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Dal carcere “fiumi di dolcezza” inondano la città A Padova entrando in carcere si è assaliti da profumi straordinari di vaniglia, cioccolata, biscotti: la galera purtroppo non è diventata più dolce, ma da quando al suo interno funziona a pieno ritmo una pasticceria, per qualche detenuto davvero la vita è meno amara
di Altin Demiri, maggio 2006
Una pasticceria che, da dentro un carcere, inonda la città di “dolcezze” di tutti i tipi: succede da circa sette mesi nella Casa di reclusione di Padova, dove io, ad altri quattro detenuti e due maestri pasticceri “civili” che ci insegnano il mestiere, produciamo moltissimi chili di torte, pasticcini e biscotti, che vengono poi messi in vendita in molti esercizi della città, e venduti anche ai detenuti di questo istituto con una quantità crescente di ordinazioni, che significa che la qualità di ciò che produciamo è ottima. Due parole le voglio dedicare a Gion ed Alessandro, i nostri “maestri”, ed è proprio il minimo che io possa fare nei confronti della disponibilità e della pazienza che ci dimostrano quotidianamente. Nonostante siano molto giovani, hanno meno di trenta anni, non solo ci insegnano l’antica arte della pasticceria, ma rappresentano per noi dei veri modelli di vita in quanto a sacrifici ed onestà. Ci aiutano a credere nelle nostre possibilità, ci incitano a non arrenderci mai, ad essere responsabili perché soltanto così, dicono, possiamo poi riuscire ad affrontare anche la vita libera che ci attende ma che non fa sconti a nessuno. Inoltre non ci hanno mai fatto pesare, neppure per un istante, il fatto che siamo persone detenute: hanno messo da parte qualsiasi pregiudizio, e insieme lavoriamo, seppur ognuno con le rispettive mansioni e responsabilità, assolutamente “alla pari”, il che rappresenta per me, e sono sicuro anche per i miei compagni, una bella lezione di vita. Pur con le difficoltà comuni in un qualsiasi ambiente lavorativo, siamo un gruppo ben affiatato dove ognuno si impegna al massimo delle proprie possibilità. Non avrei mai pensato di alzarmi la mattina alle 05,30 con tanto entusiasmo, per scendere in un laboratorio attrezzatissimo ed iniziare con la cottura delle brioches per le colazioni, e poi via, mani in pasta fino alla fine del mio turno di lavoro. Fare il pasticcere in carcere significa prendere in mano la situazione e imparare, e per fare ciò ho impiegato settimane, mesi. Cosa vuol dire? Innanzitutto che ho messo a frutto in modo utile il mio tempo, invece di sprecarlo sdraiato in cella a guardare la televisione. In secondo luogo ho imparato che se ci si impegna si può arrivare dovunque: se sono riuscito a diventare pasticcere, posso fare (quasi) qualsiasi mestiere e questo mi ha fatto acquisire molta fiducia in me stesso e nei miei mezzi. Inoltre, e questa è forse la cosa più importante, tutto ciò mi ha insegnato che si possono raggiungere grandi soddisfazioni anche senza dover scegliere il facile guadagno, insomma non è necessario rubare e commettere dei reati per soddisfare il proprio bisogno di felicità. Nessuna somma di denaro riuscirebbe a darmi la gioia che provo quando il mio lavoro riesce bene, e soprattutto quando è appezzato da chi mi ha dato questa possibilità. Questo è, credo, il senso della pena, che dovrebbe rieducare e reinserire le persone detenute, compito abbastanza difficile se però mancano gli strumenti fondamentali per raggiungere tale scopo, e in particolare il lavoro che nella maggioranza delle carceri è quasi inesistente. Se ci viene offerta qualche opportunità è possibile un nostro profondo cambiamento, altrimenti la galera rimarrà soltanto un luogo in cui rinchiudere le persone fino alla fine della loro condanna, senza preoccupazione alcuna di quello che sarà il dopo carcere e la nostra reintegrazione sociale. E invece è assolutamente indispensabile dare un senso agli anni in cui i detenuti devono stare “isolati” dal resto del mondo. Attualmente siamo circa 60 persone a lavorare per le numerose attività del consorzio Rebus (la cucina che produce i pasti per noi detenuti, un call-center per le prenotazioni delle viste ospedaliere, la produzione di manichini e altre lavorazioni ai capannoni). Tutte iniziative importanti in un luogo dove regna il disagio, tra persone che non hanno disponibilità economiche e alle quali, improvvisamente, viene data una occasione reale e concreta di uscire dalla cella, di fare qualcosa di veramente produttivo e di avere un reddito che consente di mantenersi e di non gravare sulle spalle della propria famiglia, che anzi in questo modo si può aiutare economicamente. Inoltre, nel mio caso specifico, sto imparando un mestiere molto richiesto nel mercato del lavoro, e quando potrò uscire avrò sicuramente un’opportunità lavorativa che mi permetterà di far vivere, dignitosamente ed onestamente, sia me che i miei familiari. Questa esperienza mi ha gratificato enormemente, ma la soddisfazione e la meraviglia più grande doveva ancora arrivare: quando, la settimana successiva alla presentazione dei nostri prodotti, che abbiamo fatto al Caffè Pedrocchi durante un permesso premio, ho telefonato ai miei familiari, che non vedo da oltre 12 anni, ho sentito mia mamma piangere. Temevo che le sue lacrime fossero dovute a qualche disgrazia e mi sono spaventato, ed invece anche lei mi ha raccontato di avermi visto su Canale 5, che infatti arriva fino in Albania. Quindi piangeva dalla felicità di aver ritrovato, dopo tanti anni, il viso di suo figlio, e lo stupore e l’emozione sono stati due sentimenti molto forti che hanno coinvolto entrambi.
Il 7 aprile al Caffè Pedrocchi, in una sala gremita di autorità, personalità varie e giornalisti, eravamo presenti anche noi, tre dei cinque detenuti che lavoriamo nella pasticceria interna alla Casa di reclusione di Padova. Per un giorno siamo stati i VIP: abbiamo tagliato la colomba e l’abbiamo offerta ai presenti, che si sono complimentati e, in segno di “ringraziamento”, ci hanno letteralmente tempestato di domande. I giornalisti poi ci hanno intervistato sull’importanza del lavoro in carcere, sulla nostra esperienza e sul progetto, assolutamente innovativo, che vede la pasticceria di un carcere vendere i propri prodotti alla città ed ai cittadini. |
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