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L’ultima lettera
di Ilir Ceka, marzo 2005
Sono disteso sul letto. È una notte di quelle che di dormire non se ne parla proprio. La mia mente, invece di abbandonarsi al sonno, viaggia indietro nel tempo, mi porta a ricordare quando studiavo all’istituto agrario, e le vacanze estive le passavo lavorando. Per avere a settembre due soldi in più in tasca spesso mi toccava fare il turno di notte. Non era poi male lavorare di notte in campagna. Verso l’una facevamo un’ora di riposo. Io mi sdraiavo un po’ lontano dai miei compagni e cominciavo a sognare. Il cielo era pieno di stelle, che circondavano una luna splendente. Io guardavo quel panorama e sognavo ad occhi aperti. Anche se sapevo che da grande avrei fatto al massimo l’agronomo, il mio futuro lo immaginavo sempre bellissimo. Credo che nessuna circostanza poteva impedirmi di sognare ad occhi aperti, e fare dei bei sogni. Dentro di me dicevo: qualsiasi cosa può succedere su questa terra ma niente mi può fermare dal sognare solo belle cose. Rimango sdraiato e allora provo a sognare di nuovo, come allora, ma non ci riesco e mi accorgo che questa carcerazione non mi permette più nemmeno di sognare. Le stelle ci sono, e dalla mia branda riesco a vederle attraverso le sbarre, ma non riesco più neanche a pensare a mia figlia perché ho come un vuoto nella testa. Ormai sono tre anni e quattro mesi che sono in carcere e non ho mai potuto vederla, così l’orizzonte dei miei sogni è diventato molto stretto. Ascolto il televisore che è rimasto acceso nel buio della mia cella e un giornalista parla dell’ultimo suicidio successo nel carcere di Sulmona. Inconsciamente cerco di mettermi nei panni di quell’uomo, che forse proprio per le stesse condizioni in cui vivo anch’io si è sentito spinto a fare quel gesto. Se fossi stato io avrei per prima cosa scritto una lettera - ci deve essere sempre una lettera d’addio - per i miei genitori, per mia moglie, per mia figlia, per i miei fratelli e per tutte le persone che amo, in cui avrei cercato di spiegare i motivi. Ho chiesto a qualcuno se ha mai pensato di togliersi la vita, nella mia convinzione che a tutti è passato almeno una volta per la mente di compiere tale gesto, ma mi rispondono sempre di non averci mai pensato. Si dice che “non c’è malato, più malato, del malato che dice di non essere malato” e credo che questa frase si adatti fortemente ai miei compagni di detenzione che vogliono sembrare duri, che non cedono mai. Io invece sono uno di quelli che più di una volta ha pensato che la strada più corta era di farla finita, ma mi è bastato girare la testa verso il muro, che è sparito subito quel pensiero. Il cervello in quei momenti diventa piccolo come un semino di grano. Credo che serva più coraggio a scontare la pena detentiva, che a commettere un reato. Le lettere. Quante lettere ho scritto. Ogni volta che prendo a scrivere una lettera, cerco di nascondere bene la rabbia e le paure che ho dentro, cerco di apparire felice agli occhi dei miei cari. Considero la loro sofferenza maggiore della mia, per questo motivo a volte penso che l’estremo gesto sia la soluzione. Tante volte mi fermo a scrivere la lettera e cerco di dominare la rabbia che ho dentro. Questo avviene spesso quando tento di spiegare ai miei familiari che non è detto che io debba fare tutta la pena, che potrei uscire dal carcere con qualche beneficio di legge, tanto mi sono comportato bene. Anche se dentro di me so che è molto improbabile per uno straniero come me, ma questo non ha importanza, importante è tranquillizzare e mentire ai miei cari. È in questi momenti che devo lottare per frenare, per dominare la rabbia, la tristezza. Devo mentirgli perché se dovessi raccontare la verità non saprei spiegargli perché, nonostante ci siano dei lavori, io non lavoro mai qui dentro e continuo a essere mantenuto da loro, non gli posso raccontare che anche se mi sono comportato bene, svolgo attività di volontariato, ho seguito tutti i corsi, mi sono sentito dire in faccia che non sono ancora pronto per avere due ore di permesso premio a casa. Mi do coraggio pensando che mi manca poco a finire la pena e continuo a mentirgli, anche se in quei momenti il cervello torna piccolo come un seme di grano e penso ad una soluzione estrema. Poi però giro la testa al muro e dico a me stesso che non ho bisogno di scrivere l’ultima lettera. Ma forse molti miei compagni non hanno nessun motivo per girare la testa verso il muro, e neanche scrivere un’ultima lettera perché non sanno neppure a chi indirizzarla, e alla fine diventano solo un numero nel “Dossier Suicidi” che si trova nel nostro sito internet. Ormai è meglio mettersi a dormire e non pensare molto a queste cose, perché non si sa mai… Nel buio mi giro verso il muro perché lì c’è la foto di mia figlia che dista pochi centimetri dai miei baci, nella luce sempre accesa del mio amore per lei. |
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