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Una persona che ha ucciso non potrà mai più avere una vita normale Spesso penso di vivere oggi una vita che non merito di vivere Non posso immaginare un assassino che rimane indifferente nel sentir pronunciare il nome della propria vittima, perché io non ci sono mai riuscito
di Andrea Andriotto, giugno 2008
Arrivo a convegno già iniziato. Dal corridoio sento solo una voce di donna. Giunto alla porta mi accorgo che la sala è piena. Questa volta c’è molta più gente di tutti gli altri anni, mi guardo attorno cercando di capire cosa mi sono perso e cosa mi aspetterà da questa giornata. La sala è percorsa da un silenzio quasi irreale, ci saranno più di cinquecento persone e tutte zitte e attente. Allungo lo sguardo verso il tavolo dei relatori e vengo catturato prima dalla voce e poi dalle parole di quella ragazza che più o meno avrà la mia età: “… quando uscivamo dall’aula bunker vedevo quelle persone e mi colpiva veramente vedere come avessero l’aspetto di persone normali, che avevano una vita normale, quando la mia, di vita, normale non lo era stata proprio per niente…”. So di sbagliarmi, ma ho come la sensazione che potrei anche essere io una di quelle persone dall’apparente vita normale. Entro nella grande sala sentendomi piccolino e con la sensazione di avere il dito di quella donna puntato contro, incredibilmente mi sento addosso anche gli occhi di tutti. Se riuscissi a far prevalere la razionalità mi renderei conto che in realtà non sono stato notato da nessuno, tranne dall’agente che piantona l’entrata, e invece mi avvio verso le gradinate affrontando quei cinque gradini che mi separano dal posto a sedere come se avessi sulle spalle cento chili di cemento e mi trovassi ai piedi dell’infinita scalinata di Trinità dei Monti. Mi sento pesante, quelle parole mi entrano dentro con una prepotenza tale che iniziano a far eco e a rimbombare nella mia testa: “Quello che mi aspetto io da un assassino è che tutte le mattine alzandosi si chieda ‘ma che cosa ho fatto?’… e che consideri ogni giorno della sua vita come ‘regalato’ rispetto a quel che ha tolto e che si comporti di conseguenza…”. Avvistato un posto mi vado a sedere vicino ad un conoscente, mi sembra di essere un po’ più impacciato del mio solito. Cerco di capire chi sia quella ragazza e mi viene detto che si tratta di Silvia Giralucci. Ascolto con attenzione e fino all’ultima parola il suo intervento e nel momento in cui finisce di parlare e passa il microfono alla moderatrice, e mentre tutta la sala dimostra partecipazione e applaude le sue parole, mi prende un morso allo stomaco. Penso che se solo potessi vorrei dire a quella donna che mi dispiace per quanto le è accaduto e che non ho la più pallida idea di come si possa sentire una persona che uccide un potenziale o fantomatico nemico in nome degli ideali, ma so di certo come ci si sente dopo aver ammazzato in nome della “disperazione” una persona che non aveva nessuna colpa. Una persona che con la mia disperazione non c’entrava assolutamente niente. Io non so come si viva quando ti viene a mancare una persona cara in un modo così inspiegabile e atroce, non so come si cresce senza il padre morto ammazzato, e non so nemmeno cosa si possa provare nei confronti dei suoi assassini. Io so solo come ci si sente quando ci si trova in un’aula di Tribunale mentre qualche esperto cerca di ricostruire gli ultimi sanguinosi istanti di una vita che oggi non c’è più a causa mia. So come ci si sente quando gli occhi dei parenti ti fissano mentre ci si trova alla sbarra. So come si sta nel chiuso di una cella, in compagnia della sola disperazione pensando a quello che si è fatto, e so quanto si vorrebbe poter tornare indietro per ridare tutto ciò che si è tolto in così pochi istanti. Io so come mi sento quando mi succede di guardarmi allo specchio e mi rendo conto che la persona che mi trovo di fronte è un assassino, e quella persona sono proprio io. Io che una volta pensavo che per chi uccide non doveva esistere nessuna comprensione o compassione, perché un atto così estremo, come provocare la morte di un’altra persona, poteva essere solo una cosa premeditata, voluta, cercata, per cui se si arriva a tanto si deve anche essere consapevoli delle conseguenze, e pagarle in silenzio. Sono passati tredici anni da quel giorno e, anche se faccio in modo di distaccarmi da quel che ho fatto, ancora oggi spesso, spessissimo mi succede di pensare a quella persona morta a causa mia. Per tutto questo tempo ho combattuto in silenzio le afflizioni, le inquietudini, le pene di quanto commesso. Non so se per i parenti della mia vittima sia abbastanza, ma a me succede continuamente di pensare ‘… ma che cosa ho fatto?’, e spesso penso di vivere oggi una vita che non merito di vivere.
