Quello che agli uomini manca

 

Ad un uomo carcerato non è la libertà ciò che più manca, ma il toccare, abbracciare, baciare il corpo di una donna

 

di Elton Kalica, novembre 2005

 

Ricordo che, nei miei anni di più tenera età, quando mi rifiutavo di dare ascolto agli ordini di mia madre, lei sollevava minacciosamente un sopraciglio e prometteva che, in caso non obbedissi subito, allora sarebbe andata via – insieme al papà e al mio fratellino, ubbidiente – ad abitare in un’altra casa, lasciandomi solo, e che non li avrei più rivisti. Questo strumento di disciplina funzionava sempre. L’idea di rimanere da solo, senza di loro, mi spaventava a tal punto che diventavo subito mansueto, e terrorizzato mi mettevo in un angolo e non parlavo per giorni.

Poi diventai uomo e il ricordo delle sue minacce mi faceva sorridere. All’età di diciannove anni, emigrai in un altro paese, distante da casa, lontano dai miei cari. Sentivo molto la loro mancanza, ma cercavo di rimediare alla mia nostalgia con delle prolungate telefonate. Spendevo tanto denaro in schede telefoniche, e in sigarette. Gli telefonavo ogni pomeriggio e ogni sera, l’unico modo per sentirli vicini, finché, un giorno, finii in carcere, dove continuo a stare tuttora: ormai sono passati dieci anni dal giorno in cui sono emigrato in questo Paese, distante da casa, lontano dai miei cari.

“Cosa dire a degli studenti per far capire loro che le leggi vanno rispettate?”: ecco, un giorno mi sono trovato a dover rispondere a questa domanda, insieme ad altri detenuti e volontari. Con l’intento di “sfruttare” le nostre esperienze e la nostra condizione per affrontare con i più giovani il problema della devianza dalla legalità, incappammo in un grande punto interrogativo: una dozzina di uomini – duri e “senza paura”, dato che abbiamo infranto la legge – che ci guardavamo negli occhi non sapendo come fare per riuscire a convincere dei ragazzini che la galera non è uno scherzo.

Fu in quell’occasione che mi rammentai delle minacce di mia madre, e le trovai ideali per uno scopo educativo. La galera è brutta e spaventa, ma quello che realmente terrorizza è in particolar modo il fatto che il regime carcerario, in Italia, cancella, oltre alla libertà, ogni altro rapporto affettivo. Ti lascia solo. Ti isola lontano da tutti. E credo che basterebbe dire questo ai giovani per spaventarli a morte, basterebbe saper raccontare che, se si finisce in galera, invece della propria stanza con il poster del cantante preferito e il tavolino con l’abatjour, si ha una piccola cella da dividere con degli sconosciuti, per anni, dove l’unica attrazione è un televisore a 14 pollici, perennemente acceso. In galera si potranno vedere i propri cari soltanto una volta a settimana, per un’ora, chiusi in una stanza con un’altra ventina di persone che piangono, urlano o ridono. Si potrà anche chiedere al direttore di vedere la propria fidanzata, se si desidera, ma si deve resistere alla tentazione di toccarla o baciarla sulle labbra perché è proibito dal regolamento, e se lo si fa, si è soggetti a rapporto disciplinare, ed eventuali punizioni.

 

Perdere la libertà significa non soltanto non essere più liberi, ma anche non avere più nulla di tutto ciò cui siamo tanto affezionati

 

Se si ha voglia di telefonare a casa, si dovrà richiedere la telefonata con tre giorni d’anticipo e si può farlo soltanto una volta a settimana per la durata di dieci minuti. E certo l’idea che si telefoni soltanto a casa, e non ad amici e conoscenti, può sconvolgere dei ragazzi che sono abituati a mandare centinaia di messaggini ogni giorno. Naturalmente c’è anche il campetto da calcio che potrebbe essere una cosa rassicurante in quanto assomiglia a quello dell’oratorio parrocchiale, ma se si mette in calcolo che ci si può andare una volta a settimana, insieme a tutta una sezione di cento persone, che devono giocare a turno, per un paio d’ore, probabilmente si rinuncia a rincorrere quel pallone, anche se ti farebbe sentire a casa, libero.

Poi si deve senz’altro spiegare ai ragazzi che, quando si decide di leggere un libro, bisogna chiudersi in cella, con la porta blindata, per non permettere al chiasso di distogliere la concentrazione. E, avviliti da tutto e da tutti, si comincia a provare disprezzo per quelli che urlano, che cantano, che si lamentano, che litigano o che si tagliano le vene, si comincia a considerare bestie tutti gli stranieri, perennemente arrabbiati, che da anni non vedono i propri cari, non li sentono per telefono e si sono dimenticati di cos’è un abbraccio e un sorriso.

Infine, costretti a vivere tra queste restrizioni e condizionamenti, gli anni fuggono via uno dopo l’altro, e allora non si è più giovani ma si cerca lo stesso di trovare conforto nei propri ricordi, ai quali, nei momenti più difficili, ci si aggrappa con le unghie e con i denti, per non gridare, per non impazzire. Si chiudono gli occhi e, abbozzando un sorriso, si rivede lo sguardo minaccioso della madre che ordina di finire i compiti se non si vuole essere chiuso nello sgabuzzino, per punizione. Si rammenta il silenzio della propria camera dove si giocava per ore e ore ai videogiochi, indisturbati, e dove anche qualche volta ci si chiudeva con la propria ragazza, per un pomeriggio intero, mentre i genitori erano via, e in quel momento, ancora immersi nei ricordi, ci si accorge che ad un uomo carcerato non è la libertà ciò che più manca, ma il toccare, abbracciare, baciare il corpo di una donna, sentirne l’odore, ribadendo che l’affetto è un motivo valido per cui continuare a vivere, anche se soffrendo, anche se morendo.

Non è difficile convincere le persone che la galera è un inferno, e poche sono le cose talmente facili come lo spiegare che perdere la libertà significa non soltanto non essere più liberi, ma anche non avere più nulla di tutto ciò cui siamo tanto affezionati, cose e persone.