Posso abbracciare mia madre solo al telefono

La difficoltà di mantenere vivi i rapporti affettivi. Dopo tanti anni di galera si finisce per “perdere” i sentimenti provati per le persone amate

 

di Altin Demiri, gennaio 2006

 

Mi trovo in carcere da oltre undici anni, e ho perso tutto. Oggi voglio scrivere due righe sull’affettività in carcere, e non nascondo un certo disagio. Nella redazione di Ristretti Orizzonti in cui lavoro il vittimismo è proibito, ma questa volta la vittima è reale, sono io, e la mia esperienza obbliga l’articolo a seguire un percorso fatto di un ripetersi di lamenti provenienti da privazioni e da difficoltà. Da dieci anni telefono a casa ogni settimana, e ogni volta l’attesa trasforma la settimana in un tempo interminabile, ma poi la lunga ansia puntualmente viene ripagata. Quando il centralino del carcere mi collega con casa e il telefono squilla, alzo la cornetta: le mani mi tremano, cerco di comprimere l’emozione della voce, ma dalla bocca escono ogni volta le stesse due piccole parole: “Ciao mamma”. Le conversazioni con mia madre sono sempre piene di emozioni arricchite di ricordi.

In realtà sono io a prendere l’iniziativa raccontando le mie giornate, e per tranquillizzarla le spiego di quanto sia in salute e di come il carcere italiano sia una specie di albergo. Le dico che non mi manca niente all’infuori della libertà, poi aspetto che mia madre mi dica qualcosa, ma spesso l’attesa è inutile. La sento solo piangere, perché sa che mento. Non poche volte ho pensato di rinunciare alla telefonata: non ce la faccio a sentire mia madre piangere e soffrire per la mia mancanza, ma poi capisco che non sono le mie telefonate a ferirla e so che se non la chiamassi lei soffrirebbe molto di più. L’unico modo che ha per abbracciarmi, e per baciarmi, è il telefono. È la nostra lontananza senza speranze, ed è l’inevitabilità della separazione obbligata che la fa disperare. Per capire i disagi e le mancanze, le proibizioni, devi vivere l’ambiente carcerario.

È terribile come il carcere annulli ogni forma di affetto nell’animo delle persone detenute, ma anche dei propri familiari. Dopo tanti anni di carcere “perdi” i sentimenti che provavi per le persone che hai amato, per i famigliari e per gli amici, e poi, con il passare degli anni, non riesci più nemmeno a costruire o mantenere un rapporto con persone nuove, che possono essere i cugini che crescono o i nipoti che nascono. Forse un giorno uscirò, e dopo tutti questi anni di solitudine mi troverò abbandonato, senza niente e nessuno con cui stare, e sarà come se mi trovassi su un nuovo pianeta, e con tutto da riscoprire sugli affetti. È senz’altro giusto che un uomo paghi l’offesa che ha recato alla società, e la punizione consiste nell’essere privato della libertà, isolato, con l’impossibilità di muoversi nella comunità libera, ma è disumano vedersi privati dell’abbraccio di una madre o del bacio di una moglie. Ancora oggi la società ignora che l’offesa e l’umiliazione e la perdita della dignità, che il carcere procura, sono spesso superiori al danno che le persone incarcerate hanno causato alla società. In undici anni di carcere ne ho visti tanti di padri, detenuti per reati non gravi, perdere i propri figli, la propria compagna, ho sentito molte famiglie rovinate, e se questo la società lo ritiene utile al reinserimento… io non lo comprendo.

Ancor più grave si rivela la situazione dei detenuti stranieri che non sanno più cosa sono gli affetti, perché trovano difficoltà anche con le cose più elementari come il comunicare telefonicamente con le proprie famiglie, in quanto l’apparato burocratico impone un labirinto di procedure che implicano dei tempi lunghissimi d’attesa, mentre i colloqui sono quasi impensabili, in quanto i problemi economici e logistici sono pressoché proibitivi. Le rare volte che una famiglia è in grado di affrontare le spese per viaggiare verso l’Italia a trovare un proprio caro detenuto, non riesce, o fatica enormemente, ad ottenere l’autorizzazione dal consolato italiano del proprio Paese, che pretende un lungo elenco di requisiti per il rilascio di un visto turistico. Ma anche il riuscire ad avere il visto d’ingresso non pone fine ai problemi, in quanto poi in Italia non è facile orientarsi e sistemarsi nei pressi del carcere se non si conosce la lingua o qualcuno disposto a dare una mano.

Dopo tutto questo tempo trascorso in galera credo che gli affetti non si possano più recuperare. Dopo tanti anni d’isolamento e di sradicamento sarà senz’altro illusorio anche solo pensare di essere “adeguati” ad affrontare la vita fuori, e quindi il rientro in famiglia. Ora purtroppo so fin troppo bene cosa significa essere lontani dal suolo natio, e dagli affetti, essere preda dell’ansia, della nostalgia, in un carcere che raccoglie tremendi vuoti affettivi, che abbrutiscono l’animo umano.