Le persone che vogliono bene a me in un certo senso sono mie vittime
Io non so se ci sia una persona che ne ha ucciso un’altra, per sua volontà o meno, che riesce a vivere ogni giorno della propria esistenza senza pensare a ciò che ha tolto. Oggi non riesco nemmeno ad immaginarmela, una persona assassina che riesce a vivere una vita normale. Non ci riesco, perché per me (e per molte di quelle persone come me che ho conosciuto durante tutti questi anni di carcerazione) è sempre difficile non mettere davanti a tutto il resto ciò che ho fatto quel pomeriggio di tredici anni fa. Non posso immaginare un assassino che rimane indifferente nel sentir pronunciare il nome della propria vittima, perché io non ci sono mai riuscito, a rimanere indifferente nel sentir pronunciare un nome uguale a quello che portava la mia vittima, non sono mai riuscito a far finta di niente quando sento una voce simile alla sua, oppure quando ho vicino persone che in un modo o nell’altro mi ricordano qualcosa di quella persona… Non so se per me sarà così per sempre, tuttavia mi rendo conto che per sopravvivere devo riuscire a distaccarmi, devo riuscire a vivere una vita normale, se non solo per me, devo farlo anche per le persone che nonostante tutto hanno continuato a volermi bene e a starmi vicino in tutto e per tutto. Perché se da una parte devo fare i conti tutti i giorni con la mia vittima e con le persone che le volevano bene, dall’altra devo anche pensare alle persone che vogliono bene a me. E anche loro in un certo senso sono mie vittime. Sì, mie vittime perché la mia era una famiglia normale, che conduceva una vita normale, che viveva in un paese normale. Una famiglia che si è svegliata una mattina per andare a lavorare e invece gli è arrivata una mazzata tremenda quando un carabiniere ha detto loro che il loro figlio, fratello, cugino, zio, era stato arrestato per omicidio. La loro vita da quel momento si è stravolta, le loro certezze, i loro gesti, le loro abitudini, le loro frequentazioni e le amicizie… da un momento all’altro tutto è stato sconvolto, e solamente a causa mia. I miei per un bel po’ di tempo si sono rifiutati addirittura di uscire di casa e, pur di non incontrare persone o sguardi indiscreti e pronti a giudicare, andavano a messa e a far la spesa a più di dieci chilometri da casa. C’è voluto un po’ di tempo, ma poi anche in loro è prevalso l’amore, e dopo essersi ripresi da quel terribile trauma hanno iniziato a riaccettarmi e a pensare principalmente al mio bene, a pensare che scontata la pena in carcere potrò tornare a vivere una vita quanto più normale possibile. Purtroppo però, io, che ho ucciso, vivo e vivrò una vita che solo ad un occhio poco attento potrà sembrare normale. Una vita in cui dovrò sempre fare i conti con i sensi di colpa verso tutte quelle persone alle quali ho cambiato l’esistenza. |
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