|
Gabbie dentro gabbie premiato col sesto posto dalla giuria del concorso letterario del 2003 per immigrati EKS & TRA
“ Quale maggior solco, intagliato nell’anima, se non il sogno di un ruscello nel deserto, oppure quello del volo in una gabbia?”
di Elton Kalica
Non era giorno ma, neanche notte, era un tempo complice del tempo. L’aria disubbidiente soffocava il cielo che, non era più vivo come una volta ma, giaceva immobile. Immerso in una nuvola fluttuante, con le ali abbandonate come se volesse coprire i sottili piedi, il piccolo storno restava fermo nella sua gabbia. O sì, aveva protestato, gridato, si era agitato fin allo sfinimento, aveva persino morso il posatoio e agitato le ali contro le pareti fino a coprirli e scaldarli con il suo sangue. Si era guardato intorno per anni e aveva aspettato che qualcuno venisse a liberarlo. Poi aveva cercato di poter almeno, prendere il volo nei suoi brevi e confusi sogni. Non sapeva come fare a cacciare via gli incubi, i dialoghi senza senso e le persone sconosciute che venivano ogni notte a visitarlo. Tutto ciò che desiderava ormai, era di sognarsi un volo, un battito di vento, un respiro di sole. Aveva sperimentato e tentato diversi tragitti per poter giungere alla meta, la sua mente si muoveva in ogni direzione ed era diventato un impegno quotidiano. Sentiva d’essere vicino, di aver trovata la strada giusta, ora, saldo sui suoi piedi, cominciava il suo straziante volo, di viaggio e di ricerca, con il dimenare dei soli occhi. Diverse primavere aveva trascorso in quel posto e, guardando dove il sole non passa mai, aveva puntualmente atteso, pronto al lancio, di prendere il volo come la natura gli l’aveva inculcato sin al inizio del tempo. Poi, la stagione del lungo viaggio si addormentava per risvegliare al prossimo fiorire. Deluso, abbassava le ali per cominciare una lunga meditazione. Chiudeva gli occhi, esplorando con la mente i soliti percorsi, cercando inutilmente la strada. Le sue piume, avevano sempre quel colore che non gli apparteneva. Erano rimaste cosi da secoli, e ormai sembrava, che non avevano più nessun’intenzione a riprendere il loro colore naturale. Quella disgrazia aveva segnato definitivamente ogni cosa, nel modo più assurdo. Era cominciato tutto come un gioco. Anzi, l’avevano fatto diverse volte quel gioco di tingersi le piume, ma poi bastava una semplice sciacquata per ridarli il colore originale. Quell’ultima volta, però, era andato tutto storto e, per diavolo, ora soffriva la gabbia e lo sporco. E pensare che quel gioco era stato cosi divertente: si mascheravano da canarini e saltavano cantando ed imitandoli. Si perdevano in questo ballo mascherato, baciando ogni ramo d’albero verdeggiante, cantando amore e lodando qualsiasi fiore che, inevitabilmente, sorrideva alla vista degli inconfondibili storni mascherati. E poi all’improvviso, quella rete aveva spezzato tutto: la loro gioia, le loro ali e il sorriso dei fiori. Adesso, tutti credevano al bel colore delle sue piume mentre, la sua vita andava assorbita in un deserto viscoso, e le sue penne erano ancora gialle. A molti faceva tenerezza, ad altri no ed a qualcun altro era quasi indifferente. Ecco che, inaspettatamente, quel giorno senza tempo, la sua mente smise di viaggiare senza orientamento. L’errante ricerca del tanto atteso sogno si concluse. Non vagava più in quel labirinto fangoso che cosi a lungo l’aveva tormentato: finalmente la strada era illuminata ed asciutta. Sereno cominciò a sognare. Riuscì a materializzare nella mente, ciò che come una forza oscura l’aveva chiamato nelle lunghe notti unanimi. Da principio, toccò due mani, forti e delicate. Quella che stringeva la sua destra aveva le ditte lunghe, le unghia ordinate e la pelle bianca e liscia. Era sicuro di