|
Colloquio nel buio
di Elton Kalica
Lavavo la biancheria in un secchio di plastica quando la guardia arrivò e disse qualcosa come “…colloqui famigliari!”, e io, con un’insolita naturalezza m’incamminai lentamente, con le mani forse ancora gocciolanti, verso la sala delle visite da qualche parte all’entrata del carcere. Erano i miei genitori, felici di avermi ritrovato, che sedevano di fronte a me, avvolti da una luce caotica, intrisa di interrogativi che però rimandavo a un altro momento. Mia madre si era aggrappata da subito alla mia mano e piagnucolava stringendo le mie ditta sudate, invece mio padre stringeva le sue stesse mani con nervosismo mentre mi fissava con severità ma nello stesso tempo la sua bocca aveva preso una forma di bisbiglio, come quando si ha tra le mani un uccellino – caduto dal suo nido perché le ali non sono riuscite a sostenere il volo – e lo si guarda con pietosa tenerezza con una espressione delle labbra che sembrano chiedergli continuamente perché? Quel bisbiglio silenzioso mi paralizzava più dei suoi occhi severi, di sempre. Iniziai subito a fare domande sulla loro vita, la loro salute, i problemi, ricevendo risposte confuse che ci trasportavano nella lontana vita del mio vecchio quartiere dalle strade larghe con i lampioni sempre spenti e dai parchi perennemente verdi con i fidanzatini sempre alla ricerca di una panchina vuota su cui sedersi abbracciati. Dal racconto di mia madre ascoltavo soltanto qualche frase frammentata che mischiata ai ricordi mi costringevano in una tremenda angoscia, come quell’uomo ferito e steso sul letto di un ospedale che ascolta le infermiere parlare di viaggi in posti che l’uomo conosce ma che forse non vedrà mai più. “…Denis ha traslocato da quattro anni, …Artan è emigrato da sei anni ed è tornato a casa soltanto una volta, …Sokol fa l’avvocato, …la Elsa si è specializzata in cardiologia, …la Ingrid è in attesa di partorire il terzo figlio e non esce mai di casa se non per fare la spesa, …la Diana fa la giornalista e il suo figlio il prossimo anno inizia la scuola. A casa non riceviamo più visite. Quando mi incontrano per strada i tuoi amici mi chiedono tue notizie frettolosamente perché devono sempre scappare da qualche parte.” E i nonni, come stano i nonni? – domando entusiasta. Mio padre mi distrae parlando di come è riuscito ad avere il visto d’ingresso, come è entrato per l’ennesima volta nell’ufficio del console italiano reclamando il suo diritto di andare a trovare il proprio figlio che si trova in carcere da otto anni, sbattendogli sul tavolo la stessa borsa di documenti per dimostrare che non va in Italia per rubare e che può sostenere tutte le spese necessarie. Quest’ultima volta era stata quella fortunata, gli avevano dato ragione e dopo otto anni era riuscito ad avere il tanto desiderato visto. Quando mio padre ebbe finito di descrivere il viaggio, le attese, l’albergo, ritornai a chiedere a mia madre più notizie su Diana; della Lata invece, non aveva nessuna notizia: se ne stava, quella troia, da qualche parte in Grecia dove niente le poteva ricordare la mia esistenza, non voleva sentirsi in colpa per non aver fatto niente; cercava di vivere senza legami col passato, senza rimorsi, lasciando dietro il vuoto punendomi per la seconda volta. Per uscire dalla rabbia compatta in cui mi dibattevo in quel momento chiesi di nuovo come stessero i nonni. Stringendomi la mano sudata, mia madre, tra le lacrime, si accingeva a rispondermi, ma iniziai a presagire qualcosa di terribile, e in quel preciso momento mi accorsi dell’inconcepibile errore: sapevo benissimo cosa facevano i miei vecchi amici – nonostante non mi scrivevano da anni le notizie filtravano attraverso mia madre – e, sapevo che i miei nonni erano morti, tutti e quattro – dopo i miei tanti saluti rivolti ai nonni per lettera, mio padre, alla fine, mi aveva raccontato la verità sulle date e le cause dei loro decessi, spiegandomi di avermelo tenuto segreto per evitarmi ulteriori dispiaceri. Mia madre cercava ancora le parole adatte per rispondere, e mio padre continuava a guardarmi severamente, nascondendo il dolore evidente, quando ebbi la certezza che c’era qualcosa di strano in tutto ciò. Mi avevano informato da anni della scomparsa dei miei nonni, ma la mia domanda non gli aveva sospettati, gli aveva soltanto costretti al silenzio, e vi era troppo silenzio. Spaventato mi guardai intorno e improvvisamente mi ritrovai avvolto dal buio freddo che – trafitto soltanto dai passi ritmici della guardia che girava per il corridoio – non mi diceva più nulla: il piangere di mia madre, la voce di mio padre erano spariti. Il freddo della notte taciturnità cominciò subito ad entrarmi nelle ossa. Così scoprì che stavo sognando, e, che non avevo fatto alcun colloqui con i miei genitori. Richiusi velocemente gli occhi per catturare la scena ma vi era arrivata l’altra notte, quella che oscura anche i sogni, la solita notte della mia cella che solamente in poche occasioni con tanta commiserazione mi permette di servirmi di qualche sogno per sopravivere. |