Come spiegare ai propri figli di essere detenuto

 

Oggi trovo assurdo aver nascosto ai miei figli ciò che avrei dovuto invece rivelare, ma è anche vero che quella rivelazione andava "assistita"

 

Di Claudio Darra, giugno 2002

 

Sono un padre detenuto che a suo tempo avrebbe dovuto spiegare ai propri figli, nel modo più corretto possibile, del luogo in cui mi trovavo, cioè il carcere. Il mio arresto è avvenuto mentre attendevo mia figlia all’uscita della scuola e solo per pochi minuti la bambina non ha assistito alla drammatica scena. Mentre venivo condotto in carcere, i miei occhi non erano collegati con le reali immagini del percorso, vedevo solo i visi di mia moglie e dei miei figli riflessi nel vetro del finestrino.

Quei visi mi seguivano assumendo forme distorte e sofferenti, era la mia coscienza che le proiettava, e nel medesimo istante il carabiniere seduto accanto a me mi chiedeva "Darra, cosa dirai ai tuoi figli?". Nel frattempo sono arrivato in carcere e, una volta in cella, ho ripreso subito i miei angosciosi pensieri: lo squallore del luogo in cui mi trovavo allontanava il desiderio di raccontare ai miei figli che ero in prigione. Così ho deciso fermamente di non parlarne, intanto i giorni passavano e i miei pensieri mutavano continuamente.

Questa altalena è finita quando ho avuto il primo colloquio con mia moglie, dopo un forte abbraccio le ho sussurrato: "Come stanno i ragazzi?", e lei mi ha risposto: "Chiedono insistentemente di te e di dove ti trovi". Le ho detto che, per il momento, non era mia intenzione svelargli che ero in carcere e poi però le ho chiesto se condivideva la mia scelta. Ricordo che mi ha risposto in modo più prudente, nel senso che avrebbe preferito interpellare delle persone qualificate, per esempio uno psicologo, per chiedere un consiglio.

Ho capito allora che non era insensato rivolgersi ad un esperto, e così abbiamo deciso, di comune accordo con Loredana, di prendere tempo, anche perché ero in attesa di sapere dal mio avvocato se ci sarebbero stati sviluppi positivi riguardo alla mia situazione giuridica.

Quando è venuto l’avvocato, dopo avermi spiegato chiaramente la mia posizione, mi ha detto che per il momento avevo fatto bene a non far venire a colloquio i figli, perché esistevano concrete possibilità di un mio ritorno a casa.

Infatti, anche con l’aiuto della buona sorte, dopo un breve periodo di detenzione ho potuto tornare a casa, agli arresti domiciliari. La felicità di riabbracciare i miei figli e mia moglie ha cancellato immediatamente il ricordo della brutta esperienza appena vissuta. Ma non ero completamente felice, perché continuavo a nascondere la verità ai miei figli e cercavo di dare una giustificazione a questo mio comportamento appellandomi al "buon senso". Ovviamente le domande non tardavano ad arrivare, e una di queste la ricordo in modo particolare: "Papà, perché non esci mai da casa?".

La mia risposta fu insensata, ho risposto loro che non potevo uscire perché ero malato e la mia guarigione dipendeva dal fatto di non prendere colpi d’aria… i miei figli, allora, controllavano continuamente che le finestre di casa fossero chiuse in modo accurato!

Nel vedere tanta premura, tanta tenerezza da parte dei nostri ragazzi, mia moglie si è commossa ed io mi sono sentito sprofondare. Mi ero comportato in modo meschino per cercare di nascondere la verità, il fatto di essere detenuto, quella verità che non dovevo tacere se volevo davvero completare la felicità del mio ritorno.

Oggi trovo assurdo l’aver nascosto ai miei figli ciò che avrei dovuto rivelare, ma è anche vero che quella rivelazione andava "assistita", prima e dopo l’uscita dal carcere, perché il carcere è una realtà sociale che i ragazzi devono conoscere e un padre detenuto deve trovare la forza di raccontargliela.

Cinque anni dopo sono tornato in carcere, sempre per quegli stessi reati, per i quali è arrivata la condanna definitiva, e questa volta non ho tardato molto a farlo sapere ai miei figli, però l’unico luogo dove avrei potuto discutere con loro dell’accaduto era la sala – colloqui, e quel luogo non è il più adatto per scambiarsi dell’affetto, premessa indispensabile per affrontare un discorso così delicato con dei figli adolescenti.

Il motivo che mi ha spinto a raccontare questa mia esperienza è la voglia di far comprendere quanto sia importante creare nel carcere luoghi adatti, strutture appositamente allestite per accogliere i famigliari, dove i famigliari possono entrare come degli "ospiti" e non come dei "semidetenuti". Un luogo dove poter cucinare un pasto, da consumare poi assieme a loro, dove scambiarti un bacio, una carezza, un abbraccio senza barriere, senza essere sotto lo sguardo dell’agente. Solo così un detenuto può trasmettere e ricevere quell’affetto necessario per mantenere vivi i valori veri della vita, solo così può spiegare ai figli che cosa gli è successo, cercare di star loro vicino, assumersi quelle responsabilità, che a volte nella "vita libera" non era stato capace di affrontare.