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Galera senza sbocchi
Ma dove sta il diritto alla rieducazione? Quelle leggi messe a punto per combattere la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, e che ora continuano a colpire anche centinaia di stranieri “cani sciolti” come me, che con mafia, ‘ndrangheta e camorra non hanno proprio nulla da spartire
di Elton Kalica, settembre 2005
Per la prima volta mi piace invitare caldamente a leggere un racconto, questo racconto, questo pezzo di vita di galera. Per la prima volta mi viene da dire che mi sento in colpa, anche se non posso fare nulla di nulla per portar fuori in permesso Elton. Mi sento in colpa, perché Elton ha ragione, c’è qualcosa di inspiegabile nella legge italiana: ho visto dare, io credo giustamente, una possibilità a persone con reati gravissimi, persone che si portano dietro una storia penale fatta non di un fascicolo, ma di una cassa di fascicoli. Ho imparato a credere fermamente che la natura umana è ben più complessa di quella che emerge dalla cronaca nera dei giornali, e non mi spaventa più l’idea che fuori, nel mondo, camminino anche persone che hanno ucciso. E allora mi sembra ancora più incomprensibile che un ragazzo come Elton, con alle spalle una storia così poco cruenta, con le caratteristiche di una impresa da delinquenti per sbaglio, debba portare, con i suoi diciassette anni ininterrotti di galera (basta pensare che un ergastolano invece può uscire in permesso dopo dieci anni), tutto il peso delle nostre assurde leggi “emergenziali”.
Ornella Favero
Sono le cinque di mattina di una giornata particolarmente calda, ma non è certo per la temperatura della cella che sono già in piedi a quest’ora. Oggi ho un esame universitario. La commissione verrà ad ascoltarmi, qui in carcere: e valuterà poi la mia preparazione con un voto secco. Ci ho messo più di un mese a studiare i testi che mi ha procurato Mario, un assistente volontario, e ora dei professori che non ho mai visto prima mi ascolteranno sì e no per mezz’ora, prima di emettere il loro verdetto. Poi mi faranno senz’altro qualche domanda sul carcere e sui motivi che mi hanno condotto qui, e a me toccherà informarli che sono in galera da otto anni, che devo restarci per altri nove e che… non ho ucciso nessuno. Eh sì, perché è questo, inevitabilmente, che pensa un estraneo non appena viene a sapere della mia lunga pena: 17 anni. Insomma, anche questa volta dovrò raccontare che la mia punizione non consegue a un omicidio ma a un sequestro, e che mi sono “limitato” a tenere la persona sequestrata sotto chiave nel mio appartamento, per tre giorni, in attesa di un riscatto. So già che, alla fine del mio racconto, anche per via della giovanissima età che avevo all’epoca, i professori mi guarderanno con aria stupita e quasi costernata, come a dire che la mia è una pena spropositata, per quello che in effetti ho fatto. Va sempre a finire così, con i professori. Ma poi se ne vanno e non ci rivedremo mai più. Devo ammettere che in questi giorni non ho studiato in una condizione ideale. Non sono riuscito mai a concentrarmi come avrei voluto sullo sviluppo demografico e delle dinamiche insediative del Veneto contemporaneo. Per quanto mi sia impegnato, proprio non mi è riuscito di liberare la mente dal pensiero fisso dell’udienza in tribunale che ho dovuto affrontare appena dieci giorni fa, e del cui esito non so ancora niente. L’avevo attesa per nove mesi con un’ansia via via crescente, quella “Camera di consiglio”. Oppresso da un’angoscia tanto intensa che a volte pareva premermi il petto fino a soffocarmi. Poi, finalmente, il giorno tanto atteso e temuto era arrivato, liberandomi improvvisamente da quella cappa di inquietudine. Ricordo che quella mattina, mentre mi rasavo per presentarmi in ordine al processo, una piacevole sensazione di leggerezza cominciò a pervadere il mio corpo. Finalmente avrei saputo cosa sarebbe stato dei miei prossimi nove anni di vita: se avrei continuato a viverli chiuso a doppia mandata in carcere, come ho fatto finora, o se, invece, avrei potuto ricominciare a respirare almeno un po’ l’aria della vita, usufruendo di permessi premio ed espiando almeno in parte la mia pena con misure alternative alla detenzione, come l’articolo 21, la semilibertà, l’affidamento… Non so cosa avrei dato, in quei momenti pieni di tensione ma anche di speranza, per avere al mio fianco una persona cara - mia madre, mio padre o mio fratello. Li avrei abbracciati entusiasta, dicendogli che finalmente mi sarei