Gentile Maurizio Costanzo, anch’io vorrei vedere almeno per una volta mia madre

In questi dodici anni di carcerazione ho perso mio padre senza riuscire a vederlo più, e ora resisto aggrappato alla speranza che mia madre resti in salute e in vita, per poterla vedere quando sarò libero

 

di Altin Demiri, novembre 2006

 

Una sera stavo guardando la trasmissione “Altrove”, condotta da Maurizio Costanzo, che parla della vita di alcuni detenuti nel carcere di Velletri, e c’è stato qualcosa che mi ha colpito davvero molto. Devo dire subito che in questa trasmissione si vede un carcere piuttosto diverso dalla realtà che io come detenuto da dodici anni conosco. Ma credo che, in gran parte, questo dipenda dai detenuti che partecipano alla trasmissione e non sempre riescono a mostrare la verità e a comunicare un’idea di spontaneità nei loro ragionamenti. Mentre non ho troppe critiche per il programma in sé, che è pur sempre una onesta idea per far conoscere il carcere al mondo esterno, che non sa che tipo di privazioni esso provoca.

Nella trasmissione di quella sera c’era un detenuto straniero di origine macedone che raccontava di non vedere sua madre da cinque anni. Allora il signor Costanzo gli ha promesso che gli avrebbe portato la madre in Italia per fargliela incontrare. A me fa molto piacere che questo detenuto realizzi il suo desiderio di abbracciare sua madre, ma la considerazione che ho fatto è che nelle carceri italiane ci sono 14 mila detenuti stranieri, e non tutti possono avere la fortuna di partecipare a una trasmissione e conoscere un personaggio così potente, che appena desidera qualcosa lui ha il potere di farla realizzare. Ma perché Costanzo non si è domandato come mai la madre di questo detenuto straniero non poteva venire ad incontralo? Certamente il problema principale non è economico, il vero dramma è che non c’è una legge che permetta a una madre o a un padre che hanno un figlio detenuto di avere un visto per venire in Italia ad incontrarlo in carcere. Sono curioso di sapere come farà Maurizio Costanzo a portare la madre di questo ragazzo in Italia, e però sono certo che dovrà aggirare il sistema dei visti d’ingresso, che non prevede come motivo d’entrata nel territorio italiano i colloqui con un parente detenuto.

Il 33 per cento della popolazione detenuta in Italia è costituita da stranieri, e nella maggior parte dei casi si tratta di persone che non hanno sul territorio familiari o parenti, e ciò significa che non ricevono un sostegno economico e non possono nemmeno coltivare il rapporto affettivo con i propri cari. È ovvio che queste persone soffrono la carcerazione doppiamente: da un lato si trovano a dover affrontare la vita in galera senza soldi per le spese quotidiane, o per pagarsi un buon avvocato, e dall’altro la famiglia e i parenti rimasti nel Paese d’origine dopo qualche anno di carcerazione diventano sempre più lontani, spesso dei veri estranei.

Una domanda che mi viene spesso in mente è: “Si sono mai chiesti i politici come fanno le famiglie dei detenuti stranieri per venire a incontrare i propri cari nelle carceri d’Italia?”. Ma evidentemente vent’anni di esperienza con gli immigrati non sono stati abbastanza per lo Stato italiano per accorgersi che gli stranieri condannati, oltre al problema che i musulmani non mangiano la carne di maiale, hanno anche altre esigenze. Prima di tutto quella di poter incontrare i propri famigliari.

Io sono albanese e l’ambasciata italiana in Albania non rilascia visti per incontrare un detenuto in Italia. Prima di entrare in carcere, tornavo regolarmente in Albania per incontrare i miei cari, ma adesso che sono detenuto da 12 anni queste assurde regole burocratiche non permettono a mia madre di venire ad incontrarmi. Per me, e tanti altri come me, la galera in buona sostanza significa solo afflizione fino in fondo, alla faccia della funzione rieducativa e dell’importanza che in teoria si dovrebbe dare al ruolo della famiglia e degli affetti nel percorso di reinserimento sociale.