riconoscerla. Era stata proprio quella mano che, per prima, aveva toccato le sue piume ed aveva capito l’imbroglio e l’inganno del destino. E poi avevano parlato, lei raccontava storie magnifiche. Non aveva solo riempito i tanti spazi tristi della sua esistenza, ma l’aveva trasportato lontano da lì, facendogli dimenticare la sofferenza. Nonostante non riconoscesse l’altra mano, ne sentiva il calore, bensì lontana, e la stringeva d’istinto. Il cuore palpitava con la velocità del vento del nord, mentre stranamente, si sentiva la testa pesante, molto pesante. Rimase cosi, stringendo quelle mani, per giorni e notti interi. Non poteva vedere oltre, nel buio della felicità stancante, ma percepiva presenze e stringeva ancora più forte quei dolci appigli. Poi si senti portato di nuovo tra battaglie sanguinose, tra spade fragorose, tra cavalieri coraggiosi e bellissime principesse. Sapeva che non sarebbe durato, come non dura quel che si ama, come non dura la vita stessa, quindi tutto gli sembrò meravigliosamente triste. Come quella cometa che ti affascina col suo splendore ma poi ti rattrista col suo fuggire. Non era la prima volta che aveva tale sensazione, anche se adesso gli appariva irrealmente intrigante. Dopo tantissimo tempo, forse un’eternità, gli parve di vedere una luce proveniente dall’orizzonte. Non realizzò se era un autentico risveglio oppure una deviazione del suo riposo, ma tenne ugualmente gli occhi aperti. Poi la visione si schiarì e lui si accorse che quella che vedeva, non era una luce, ma una strada. Si vide camminarci sopra mentre, girando la testa, cercava di vedere dove era rimasta la gabbia: era sparita. Eccitatissimo di essere finalmente riuscito a trovare la strada, sentì le mani sudare. Non aveva mai smesso di stringere quelle mani che ora lo guidavano, tirandolo verso l’orizzonte. Segui con gli occhi la mano bianca e vide, per la prima volta, il braccio lungo e splendente. Poi luce, solo luce. Cercò di distinguere il viso, ma la luce lo accecava. All’improvviso s’inquietò. Ebbe l’impressione che tutto fosse già avvenuto, ma la preoccupazione durò poco. Cercò di visualizzare il corpo coperto dal bagliore. Si chiese quale era l’origine del movimento, poiché, invece delle gambe, c’era solo luce. Forse aveva bisogno di un altro sforzo mentale per poterla oscurare, ma si sentì stanco, molto stanco. Sebbene la visione fosse accecante e incompleta, nonostante la strada sembrasse di non finire più, e malgrado la stanchezza, comprese d’essere felice. Stava camminando per questo misterioso tragitto, lasciando tutto dietro le spalle. Come sempre, alla felicità seguiva, però, la preoccupazione, il cuore cominciò ad accelerare il suo battito, influenzato da questo miscuglio di gioia e di paura: gioia per avere trovato la strada, e, paura perché la luce conosceva il segreto di quella fuga, sapeva che quella strada non era vera ma soltanto frutto della fantasia. Mentre il sudore cominciò a coprirli la fronte, temette che la strada scoprisse tutto e che cominciasse a saltellare impedendolo di proseguire: ogni cosa si sarebbe trasformato di nuovo in un labirinto, e il fango, bagnato di lacrime, lo avrebbe portato indietro nella sua gabbia. Si rattristò, vide le vecchie nuvole rioccupare la sua mente e con disperazione sentì le mani scivolare via, sparire. Le cercò inutilmente nel silenzio, poi, si guardò in basso. Voleva vedere le sue ali, ma non c’erano. E le piume gialle? E la gabbia? Si vuole dare dei pizzicotti come per ironizzare con la sorte ma si sentiva indolenzito. Con panico e incredulità comprese che era anche lui un sogno, che io stavo sognando il piccolo storno. La sudata e tormentata evasione ora lasciava il suo posto all’incubo. Intorno c’era la gabbia che mi guardava. |