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Banditi di domani
Le carceri minorili del passato erano palestre di futuri delinquenti speriamo che non tornino ad esserlo
Di Claudio e Angelo, febbraio 2002
Negli anni settanta il mondo era scosso da grandi desideri di cambiamento, i giovani si riversavano nelle piazze, gridando slogan che inneggiavano alla libertà. Tanti aderivano a gruppi politici, di destra o di sinistra, perché così facendo pensavano di avere una maggiore indipendenza; altri protestavano usando la musica. Ma c’era anche chi, insofferente alle condizioni di povertà (che allora erano molto diffuse), si allontanava da casa per ritrovarsi con altri giovani che volevano provare emozioni in assoluta libertà, vivendo di espedienti e commettendo anche dei reati. Questa inaspettata ribellione giovanile creò un forte allarme sociale, che si tradusse presto in una indiscriminata repressione. Chi era sorpreso in situazioni o atteggiamenti "sospetti" era fermato e identificato (come i clandestini di oggi, anche noi eravamo senza documenti); una volta accertate le generalità "in base ai dati forniti dal minore", venivano chiamati i genitori, per una verifica delle dichiarazioni rese e perché venissero a riprendersi il figlio, se non aveva fatto niente di grave, altrimenti per lui si aprivano le porte del carcere.
L’esperienza di Claudio
La prima volta che mi arrestarono avevo 14 anni. Eravamo nel giugno del 1970 (erano in corso i campionati mondiali di calcio), abitavo a Verona e vivevo in modo spensierato, del tutto irresponsabile, assolutamente senza rendermi conto che commettendo dei reati sarei finito in carcere. Finché mi portarono in Questura e poi al minorile di Treviso, S. Bona Nova… qui la realtà mi si presentò in tutta la sua crudezza. Mentre percorrevo i lunghi corridoi che portavano all’accettazione, cercavo con lo sguardo e speravo di scorgere un viso amico, che mi rassicurasse e mi facesse rallentare il battito cardiaco. Ma l’unico viso che mi trovai davanti fu quello di un omone baffuto, dalla voce forte e autoritaria, e in quel momento compresi che i miei 14 anni non erano sufficienti a permettermi di mantenere un atteggiamento spavaldo… quasi mi tremavano le gambe. L’agente mi disse di seguirlo in una stanza vicina. sopra la porta c’era una scritta: "Ufficio matricola". Lì mi presero le impronte e mi fecero le fotografie. Poi passai al magazzino, dove ricevetti la "fornitura" (lenzuola, prodotti per la pulizia, etc.). A quel punto arrivò un "signore" senza divisa che mi spiegò: "Io sono il tuo educatore, così mi devi chiamare… né agente, né guardia e tanto meno secondino, capito!?". Poi mi disse di seguirlo, attraversammo alcuni cancelli fino ad arrivare alla sezione minorile, che si trovava di parecchio spostata rispetto al reparto maggiorenni. Arrivato davanti alla cella dov’ero assegnato guardai all’interno e, con immensa gioia, finalmente vidi un viso conosciuto, quello di un mio amico di Verona. Entrai in cella, subito lo abbracciai e, con quell’abbraccio, ritrovai tutta la sicurezza che avevo perduto: "Massimo, anche tu qui?!". Bastò che ci scambiassimo qualche battuta perché si creasse un clima di complicità, e scoprii così di poter contare sul sostegno dei miei coetanei detenuti. Il mattino seguente mi portarono dal Giudice dei Minori; il mio cuore ricominciò a battere forte non appena fui davanti al magistrato, che mi invitò a sedere e mi chiese come mi chiamavo. Il suo sguardo era severo, mi fece una infinità di domande e ben presto compresi che aveva un atteggiamento molto "rimproverante", ma soprattutto capii che non sarei tornato a casa tanto presto. Il Giudice mi chiese anche se da bambino ero stato in collegio, e quando gli risposi che c’ero stato volle sapere il motivo per cui mi avevano messo in collegio, quanto tempo ci ero rimasto e cosa mi ricordavo di quell’esperienza. Non pensai al "perché" di quelle domande, che mi sembravano avere poca attinenza con il mio arresto, e solo oggi, 32 anni dopo, sono riuscito a capirlo. Mario, un compagno di detenzione che ha la mia stessa età ed è stato pure lui nel carcere minorile, un giorno mi ha detto: "Ma lo sai, Claudio, che l’esperienza del collegio è stata la nostra prima carcerazione!? Il 20% dei ragazzi che sono stati in collegio, poi sono finiti nelle carceri minorili. Ti ricordi del numerino che la nostra mamma ci cuciva su ogni indumento?". "Come no, il mio numero era il 133", gli risposi, e Mario concluse: "Ecco, quello fu il nostro primo numero di matricola". Lui, come me, era stato portato in collegio a seguito di una segnalazione della S. Vincenzo (l’Ente che aiutava le famiglie in difficoltà economica).
