Aspetto da mesi questa udienza...

 

Il viaggio nel blindo verso il tribunale, il magistrato che ti può concedere o negare i giorni della liberazione anticipata, la voglia di urlare le proprie ragioni e la fretta di chi non ha tempo per stare a sentirle

 

Di Elton Kalica, dicembre 2002

 

L’orologio nella sua "inutilità carceraria" indica le nove di sera. La mia branda, da angolo studi in cui si trasforma durante il giorno, adesso riprende le proprie funzioni, vale a dire di letto.

Come per rompere questa sofferta tranquillità, lo spioncino sul blindo sparisce per lasciare posto alla faccia dell’agente:

"Udienza domani. Alle 7:30 deve essere pronto".

"Va bene, agente" rispondo, senza sorpresa, conosco già la data dell’udienza.

Solitamente non avvisano alla sera, preferiscono arrivare alla mattina a invadere i dolci incubi della branda (forse, ci sarà del buffo nello svegliare qualcuno di colpo…). Personalmente, all’ora della sveglia mi trovano sempre in piedi.

Si è fatta mezzanotte. Sono più di due ore che sto a letto e prevedo altre ore insonni. Aspetto da mesi questa udienza. Mi sono preparato a lungo ad affrontarla. Ho passato e ripassato nella mente centinaia di volte un discorso col quale spero di esprimermi correttamente. Devo discutere nove semestri di liberazione anticipata e spero di ottenere i giorni di sconto.

Non ho fatto un testo scritto, come il caso vorrebbe. Ho avuto questa presunzione di non scrivere perché so perfettamente come sono andati i miei ultimi cinque anni (più brutti) della vita. Li ripasso ogni notte con la mente, al rallentatore. Rivedo tutto quello che è successo, nitido, quindi non ho bisogno di scrivere. Nella mia "banca-dati" mentale mi sono già fatto un programma.

Come prima cosa sottolineerò il mio buon comportamento in generale: è importante che qualche rapporto o richiamo, preso in questi anni, non condizioni la loro decisione. Ho abbastanza argomenti da portare in mia difesa, come gli studi scolastici e la costante partecipazione ai vari corsi presenti qui in carcere. Le attività scolastiche, un po’ per interesse ed un po’ per noia, le ho sempre seguite: ho un lungo elenco in mente che comincia con i primi corsi nel carcere di Milano, cinque anni fa, per poi finire con la scuola superiore che attualmente frequento. Insomma, ho tanto da dire e quindi sono ottimista, sicuramente capiranno che sono uno che ha capito la lezione.

Sono le otto e mezza di mattina. Mentre percorro il lungo corridoio, comincio leggermente a tremare. Questa mattina mi sono svegliato prima delle cinque. Ho dormito solo un paio d’ore. Non ho fatto colazione perché quando viaggio con il blindato vomito sempre quello che mangio; mi sono limitato a un solo caffè. Poi con il faticoso aiuto dello specchio di plastica, che non riesce mai a dare forme naturali al mio viso, mi sono raso. Non mi sono messo la camicia migliore e neanche la giacca più bella, ormai so per esperienza che la sporcizia e la puzza del furgone si appiccicano ai vestiti per non mollare più la presa per mesi.

"Come si chiama lei?" mi domanda un agente mentre mi mette le manette.

"Kalica" rispondo.

"E lei?", chiede ad un altro compagno, che come me si sta presentando all’udienza, mentre ammanetta anche lui: non so se è veramente interessato ai nomi o usa le domande come diversivo per avere vita facile nell’ammanettarci.

"A…" risponde lui.

"Sono quelli dell’Alta Sicurezza, collega" urla, per poi metterci una catena che ci unisce le manette, e che noi dobbiamo accettare come "compagna di viaggio". Percorriamo in fila indiana la parte finale del corridoio. Subito fuori della porta c’è il blindato già acceso che ci saluta sputando fumo nero. Comincio a stare male senza averci messo ancora piede.

L’odore di carburante, di sigarette, di sporco e non so di che cos’altro si è amalgamato formando questa puzza caratteristica di tutti i blindati. Ho la gola, il naso e lo stomaco in crisi mentre prendo posto in una cella di ferro, all’interno del furgone. Accompagnato dal rumore che l’agente fa, chiudendomi la porta alle spalle, prendo confidenza col freddo e con lo sporco. Ci mettiamo in moto. Cerco di guardare attraverso i buchi della porta di ferro, ma si rivela una sofferenza per i miei occhi che non riescono a vedere oltre la grata. Comunque, il piacere di cogliere qualche frammento di vita mi costringe a tenere lo sguardo teso attraverso le tante barriere ben progettate.