tolto di dosso questo peso, che non avrei dovuto più passare le giornate sprofondato negli stessi sogni a occhi aperti del giorno precedente e di quell’altro ancora. Quell’udienza in tribunale rappresentava in effetti, per me, un appuntamento molto importante, decisivo. Era l’unica possibilità che mi restava per vedermi ridotta non la pena, ma almeno il rigore implacabile della sua esecuzione: quel rigore che è previsto soltanto per gli autori dei reati più gravi (reati di mafia, soprattutto) e che blocca ogni accesso ai benefici e alle misure alternative alla detenzione. Al cancello d’uscita del carcere avevo allungato serenamente i polsi all’agente perché mi infilasse le manette, ritrovandomi poi agganciato a un lungo cordone formato da altri detenuti diretti, come me, in tribunale. Il rito dell’incatenamento multiplo mi aveva perfino rallegrato, perché se si è “in grappolo” vuol dire che si viaggia in pullman, e non nell’angusto furgone blindato per cui ho sviluppato, dai tempi del processo, una vera e propria allergia. Sbirciando fuori dal finestrino, mentre il grosso mezzo percorreva le vie di Padova, guardavo stupito la gente che camminava indaffarata con lo stesso ritmo di otto anni fa, come se il tempo si fosse fermato per tutti e non solo per me. E la luminescenza colorata dei negozi, che in passato non aveva mai colpito più di tanto la mia immaginazione, a rivederla ora, dopo tanto tempo, acquistava il potere d’incantarmi, come se a emanarla fossero le luminarie sfavillanti di un parco giochi. Ero così preso da quel “panorama” uguale a come l’avevo lasciato, eppure così sorprendente, che neppure mi accorsi dei minuti e dei chilometri che passavano: mi ritrovai così quasi senza rendermene conto nel cortile del tribunale, con gli agenti che sollecitavano in modo brusco la catena umana - di cui componevo il sesto anello - a scendere velocemente dal pullman, per infilarsi nell’enorme edificio da un ingresso posteriore e terminare quindi la marcia in una cella del secondo piano, dove avremmo atteso di essere chiamati. L’attesa non fu insopportabilmente lunga come temevo. Tempo mezz’ora, o poco più, e un agente si presentò di fronte al cancello della cella d’attesa e pronunciò il mio nome: era dunque giunto il mio turno. Il tribunale sembrava funzionare con insolita rapidità, quella mattina, dato che in così poco tempo erano stati già ascoltati i dieci detenuti che erano stati chiamati prima di me. Percorsi i corridoi in un batter d’occhio e mi ritrovai seduto di fronte alla Corte, composta di sette persone dalle espressioni rilassate. Tra me e loro si stendeva un tavolo lucido, e lungo. Mentre il magistrato relatore provvedeva a illustrare il mio caso, io mi concentravo tenendo la sguardo fisso sul movimento delle sue labbra, cercando di non lasciarmi distrarre dalla vista dei troppi estranei che affollavano quell’aula spaziosa e gelidamente illuminata. Dentro di me mi sforzavo di pensare a cosa avrei dovuto dire, una volta che mi avessero interpellato, perché ero sicuro che mi sarebbero state rivolte delle domande e non volevo rischiare di trovarmi impreparato. Anche perché sin dall’infanzia soffro di balbuzie, che si accentua soprattutto nei momenti di più forte emotività, rendendomi arduo esprimere il mio pensiero scorrevolmente. Decisi di concentrarmi sulla respirazione, e cominciai così a tirare dei lunghi sospiri, talmente profondi e assorti che a un certo punto mi resi conto con stupore che il magistrato aveva terminato da un pezzo la sua relazione e che ora la parola era passata al mio avvocato, che stava intervenendo in mia difesa. Una volta conclusa anche la sua arringa, avevo stretto i pugni preparandomi all’interrogatorio. Ma niente: fui semplicemente invitato ad abbandonare l’aula, per poi – dopo qualche ora – essere riportato in carcere, in attesa del responso del tribunale. Le sequenze di quella mattinata mi sono passate e ripassate mille volte per la testa in questi giorni, mentre stavo preparando l’esame che sarò chiamato a sostenere oggi. Mentre studiavo le dinamiche dell’industrializzazione di Venezia e di Verona, dentro di me continuavo in realtà a pensare alla Camera di consiglio e al suo verdetto, a me ancora ignoto, sulla mia affidabilità e sulla possibilità che io possa usufruire o meno, in futuro, dei benefici di legge. Ma la cosa più singolare è che anche adesso, mentre me ne sto qui ad aspettare la commissione d’esame, non riesco a liberarmi da quel ricordo e dall’ansia che mi procura l’attesa di quel verdetto.