Perché non creare allora un terreno più favorevole rendendo praticabile anche per noi la possibilità che un famigliare possa ottenere un visto per incontrare un figlio, un fratello, o una sorella che si trova in carcere? Questo non solo sarebbe un atto di civiltà e di giustizia, ma avrebbe anche l’effetto di alleggerire il peso della sofferenza legata alla pena, rendendola più costruttiva e consentendo agli stranieri che hanno sbagliato – ma che stanno anche pagando per il male fatto – di mantenere i rapporti affettivi con i propri cari nella stessa misura in cui possono farlo i cittadini italiani.

La legge in vigore, che disciplina gli ingressi degli extracomunitari nel territorio italiano, ha fino ad ora oscurato questo aspetto della vita degli stranieri che si trovano in Italia, e in questo modo da un lato ci hanno isolato nelle carceri, e dall’altro hanno punito i nostri famigliari togliendo loro la possibilità perlomeno di vederci. Esiste il diritto all’unità famigliare, che è sancito da diversi trattati internazionali firmati dall’Italia, e quindi è valido anche in questo Paese, ma ovviamente questo diritto continua ad essere violato tranquillamente. Se poi a tutto ciò si aggiunge quell’aspetto fondamentale che è costituito, oltre che dal contributo del contesto famigliare al processo di rieducazione del condannato, da quel principio importante che è la parità di trattamento che deve essere osservata nei confronti dei detenuti, ecco che la lista delle violazioni cresce.

Il danno causato da questa ingiustizia può anche essere considerato lieve nei casi di detenuti che hanno avuto una breve condanna, e questa separazione forzata dai propri affetti può riuscire a cicatrizzarsi in tempo. Ma per chi, come me, è stato condannato a molti anni di carcere, è orribile vivere nell’impotenza, perché non si può fare niente per vedere dal vivo e abbracciare la persona che si ama. Oltre a perdere la libertà, la gioventù, l’identità stiamo perdendo anche le uniche persone al mondo che ci vogliono bene. Sono dodici anni che sto vivendo questa bruttissima esperienza di essere privato di tutti quei sentimenti, di cui avrebbe bisogno ogni essere umano, e nelle mie condizioni ci sono altre migliaia di stranieri detenuti.

Mia madre adesso ha 62 anni, e ogni volta che le telefono mi dice che muore dal desiderio di vedermi, di abbracciarmi e di baciarmi. Certamente se i politici avessero fatto una legge che consentisse a mia madre di venire ad incontrarmi, tutta questa afflizione sarebbe venuta meno. Forse, non conoscendo la lingua o qualcuno disposto ad aiutarla, avrebbe trovato parecchie difficoltà per orientarsi e sistemarsi nei pressi del carcere, ma alla fine ci saremmo visti ed ogni sacrificio sarebbe stato appagato.

Tre anni fa, mentre ero in carcere, ho perso anche mio padre che non vedevo da anni e non gli ho nemmeno potuto dare l’ultimo saluto. Non so che aspetto aveva mio padre nei suoi ultimi anni di vita e questo mi riempie di rabbia, perché non ho potuto vederlo negli occhi e chiedergli scusa per quegli sbagli che mi hanno portato in carcere.

Ma oltre a questo rimorso sento anche una paura che mi stringe spesso nel cuore, poiché gli anni passano, e io resisto aggrappato alla speranza che mia madre resti in salute e in vita, per poterla vedere quando sarò libero, visto che da detenuto non se ne parla nemmeno di poterla incontrare. Oltre a mia madre in questi anni di carcere non ho visto o parlato nemmeno con i miei zii, cugini e parenti. Si sono spezzati tutti i legami esistenti, e il rischio è che quando finalmente mi rispediranno in Albania, non troverò più nessuno disposto a darmi il benvenuto, a dirmi una buona parola o darmi una mano per ricominciare una nuova vita. Perché non c’è nessun rapporto, anche il più stretto e profondo, che possa resistere ai troppi anni di isolamento che questo tipo di carcerazione impone, sradicando il detenuti dai suoi cari.

Allora spero che Maurizio Costanzo possa leggere queste righe e fare incontrare anche a me, per una volta, mia madre.