La cella d’attesa del tribunale è nuda ma decoratissima di scarabocchi che riempiono in tutte le lingue le pareti sporche. È una situazione che mi porta anni indietro alle attese che accompagnavano il processo. Un’odissea rimasta ben impressa nella mia mente e che ora ritorna per salutarmi. La caccio via per dar spazio alla preoccupazione dell’udienza che mi aspetta.

Sono ansioso, o forse più spaventato che altro. Sarà un presagio? La paura mi saluta con quel suo viso freddo, costringendomi a rivivere l’angoscia di due anni fa. E poi quell’ansia che ti sale su dallo stomaco e arriva alla gola non per uscire fuori, ma per piantarsi lì, bloccando il respiro e con esso la parola. Però, devo evitare che mi succeda la stessa cosa, questa volta devo parlare e dire tutto. Sento una nota di pessimismo invadermi. Cerco di allontanare questo disagio conversando col mio compagno che non mi pare per niente teso.

"Anche tu per i giorni?".

"No, mi devono comunicare l’esito di un ricorso: mi avevano negato un semestre".

"Sì. Mi ricordo, per la storia dello spioncino, se non sbaglio".

"Esatto!", risponde, "avevo fatto ricorso".

Quella storia aveva coinvolto tutta la sezione. Una notte, l’agente di turno si era accorto che diversi spioncini del bagno erano coperti (cosa molto comune, praticata da tutti i detenuti quando fanno i loro bisogni). Di solito questa cosa è condivisa anche dagli agenti (ai quali viene risparmiata una scena sgradevole), ma, evidentemente, non era così per quello che era montato la notte prima: aveva infatti fatto un rapporto a quasi tutta la sezione. Quindi, come da procedura, il vice direttore ci aveva comunicato che la direzione dava una sanzione disciplinare a tutti coloro che avevano occultato lo spioncino.

Finalmente ci avviamo verso l’aula. Percorriamo un lungo corridoio per poi scendere delle strette scale. In fondo c’è un piccolissimo angusto spazio, dove delle sedie cariche di detenuti mi fanno capire che devo attendere.

Entra il primo compagno. Non passa neanche un minuto, che l’agente comincia a togliere le manette ad un altro compagno mentre il primo fa già ritorno. Il secondo ci mette ancora meno a tornare da quella stanza che sembra sbarazzarsi in fretta di tutti gli intrusi. Divento sospettoso. Mi sembra tutto cosi strano. Quelli che fanno ritorno non hanno nessun tipo di espressione sulla faccia, quindi vengono ammanettati e ricondotti su per le scale senza nessun commento. Ora tocca al mio compagno di viaggio; intanto, l’agente mi fa cenno di alzarmi. Non fa in tempo a togliermi le manette che il mio compagno è già di ritorno.

"Il ricorso è stato accolto", mi sussurra mentre lo ammanettano.

"Su, su, sbrigati!" mi ordina l’agente, che sembra stanco di tenermi la porta aperta.

La sala è grandissima, almeno per i miei occhi abituati ormai solo a spazi ristretti. Il mio sguardo si ferma su una sedia vuota, isolata. D’istinto mi siedo.

Sento pronunciare il mio nome. Con gli occhi cerco l’origine della voce che continua a parlare veloce. Sento elencare tutte le note, richiami e rapporti disciplinari, collocati e distribuiti in tutti i semestri. Vedo (o forse è la delusione mischiata alla sorpresa che mi fa credere di vedere) una smorfia, un sorriso sulle labbra della dottoressa-magistrato-di-sorveglianza-relatore. Il messaggio è chiaro: "Nessuna speranza". E quel sorriso le rimane stampato mentre dice: "Ha frequentato la scuola solo in quest’ultimo periodo".

Il presidente, apparentemente attento, domanda: "In che senso, l’ultimo periodo?"

La smorfia del magistrato mi sembra sarcastica mentre risponde: "Vale a dire, questi ultimi mesi".

Mi viene da gridare, da urlare forte contro quelle parole: "Non è vero niente! Ho sempre frequentato corsi, studi e qualsiasi altra attività". Vorrei anche ricordare che la maggior parte di quelle note disciplinari sono richiami estinguibili in sei mesi, mentre lei li sta riportando come buoni dopo anni, ma non trovo le forze. Mi sento paralizzato in una confusione mentale che mi ammutolisce.

