Un conturbante addio ai ricordi

Quando tanti studenti, come un fiume di vita, sono entrati in carcere, qualche giovane detenuto ha ritrovato pezzi del suo passato, ricordi, nostalgie

 

di Elton Kalica, febbraio 2005

 

Non so se in qualche modo ci fosse un oscuro collegamento con la mia difficile esistenza, ma l’ultimo incontro con gli studenti liceali è stato per me un micidiale composto di agitazione e sconvolgimento. Ho appreso con allegria la notizia che degli studenti sarebbero venuti a farci visita in carcere e che io avrei partecipato all’incontro. Finalmente, per il volontariato di Padova, il modo di vedere e concepire un possibile rapporto tra noi detenuti e il mondo esterno era cambiato: fino a qualche anno fa, il confronto tra le due realtà si svolgeva in qualche rara partita di pallone all’interno del carcere, dove solitamente entrava una squadra di liceali o seminaristi che, finita la partita, ci salutava con una veloce stretta di mano. Lo scopo doveva essere un reale contatto con il mondo esterno, qualche oretta di confronto umano, ma in realtà il contatto principale era il rincorrere tutti insieme il pallone, per poi abbandonarlo in mezzo al campo e tornare nelle rispettive vite intrise di problemi. Oltre ai lividi sulle gambe, gli studenti non portavano a casa molto di nuovo, e noi non portavamo in cella molto di incoraggiante, di emozionante.

Quest’anno, a quanto pare, la lunga esperienza di lavoro con i detenuti ha spinto i volontari a proporre e realizzare un percorso diverso, che poco ha a che fare con il pallone. Il progetto, che è stato chiamato “Il carcere entra a scuola”, consiste nel far conoscere da vicino agli studenti il carcere e i detenuti, con lo scopo di informare bene per prevenire la devianza dei giovani: forse sarebbe stato meglio chiamarlo “La scuola entra in carcere”, visto che più di trecento studenti, come un fiume di vita, sono entrati in carcere, si sono seduti insieme ai detenuti, hanno discusso con loro, li hanno visti cantare per loro, e forse tutti si sono fatti conoscere un po’ meglio.

Sicuramente, per molti studenti questa visita è stata un evento che rammenteranno a lungo - non succede tutti i giorni di entrare in un carcere - e il fatto di aver incontrato qui dentro e ascoltato persone giovani, che sono come loro e come chi gli sta vicino, gli ricorderà per il resto della vita che in carcere può finire chiunque, in qualsiasi momento, se non osserva rigorosamente la legge.

D’altro canto, pieni di impressioni sono rimasti anche i miei compagni detenuti: qualcuno ha riconosciuto negli studenti gli occhi dei propri figli che non ha visto crescere, mentre altri, più giovani, hanno potuto respirare un momento di libertà nello stare per qualche ora vicino a dei coetanei  liberi. Credo che tutti abbiano portato in cella, oltre al ricordo di una giornata diversa, la consolazione che almeno quei ragazzi forse uscivano da questa visita in carcere un po’ diversi, con meno paure e meno pregiudizi verso chi ha sbagliato. Forse ho avuto anch’io per qualche momento questi sentimenti rasserenanti, ma in realtà quello che più ha segnato il mio ricordo è stato un miscuglio di emozioni e palpiti mozzafiato di felicità.

Sin dal momento dell’arrivo degli studenti, mi sono sentito mancare il fiato perché la prima persona che ho visto entrare è stata una ragazza bruna dai capelli lisci che stringeva la mano di un’amica, che non so descrivere neanche un po’ per via del mio totale infervoramento nel guardare la prima.

I suoi capelli morbidi, la sua bocca piccola e sensuale, gli occhi grandi e profondi nella cui oscurità era impossibile non perdersi erano una copia identica di Nadia: sembrava che il creatore l’avesse vista nella mia mente e ne avesse fatto un’altra uguale, per sbeffeggiarmi. Era una sua sosia. Nadia è la ragazza che ho salutato dieci anni fa prima di partire per l’Italia: tra singhiozzi, e con le labbra bagnate dalle sue lacrime, le ho promesso che sarebbe stato per poco e che l’avrei pensata sempre e che presto saremmo tornati di nuovo insieme. Per lunghi anni ho mantenuto la promessa di pensarla sempre, avevo custodito il suo viso nella mia memoria e la guardavo ogni volta che chiudevo gli occhi: non ho mai tenuto una sua foto ma lei è impressa nella mia mente nella bellezza dei suoi diciassette anni, mentre per quanto riguarda il resto del mio giuramento, non potrò mai tenergli fede visto che devo rimanere ancora per molti anni in prigione.

È risultato una piacevole scelta quella di non aver mai chiesto una sua foto recente, e oggi non so come questi dieci anni l’abbiano rimodellata, e non lo vorrei sapere: credo che non sarà gradevole rivederla cambiata - anche se fosse altrettanto bella di allora non mi piacerebbe vedere una bellezza che non mi appartiene più, è il ricordo della bellezza che fu mia che mi incanta - così come spesso continuo a pensare di avere ancora diciannove anni come quel lontano giorno.