Vorrei soltanto avere un pugno tanto grosso da colpire il mondo e farlo rotolare nell’universo
Ma finalmente sono arrivati, sento chiamare il mio nome. Ma no, è la posta. L’agente strappa di fronte a me una busta che contiene una lettera e un libro. La mittente è Maddalena, una mia amica di Milano, studentessa universitaria, che tra un esame e un lavoro saltuario trova qualche momento per scrivermi due righe di quotidianità. Le sue lettere sono sempre trascinanti, e hanno la capacità di strapparmi alla carcerazione coinvolgendomi in una vita “altra”, che mi allarga i polmoni e aiuta il mio cervello a respirare l’aria di fuori, l’aria della libertà. Il libro s’intitola “Seta” ed è di Alessandro Baricco. Ha piccole dimensioni e il carattere delle lettere è grande, invitante: perciò decido di leggerlo al volo. Le prime pagine mi rapiscono totalmente. L’autore racconta in modo meraviglioso la storia di un giovane commerciante che, nel periodo in cui Flaubert è impegnato nella stesura finale di “Salambò”, importa bachi da seta dal lontano Giappone e s’innamora della donna di un uomo molto potente. Andrei avanti d’un fiato, fino alla fine, ma devo bruscamente interrompere la lettura perché i professori dell’Università sono arrivati. Li ha ricevuti un agente, che prima di venirmi a chiamare ha provveduto a farli accomodare nella nuda saletta in cui si svolgerà il mio esame. Dopo quaranta minuti di domande serrate vengo invitato a lasciare per qualche minuto la stanza, per consentire ai professori di maturare il loro giudizio. Mi fanno rientrare subito dopo, per comunicarmi che il mio libretto universitario si è appena arricchito di un bel trenta. Quindi mi salutano con una stretta di mano e mi augurano di cavarmela altrettanto brillantemente negli altri esami che mi attendono nel prosieguo dei miei studi. Sono gentili ed evidentemente non sanno - penso io - che i carcerati non amano per niente gli auguri, ritenendoli presagi di eventi nefasti. Ma francamente non me ne importa nulla, perché il carcere non è riuscito a contagiarmi con le sue superstizioni. E non mi inquieta neppure la coincidenza, singolare, fra l’uscita di scena dei professori e l’irruzione nel mio campo acustico della voce acuta di un agente che mi chiama con allarmante insistenza. Mi presento finalmente nel suo ufficio e trovo un addetto dell’Ufficio Matricola che mi comunica la tanto attesa e temuta sentenza del Tribunale di Sorveglianza: niente permessi premio e niente semilibertà. Soltanto carcere e ancora carcere, fino al giorno ancora remoto del mio fine pena. Mi pervade un senso di smarrimento che mi paralizza. Perfino le quattro cose che mi circondano sembrano perdere forma. Ho l’impressione che le pupille si siano messe a roteare per i fatti loro, impazzite, fino a oscurarmi la vista. Vorrei soltanto avere un pugno tanto grosso da colpire il mondo e farlo rotolare nell’universo. La motivazione del rigetto è la mia mancata collaborazione con la giustizia, perché non ho fatto arrestare nessuno e finché non farò arrestare qualcuno i miei otto anni di carcere già espiati non conteranno un bel nulla. Ma che ci posso fare, io? Mica me lo posso inventare, uno da far arrestare! Mi viene in mente una barzelletta albanese, che racconta la storia di un certo Lalà. Arrestato dai soldati italiani durante l’occupazione dell’Albania, il poveretto viene inutilmente torturato a più riprese per costringerlo a spifferare i nomi dei “guerriglieri” del suo villaggio. Dopo un po’, scoraggiati dal suo ostinato silenzio, i militari decidono di piantarla di torturarlo e di passare a una strategia più lenta e paziente: spiarlo nella sua cella. Ma l’unico risultato è che un giorno lo trovano che dà sonore testate contro un muro, esclamando furioso: “Testa, stupida testa, perché non ti ricordi i nomi?!”