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Dopo la punizione, aiutare le persone a rimettersi in carreggiata
di Elton Kalica, settembre 2006
Ricordo che in prima media avevo una insegnante di inglese molto severa. Era fissata per la disciplina. Se sentiva una voce, anche il più piccolo sussurro, scattava una sanzione, la cui vittima di solito ero io. Cercava con gli occhi minacciosi tra le facce spaventate dei bambini e raggiungeva di corsa quello che secondo lei era il colpevole, cioè io. Mi alzava di peso per un orecchio e mi ordinava di mettermi all’angolo, con la faccia verso il muro, e stare su una gamba. Il carcere secondo me è un po’ questo. Lo Stato severo che punisce chi rompe l’armonia della vita sociale. Lo prende per un orecchio e lo mette in un angolo, isolandolo e impedendogli di guardare gli altri, di incontrarli o di parlare con loro. Lo scopo è chiaro: quella persona, attraverso la condanna, sarà rieducata e quindi non infrangerà più le regole. Io ricordo però che la mia insegnante d’inglese, alla fine della lezione, mi ordinava di rimanere in classe. Lei sosteneva che la punizione riguardava la mia libertà di stare insieme agli altri, ma non doveva voler dire rimanere indietro nel progresso scolastico. Quindi, considerato che la punizione non mi permetteva di seguire la sua lezione, lei si sentiva in dovere di rifarla soltanto per me. Ogni tanto si fermava ad aspettarla qualche altra insegnante, che a volte finiva per esprimere il suo disappunto: “Lascialo che studi da solo a casa, così impara a stare più attento…”. Ma la nostra inflessibile insegnante d’inglese rispondeva: “Questo ragazzo è stato per tutto il tempo su una gamba sola con la faccia al muro: come posso chiedergli che abbia la stessa preparazione degli altri, che hanno avuto una lezione completa, mentre lui ha sudato per la gamba indolenzita?”. Hanno appena dato l’indulto, le pene ridotte di tre anni così parecchie persone potranno mettere giù il piede e ritornare libere. Ovviamente la punizione non sempre adempie al suo scopo, ma proviamo a pensare per un attimo che lo faccia, cioè che riesca a rieducare le persone condannate. E poi? Cosa fa questo Stato per metterle nelle condizioni di ricominciare una vita dignitosa? Poniamo che una persona esca dal carcere ravveduta, ma se nei lunghi anni di detenzione ha perso casa e famiglia, cosa può fare, senza un pasto, un letto un lavoro? Che cosa gli offre lo Stato? È giusto sì, pretendere il rispetto delle leggi, ma la giustizia sta soprattutto nel non abbandonare le persone in condizioni tali, che siano costrette a commettere reati per sopravvivere. E allora, così come la mia professoressa dopo avermi punito sacrificava il suo tempo per rifarmi la lezione, anche i governanti di questo Paese devono sacrificare le loro energie e le loro risorse per rimettere gli ex-detenuti in carreggiata. E allora sì che si può sperare di avere fatto delle persone migliori. Io, con le punizioni e le lezioni individuali, ero arrivato a diventare il migliore della classe. |
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