 

All’improvviso è stato come tornare  a dieci anni fa, alla mia vita prima del carcere

 

Ho creduto veramente di essere ancora giovanissimo quando, seduto sui gradini dell’auditorium del carcere, ho visto gli occhi neri di quella ragazza che si guardava intorno disorientata. L’ho fissata smarrito, accompagnandola con lo sguardo, fino a quando ha trovato un posto dove sedersi, circondata e coperta dai suoi compagni di scuola che nel frattempo riempivano la sala. I dieci anni che mi separavano da lei sono spariti di colpo, la sofferenza della lunga prigionia all’improvviso è svanita, il ricordo dei cancelli, delle divise, dei tribunali, delle condanne, insomma tutto quello che è successo da quando ho salutato lei, si è cancellato come per magia.

Nei primi anni di carcere mi spaventava l’idea della morte perché significava non poter più pensare a lei, poi mi ero stancato di ricordarla e avevo invece desiderato proprio la morte, che non mi faceva più paura perché non avrei perso nulla, mentre in questo incontro con gli studenti ho cominciato di nuovo a temere che qualcosa mi avrebbe potuto portar via questa gioia inaspettatamente ritrovata.

La giornata è proseguita movimentata. Intorno a me erano seduti dei volontari, dei detenuti, degli studenti, e guardavamo tutti insieme lo spettacolo preparato dall’orchestra del carcere, mentre alla mia destra era seduta una ragazza che da quando si è laureata pochi anni fa ha deciso di fare volontariato in carcere.

Per quasi tutto il tempo ho goduto lo spettacolo insieme a lei, commentando e canzonando tutto ciò che succedeva: starle vicino naturalmente aveva del piacevole - non sempre mi succede di sedermi vicino a una ragazza e passare lunghe ore all’insegna del divertimento, disinteressandomi delle regole - ma la felicità che m’aveva pervaso e l’ilarità che stavo manifestando era di origine diversa: la presenza della sosia di Nadia m’aveva rilanciato in un’altra dimensione, fuori dal carcere, e lei continuava ad apparirmi nella mente, nei suoi diciassette anni, mentre io volevo soltanto allontanarla. Allora mi aggrappavo ad ogni idiozia per ridere, ad ogni particolare per commentarlo, soltanto per evitare di pensare a quella mattina di dieci anni fa.

Mi sono sentito fortunato quando tutto è finito e ho dovuto alzarmi in piedi, ma soltanto per un momento: d’un tratto sono stato assalito da un forte desiderio di rivedere la ragazza dai capelli neri, volevo guardarla per un’ultima volta, prima ero fuggito dal suo ricordo, ma in quel momento ho sentito come se l’immagine di Nadia, negli anni, avesse perso l’antica lucidità e fosse diventata opaca, e il destino, forse dispiaciuto, mi stava offrendo l’occasione di rinnovarla, per continuare a ricordare il suo delizioso viso, i suoi incantevoli occhi e la sua seducente bocca con la nitidezza di una volta. L’ho cercata con ostinazione finché l’ho trovata a pochissimi metri da me, di schiena: inconfondibili i suoi capelli lisci e il corpo dalle forme armoniche che i miei abbracci conoscevano bene. Non si trattava più di una sosia, ma proprio di lei: era la stessa persona, la Nadia di dieci anni fa, che si era introdotta tra gli studenti di nascosto per sconvolgermi. Ho sceso le gradinate e ho fatto un giro intorno a lei senza toglierle mai gli occhi di dosso e assorbendo con desiderio ogni raggio di luce che lei continuava a effondere, da anni. Sono risalito poi felice fino al punto di partenza, vicino alla mia amica volontaria, alla quale, non potendo nascondere la mia emozione, ho confessato che stavo guardando una ragazza di rara bellezza, che non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, e che era proprio lì, solo a qualche metro.

Ho sempre saputo che la felicità non è fatta per durare, ma riguarda soltanto qualche attimo, e che per il resto l’esistenza umana è un continuo tetro sopravvivere, cosicché ero certo che anche quella felicità sarebbe durata pochi attimi, e così è stato.

La mia amica mi ha guardato negli occhi e impassibile mi ha detto: “Cosa fai, guardi le ragazzine? Guarda che sei vecchio ormai per queste qui!”. Il buio ha avvolto la mia mente come una nuvola schiumosa che scendeva nei bronchi per togliermi il respiro, il dolore mi ha trafitto ed ho avuto paura: avevo promesso a Nadia di pensarla sempre riuscendoci per parecchi anni, immaginandola sempre tra le mie braccia come una volta, e questo mi aveva allontanato dall’idea che gli anni passavano e, oltre a lei, anch’io subivo i cambiamenti imposti dal tempo. Con orrore ho visto questi dieci anni, che non sono riusciti a farla sparire dalla mia mente, mettersi di traverso tra me e il suo ricordo per bocca di una persona ignara di tutto ciò - forse un po’ distratta nelle sue affermazioni, ma pur sempre ignara degli intrighi intessuti dal mio crudele destino - che mi diceva di dovermi togliere dalla mente il ricordo di una ragazzina, incompatibile con la mia età, a dispetto della mia promessa.

L’immenso dispiacere di non dover più pensare a lei, al mio ultimo e lontano amore, mi ha tolto, oltre al respiro, anche la parola. Sconvolto ho restituito con qualche balbettio i saluti dei volontari, dei compagni detenuti e della mia amica che in quel momento odiavo, nel suo ruolo di strumento obbediente del destino. Stanco dall’incontro, avvilito dalla mia anomala esistenza, depresso dalla vista di quel fiume di vita, che per un momento mi aveva trascinato nel suo potente scorrere, sono tornato in cella, ho chiuso io stesso la porta blindata e mi sono buttato sulla branda, pensando che forse sarebbe stato meglio giocare una partita di pallone.