. Quel povero diavolo di Lalà, almeno, poteva imputare la sua impossibilità di collaborare alla sua scarsa memoria, mentre io - non avendo complici da denunciare - non posso prendermela neppure con la mia testa svampita. E non posso far niente neppure per cambiare le norme della giustizia italiana che mi inchiodano in questa situazione di detenzione senza sbocchi: sono state messe a punto quindici anni fa, per combattere la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, ma continuano a colpire anche centinaia di stranieri “cani sciolti”, come me, che con mafia, ‘ndrangheta e camorra non hanno proprio nulla da spartire. Potrei sempre uccidermi, certo, in rabbioso omaggio a una civiltà che reputo quanto meno illusoria. Sì, ecco cosa ci vuole: un bel suicidio! Scrivo una lettera denunciando la disparità di trattamento che questa legge impone; poi passo un lenzuolo tra le inferriate della finestra, faccio un nodo bagnato e insaponato, per far scivolare meglio la presa – ma prima vado al cesso per evitare di evacuare nei pantaloni, una volta appeso per il collo – e quindi pongo fine alla mia vita, in modo abbastanza clamoroso perché i politici, almeno quelli umanamente più sensibili, comincino a capire le sofferenze che stanno causando ostinandosi a non voler vedere quali realtà umane bollono effettivamente nella grande pentola del carcere. Ma poi rifletto: dall’inizio dell’anno ci sono già stati trenta suicidi nelle carceri italiane, e nessuno si è preoccupato di cambiare qualcosa nel sistema penitenziario. E poi neppure i suicidi fanno ormai più notizia. Meglio lasciar perdere, niente suicidio! Per scacciare via questi foschi pensieri mi sdraio in branda e torno a immergermi nel romanzo di Baricco, che finisco di leggere in un paio d’ore. Giusto in tempo per l’apertura delle 13.30, di cui approfitto per recarmi nella redazione di Ristretti Orizzonti. E lì incontro Ornella e gli altri volontari, che già sono al corrente del triste esito della mia istanza. Mi esprimono con affetto il loro dispiacere, domandandosi che cos’altro si potrebbe ancora tentare, per farmi mettere almeno il naso fuor di galera un po’ prima che scocchi il mio lontano fine pena. Non resta che un’unica chance: chiedere la Grazia. E Ornella, visibilmente amareggiata, mi promette che si darà da fare per raccogliere firme in tal senso nel volontariato italiano. So perfettamente che si tratta di un impegno più che altro “emotivo”, dettato da sincera solidarietà ma anche dal desiderio di aiutarmi a superare un momento di grande amarezza e di possibile sbandamento psicologico. La Grazia viene concessa col contagocce, e solo in casi particolarissimi, in Italia. Per un momento però mi va di “stare al gioco”, immaginando con una punta di aspra voluttà i titoloni che i giornali farebbero se una “banda” di intraprendenti volontari riuscisse davvero ad avviare la procedura di Grazia per “un criminale albanese”. Figurarsi, “con una giustizia che è già così scelleratamente permissiva, con gli stranieri!”… Cercando di conservare la luminosa immagine della mia improbabile Grazia, saluto tutti e ritorno in cella. Sono ormai le tre del pomeriggio e il sole coperto dalle nuvole mi preannuncia la certezza, matematica, di scontare “dentro” il carcere altri nove anni di carcere. Le buone notizie vanno celebrate con buone azioni: decido così di andarmene a letto, non prima però di aver scritto una lettera alla mia amica Maddalena, per ringraziarla del libro che mi ha mandato.