"Il signor Kalica è assistito dall’avvocato d’ufficio…?", interviene il presidente.

Prontamente dalla sala sento una voce che si alza assieme a chi l’ha emessa. È un giovane all’incirca della mia età. Non lo conosco.

"Sì!, sono io, voglio insistere sull’ultimo semestre giacché ha frequentato la scuola".

Non ho parole. Vorrei ribattergli che un semestre invece di nove non è il massimo che un avvocato dovrebbe chiedere. Però, lui non sa che io ho sempre frequentato la scuola e che le note disciplinari, se esaminate, verrebbero sicuramente scartate; non può sapere, perché non ci siamo mai visti prima. Ma non ho neanche il tempo di finire il mio dialogo mentale che sento l’agente invitarmi ad infilare i polsi in quelle manette, che forse ha tenuto pronte per tutta la durata dell’udienza. Mi alzo e, come in trance, copro la distanza tra la sedia e la porta.

Durante il ritorno, tutta la tensione e l’energia negativa accumulate le scarico dando di stomaco. Alzo i piedi per aria, in modo da non versare il contenuto acido sulle scarpe. In questa posizione, da acrobata circense, finisco per sporcarmi non solo le scarpe ma i pantaloni e la giacca. Lo spazio super-ristretto della cella mi soffoca la mente. Mentre guardo quel miscuglio di liquidi gastrici e caffè, penso al mio discorso quella mattina, al fatto che dalla mia bocca dovevano uscire fiumi di parole ed invece è uscito solo il mio stomaco.

Stranamente mi rimane impressa nella mente l’espressione della-dottoressa-giudice-di-sorveglianza-relatore: quel suo modo di leggere la relazione mi ricorda in un lampo il mio processo di quattro anni fa, e rivedo la stessa aria sarcastica impressa in altre facce. Vedo lo stesso scenario e gli stessi personaggi: i visi rilassati della corte, il discorso freddo e macchinoso degli avvocati, e il denominatore comune, fretta di finire e una voglia sfrenata di sospendere o concludere.

Poi questa voglia di finire aveva contagiato anche me: le udienze mi stancavano e mi annoiavano. Quelle lunghe giornate, cariche di attese, di pause o di piccoli brevi monologhi, dialoghi e retoriche, mi facevano venire l’emicrania. Non vedevo l’ora di tornare in cella.

Mentre con le gambe alzate evito di pestare il pavimento, mentre gli odori forti mi avvolgono appiccicosi, mentre con le manette e i catenacci addosso cerco inutilmente di tirare fuori della tasca il fazzoletto, mi domando il perché di questo confronto mentale. Le analogie, tra questi due eventi peggiori della mia vita, sono tante, i personaggi, la scena, l’indifferenza, ma non mi convincono. La loro convinzione di sapere tutto, di conoscermi, la certezza della loro teoria, e l’ignorarmi, questi sicuramente sono alcuni dei motivi che mi fanno associare l’udienza di oggi al processo. Tuttavia, è la capacità dei giudici di entrare nella mia vita cosi violentemente, brutalmente, senza bussare, per poi andare via senza neanche chiudere la porta, che obbliga la mia mente a ospitare questo confronto.

Ma forse è inutile cercare di capire. Una cosa però è di una certezza cristallina: avrei voluto parlare a quel signore che mi puntava il dito contro illustrando la sua tesi e avrei voluto parlare anche al giudice relatore che in cinque righe ha sintetizzato, quasi con entusiasmo, i miei cinque anni di carcere. Avrei voluto anche gridare: potete parlare a me e non a quel signore-mio-avvocato-d’ufficio che non ho mai visto prima?

Gli odori nauseanti, le mie gambe ormai stanche e le guardie che spensierate leggono i messaggini sui telefonini mi ricordano che tutto quello che voglio è tornare in cella. Là, posso trovare la tranquillità assordante del vuoto.

 

Due settimane dopo: L’ufficio matricola mi ha appena comunicato la decisione del giudice: "Si nega il beneficio della liberazione anticipata per i primi otto semestri richiesti e si concede solo per l’ultimo semestre." Sono felice per l’avvocato d’ufficio, dopotutto ha ottenuto ciò che aveva chiesto.