuto di silenzio mi racconta che gli hanno comunicato che lo porteranno all’ospedale civile di Padova e che deve attendere la scorta. Guardo l’orologio. Sono le 12:45 e cerco di ricordare quante ore ha passato lì nell’attesa. Sono almeno tre ore di dolori. Ma a un certo punto gli hanno fatto delle iniezioni di antidolorifici e ora non sente più nulla. E’ seduto sulla panchina e, con il petto che riposa sopra le ginocchia, ha lasciato il braccio cadere fino al pavimento. Lo lascio in questa posizione scimmiesca, quando mi chiama il dentista, e lo trovo nella stessa posizione quando esco. Ho passato una mezz’ora dal dentista, un uomo basso e tarchiato, con la testa grossa e pelata che fa da cornice ad una faccia rotonda che sorride sempre. Lui mi ha dato un’occhiata al dente e mi ha assicurato che c’è ancora materiale dell’otturazione. Rispondo che, nonostante tutto, il buco nel dente è diventato comunque una caverna, ma il dentista preferisce convincermi che non c’è la necessità di rifare l’otturazione, piuttosto che rifarla. Gli chiedo con insistenza di riempire questo dente ormai per metà vuoto, ma la sua scarsa convinzione di farlo lo spinge in un lungo discorso in cui mi spiega gli ideali rilievi dei denti, il modo migliore per masticare e lavarli. Poi mi promette che, se dovesse fuoriuscire ancora del materiale oppure cominciare a farmi male, allora potrò ritornare, e lui mi rifarà l’otturazione. Ma come, dovrei aspettare che esca tutta l’otturazione, oppure faccia male un dente devitalizzato? Scappo via, perché più che un dentista, mi sembra un venditore ambulante che cerca di rifilarmi un pacco. Saluto Hassan augurandogli buona fortuna e mi incammino lentamente per i lunghi corridoi in direzione della mia cella.

Ecco che in questa mattina di lunedì, mentre il sole con violenza continua a riscaldare la piccola cella, l’agente chiude il cancello dietro le mie spalle. Stranamente non penso più ad Hassan che aspetta con eroica pazienza la scorta per andare al pronto soccorso. Non penso neanche al dentista che non ha voglia di lavorare, cerco solo di capire se c’è qualcosa che si può cambiare in questo posto dimenticato anche da Dio.