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Microscopici frammenti di galera Una brutta notizia da casa, una telefonata negata e si scatena la furia autodistruttiva. Un racconto dell’“ordinaria follia” a cui si può assistere nelle carceri
di Elton Kalica, maggio 2005
Mi arrestarono una notte d’estate. Mi misero in isolamento. Tre metri per due: un tavolino e uno sgabello di ferro inchiodati al pavimento di cemento, una finestra soffocata da una fitta rete nera, un lavandino e il cesso ingiallito. Sul piano superiore del letto a castello c’era Bedri, magro e a torso nudo, sempre ansioso di mostrare il suo sorriso sdentato. In alto, vicino al soffitto, un televisore che poteva essere visto soltanto dalla branda di sopra. Mi buttai sulla branda di sotto da dove si potevano ascoltare i rumori e le voci di un film anonimo: come quando si rimane fuori da un cinema. In quel reparto tutte le celle erano occupate, per via del sovraffollamento. Dopo aver finito i quaranta giorni d’isolamento ordinati dal giudice, rimasi per altri quattro mesi con Bedri, che guardava sempre la televisione, steso in branda, e con Alket, un altro connazionale che si era sistemato per terra, da dove almeno riusciva a guardare un lembo dello schermo, anche se dovevamo scavalcarlo ogni volta che volevamo andare al cesso. Aspettavamo tutti e tre che nelle sezioni normali si liberasse qualche posto, quando Bedri ricevette un telegramma dall’Albania: sua madre era morta. Il foglio gli cadde di mano. Crollò in lacrime. Non sapevamo cosa fare, cosa dire. Alket spense il televisore come per risparmiare quella scena a Maria De Filippi. All’improvviso, Bedri scattò in piedi, gli occhi rossi, chiamò l’agente e disse: “Devo telefonare a casa, devo sentire mio padre e chiedergli scusa di non essere lì, con lui”. “Adesso m’informo e le faccio sapere”, disse l’agente. Tutti e tre avevamo fatto richiesta per telefonare a casa, in Albania, ma la prassi era lunga e dovevamo aspettare. L’agente ritornò e disse che non era possibile. Bedri perse il controllo, iniziò a urlare e a battere la testa contro il muro, imbrattandolo di sangue. Usammo tutta la forza per fermarlo. Sembrò acquietarsi, ma in un lampo prese un barattolo di pomodori, strappò il coperchio di latta e cominciò a tirarsi fendenti sul polso sinistro. Quando finalmente riuscimmo a togliergli la rozza lama di mano, si potevano contare cinque tagli che schizzavano sangue. Una squadra di agenti lo portò via legato. Ritornò dopo mezzanotte, trascinando a fatica i piedi a causa degli psicofarmaci di cui lo avevano imbottito. Crollò sul materasso di Alket e si addormentò balbettando: “Voglio morire anch’io”. |
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