Escluso per l’ennesima volta

 

Ormai sappiamo benissimo di essere una categoria più che svantaggiata per quanto riguarda il reinserimento. Ma che senso ha un percorso che ci dovrebbe rieducare a rispettare regole che abbiamo trasgredito, se proprio tra queste ce n’è una che prevede che dobbiamo sparire?

 

di Altin Demiri, aprile 2005

 

Sono un detenuto albanese, e facendo parte della redazione del giornale Ristretti Orizzonti, continuo a partecipare a dibattiti sulle misure alternative, sul reinserimento sociale per i detenuti, sulla mediazione penale. In genere trovo in gran parte giuste molte argomentazioni portate dai miei compagni, ma sono sempre più perplesso su una cosa: oggi degli stranieri non si parla quasi più.

Ormai sappiamo benissimo di essere una categoria più che svantaggiata per quanto riguarda il reinserimento, non solo dobbiamo lottare per essere compresi da una società che ha una visione deformata e indiscriminatamente negativa di tutti i detenuti stranieri, ma ci troviamo ostacolati anche dalle leggi che non prevedono nemmeno in via teorica un percorso di integrazione. Le opportunità che dà la legge Gozzini sono oggi praticamente precluse dalla legge Bossi - Fini che condanna gli stranieri all’espulsione, spesso escludendoli di fatto da ogni attività orientata al reinserimento. Questo significa avere meno possibilità, e in certe zone addirittura nessuna, di accedere alle misure alternative al carcere e ai permessi premio.

Io questa legge naturalmente non la condivido, è per me una legge discriminatoria ed offensiva nei confronti degli stranieri e in contrasto col principio di uguaglianza del trattamento delle persone detenute. Quello che questa legge impone, ai detenuti stranieri, è l’espulsione come alternativa alla detenzione, ed è del tutto inutile sperare che alla fine della pena uno si possa regolarizzare in questo Paese: quando mancano non più di due anni al fine pena, ci rispediscono a casa come dei pacchi postali. Dopo aver magari scontato quasi tutta la pena, ci troveremo catapultati su un aereo, una nave o alla frontiera, e non possiamo sentirci ingannati, traditi nelle speranze di rimanere qui e ricostruire in questo paese un futuro, perché lo straniero che sbaglia non ha questo diritto, è inutile farsi delle illusioni. Dobbiamo quindi affrontare la detenzione come i nostri compagni italiani, ritrovare il senso della legalità che in passato abbiamo perduto, capire dove, come e perché abbiamo sbagliato per essere poi cacciati, esclusi per l’ennesima volta.

Ma che senso ha un percorso che ci dovrebbe rieducare a rispettare regole che abbiamo trasgredito, se proprio tra queste ce n’è una che prevede che dobbiamo sparire? La logica dell’espulsione è la prova evidente che per lo Stato italiano non siamo recuperabili, altrimenti, straniero o no, perché non permettermi di ricostruire qualcosa qui in Italia? La vita in carcere così diventa doppiamente frustrante, e fa venire solo rabbia trovarsi tra persone che magari coltivano una speranza, provano a progettarsi una strada per rifarsi una vita, pensano al lavoro, alla casa, comunque a riprendere qualcosa che avevano cominciato. Per noi resta solo il rientro forzato, anche se magari qualcosa qui in Italia avevamo costruito, e dovremo ripartire proprio da dove siamo già andati via una volta: il nostro Paese d’origine.

Qualcuno si è mai chiesto cosa ci aspetta e in che situazione di disagio ci troveremo? La maggior parte di noi si rimetterà di nuovo in viaggio per emigrare ancora e cominciare da capo, ed è facile che si ritroverà con gli stessi problemi di integrazione. Resta il fatto che la società, le istituzioni, le imprese ed anche la gente comune, credono poco alla nostra capacità e alla nostra voglia di reinserirci nella vita “regolare”. Ma questa è soprattutto, io credo, una scarsa fiducia della società italiana verso se stessa, verso la sua capacità di riaccogliere al suo interno le persone che hanno trasgredito, anche dopo periodi lunghi di carcerazione dove una possibilità di metterci alla prova c’è stata.

 

Lo Stato italiano spende centinaia di euro al giorno per ognuno di noi che sta in galera e poi ci butta via come irrecuperabili

 

Perché non si dà la possibilità, per i detenuti stranieri che dimostrano un serio impegno nella riabilitazione, di ricominciare una vita in Italia, visto che il loro debito con la giustizia l’hanno pagato? Ho letto che se un detenuto sconta positivamente l’ultima parte della pena in affidamento in prova, risulta estinta la pena e “ogni altro effetto penale” (ultimo comma dell’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario). Ma gli affidamenti in prova a noi stranieri non vengono concessi per diversi motivi. È ovvio che spesso per noi il problema della casa e del lavoro è più difficile che per gli italiani, ma non è irrisolvibile. Forse se si tentassero interventi di mediazione con il territorio nel quale la persona va ad inserirsi si otterrebbero risultati sorprendenti. Una persona che è stata per un certo periodo in carcere, ed è stata seguita in un percorso serio di risocializzazione, ha instaurato un rapporto con l’istituzione, è abituata a confrontarsi con questa, e quindi può avere più possibilità di reinserirsi di un qualunque nuovo immigrato che parte dalla clandestinità ed è stato sempre lontano dalla legalità.

In questo caso la pena non sarebbe più solo afflittiva, e se, a precise condizioni, ci fosse la possibilità di evitare l’espulsione ed arrivare prima o poi a regolarizzarsi, l’atteggiamento degli stranieri che scontano una pena potrebbe cambiare radicalmente. Lo Stato italiano spende centinaia di euro al giorno per ognuno di noi che sta in galera, anche per rieducarci, insegnarci l’italiano, curarci, e poi ci butta via come irrecuperabili: a me pare proprio un’assurdità. Ma attorno a me vedo sempre meno attenzione ed anche tra le persone più sensibili domina un senso di impotenza: c’è la Bossi-Fini, la maggioranza degli italiani preferisce liberarsi di noi e continuare a sfruttare ed emarginare gli ultimi stranieri arrivati. Quando sbaglieranno finiranno anche loro in galera e poi dritti a casa loro, ma tanto le migrazioni sono inarrestabili, ne arriveranno altri al mio posto. Mi resta solo l’amarezza e un grande senso di ingiustizia.