“Ciao Maddi, grazie per il libro. L’ho letto in un sospiro. Mi è giunto mentre aspettavo di dare l’esame di “Sviluppo umano”, dove ho preso 30, ma senza esultare. Subito dopo ho ricevuto la notizia che il processo, di cui credo di averti parlato, è andato male. Vale a dire che non potrò avere neanche un giorno di permesso per il resto della mia condanna. Peccato. Ci avevo sperato tanto di assaggiare qualche giorno di libertà in giro per Padova, poter passare un pomeriggio con mia madre, prendere un caffè con mio padre, e forse vedere te. Invece dovrò passare altri nove anni dentro questo carcere. Ornella e gli altri volontari non riescono a capacitarsi all’idea di non potere fare niente per aiutarmi. Hanno “tirato fuori” dal carcere gente con omicidi, rapine e reati molto più gravi del mio, mentre su di me sembra gravare qualche forza misteriosa che ha ingarbugliato la situazione giuridica in modo impenetrabile. Tuttavia, sembra che Ornella voglia tentare l’ultima carta, chiedendo la Grazia al Presidente della Repubblica. Mi ha promesso che a settembre comincerà a raccogliere firme di volontari, insegnanti, docenti e altra gente che in qualche modo ha conosciuto me, il mio lavoro nella redazione del giornale e il mio percorso negli studi universitari. Lei è sicura di tirare su abbastanza firme da convincere il signor Ciampi, ma io sono poco fiducioso nella possibilità di sormontare la barriera del pregiudizio che divide la “società civile” da noi detenuti, specialmente se stranieri. D’altronde, per il nostro Ministro, graziare un albanese sarebbe come chiedere ad un prete di fare l’Omelia per la morte di un convinto comunista. Ma chi sa cosa succederà. Il tempo ci svelerà un giorno anche il mistero della Grazia, così come spietatamente rivelò, stamattina, il suo disegno che esclude i permessi dalla mia futura carcerazione. In realtà la cosa mi fa anche sorridere, poiché il fatto di non poter nemmeno pensare a qualche beneficio significa che, perlomeno, non avrò distrazioni per studiare, preparare i prossimi esami, e, a questo passo, laurearmi: vi è sempre un lato filosoficamente ottimistico che accompagna le brutte notizie. Tornando al tuo libro, mi è piaciuto moltissimo. Mi sono un po’ riconosciuto in Hervé, questo uomo vivo, pieno di energie e coraggio, che s’imprigiona con le sue mani in un amore impossibile. Anche se qualcuno potrebbe criticare ideologicamente i suoi valori di vita fondati sul mercantilismo e sull’individualismo, per me rimane di grande realismo la capacità dell’uomo di soffrire in silenzio, sognando: osservare per ore il lago, contemplando l’inspiegabile spettacolo, lieve, che è la vita. Così come mi angoscia il dolore di sua moglie che non riesce a soffrire in silenzio. La donna che ama col cuore suo marito, ma che muore ammalata dopo aver salutato per sempre, in una stazione ferroviaria, il suo amante. Hélène mi ricorda tanto l’Anna Karenina che si lancia sotto il treno. Sai cosa trovo di triste quando leggo simili, meravigliosi racconti? Ho la sensazione che sia inutile, per me, continuare a scrivere racconti – sicuramente mediocri – mentre incantato, reggo in mano la prova che altri hanno raggiunto la perfezione, facendomi sognare. Grazie di nuovo di questo pensiero. Elton.”
Chiudo la busta, la imbuco e ritorno in una cella dai muri riscaldati dove non cerco nemmeno di dormire. Prendo un libro e comincio a studiare per il prossimo esame, con una gaia leggerezza, liberato dalle angosce dell’attesa della libertà, svuotato da qualsiasi illusione e desiderio di progettare il futuro. Conscio che, per me, la galera è certa. |
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