L’esperienza di Angelo Nel 1994 venni arrestato per la vendita di sostanze stupefacenti. Mentre ero in caserma e attendevo l’esito del fermo in una cella buia e sporca, pensavo a cosa ne sarebbe stato di me, dei miei affetti e di tutto il resto, se mi avessero convalidato il fermo. Dopo qualche ora di attesa vennero ad aprirmi e mi dissero che il Pubblico Ministero aveva convalidato l’arresto. Mi dissi: "Ci siamo! Ora ti aspettano tempi duri". Venni accompagnato, da Verona fino a Treviso, da quattro carabinieri in borghese. Durante il viaggio mi dicevano di non preoccuparmi, perché nel giro di poco tempo sarei tornato a casa, ma io non li ascoltavo nemmeno, continuavo a fissare le montagne, i paesaggi che si susseguivano, e pensavo a quando averi potuto ancora vederli. Arrivati davanti all’ingresso del carcere minorile, già vedere i cancelli alti e il perimetro esterno mi fece una certa impressione, passammo il cancello ed io rimasi a fissarlo mentre si chiudeva... I carabinieri mi lasciarono in portineria e gli agenti mi fecero entrare in una stanza, con una finestra alta e poca luce, dove rimasi due giorni, finché il Giudice dei Minori decise di spostarmi nelle sezioni dove alloggiavano gli altri ragazzi. La stanza dove ero rimasto due giorni da solo, lo seppi in seguito, la chiamano C.P.A (Centro di Prima Accoglienza). Nella sezione arrivai verso le otto di sera, quando ormai era buio, mi diedero un paio di lenzuola e niente più. Vicino al letto c’era un televisore, il soffitto era alto e la stanza molto piccola. Mi stesi sulla branda e rimasi fermo, immobile, a guardare il soffitto e la finestra, che aveva sbarre arrugginite e spesse. Al mattino gli agenti penitenziari, che al minorile non portano la divisa, mi dissero di andare a far colazione con gli altri ragazzi, nel refettorio. Mi preparai e, uscito dalla cella, vidi molti altri ragazzi che attendevano il consenso dall’agente per entrare in mensa. L’incontro con questi ragazzi non fu dei migliori, visto che lì non si usava dare il "benvenuto" ai nuovi arrivati. In mensa eravamo circa 30 persone, prendemmo i vassoi e un addetto alla cucina ci diede da mangiare. Al minorile il cibo arriva dall’esterno, perché ai ragazzi è vietato svolgere qualsiasi tipo di lavoro. Dopo aver mangiato andammo all’aria, fino alle undici. Poco dopo mi chiamarono gli educatori per fare il colloquio di primo ingresso. Gli raccontai la mia storia e mi feci spiegare le regole da seguire, riguardo agli orari per la doccia, ai colloqui con i famigliari, etc. Il sabato, giorno di colloquio, venne a trovarmi mia madre. Prima che riuscisse a parlarmi passarono una decina di minuti, perché non riusciva a smettere di piangere per il dolore di vedermi in quel posto. Nel vederla così, mi sentivo un fallito. Cercai di tranquillizzarla dicendole che non mi trattavano male, così si calmò un poco e riuscimmo a dialogare per il tempo rimanente, ma l’ora del colloquio finì in fretta e lasciarsi fu molto difficile. Dopo una settimana mi chiamò ancora l’educatore, che mi propose di partecipare a un corso di falegnameria. Io, senza farmelo ripetere due volte, accettai subito: potevo scegliere tra questo corso, uno di pelletteria, e la scuola media. Nel giro di un mese riuscii così a fare un po’ di amicizie e ad ambientarmi. Le carceri minorili del passato erano le palestre dei banditi di domani, il percorso di tanti ragazzi era: collegio, carcere minorile, carcere per adulti. Oggi si parla di accelerare il passaggio al carcere per adulti, al compimento del diciottesimo anno: ma non si rischia di accelerare così una futura vita da delinquente?
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