In carcere ho coltivato nel mio cuore un profondo amore per la libertà

L’emozione di un permesso premio

 

Gli spazi della Triennale di Milano, che ha dedicato di recente un mare di iniziative al carcere, assumono un significato totalmente nuovo ed emozionante se raccontati con gli occhi di un detenuto in permesso premio. Ci piace quindi tornare a parlare di una grande mostra, quella allestita di recente dalla Triennale con una ricostruzione minuziosa e spietata delle celle anguste e sovraffollate delle galere italiane, per vederla con gli occhi di un detenuto straniero, che vive le ansie e le emozioni di un permesso premio e misura i luoghi con il metro di un uomo, abituato da ben dodici anni a camminare solo nei pochi metri quadri di una vasca di cemento. Perché quelle che sono elegantemente chiamate “ore d’aria” altro non sono che ore nel cemento, gelido d’inverno e arroventato d’estate, ore davvero poco somiglianti all’aria  vera, libera, aperta.

 

 

Non sono più abituato ai luoghi aperti e liberi

Un permesso alla Triennale di Milano vissuto come una continua scoperta: l’impatto violento con spazi enormi dopo le ristrettezze della galera, il movimento frenetico di una grande città dopo l’immobilismo della detenzione, l’emozione di rivedere una “casa vera” dopo aver vissuto anni in una cella poco “umana”

 

di Altin Demiri, luglio 2006

 

Ho deciso oggi di scrivere perché voglio raccontare il mio terzo permesso premio, che non assomiglia per niente ai primi due. Sono stato dodici anni senza mettere piede fuori dal carcere, e il primo permesso che ho fatto è stato caratterizzato da un mio totale disagio nel maneggiare i soldi. Avevo in tasca una banconota da 10 euro e un’altra da 20 e continuavo a tirar fuori e a guardare questi due pezzi di carta colorati per memorizzarne colore, valore, immagini riprodotte.  I soldi in carcere non li vedi mai, vedi soltanto il conto corrente dove ti vengono caricate e scaricate delle somme “virtuali”. Quindi, dato che io sono stato arrestato nel 1994, nei miei ricordi erano rimaste le lire. La situazione più difficile è stata quando sono entrato per la prima volta in un bar per prendere un caffè. Mentre pagavo alla cassa la cassiera mi ha dato il resto in tante monete che io non conoscevo. Non mi sono messo a contare non per fiducia, ma per il semplice motivo che non volevo passare per uno che veniva da un altro pianeta.

Il mio ultimo permesso, quello che voglio raccontare più dettagliatamente, l’ho trascorso insieme a degli operatori volontari, e riconoscere i soldi non era più un problema per me. Io e Graziano, un altro compagno detenuto, siamo usciti dal carcere alle sette del mattino. Fuori dal carcere ci aspettava la responsabile della redazione di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero, che era incaricata della nostra “custodia” (accompagnamento, direbbe lei). Siamo saliti in macchina e dopo un po’ siamo entrati in autostrada. Il cuore ha cominciato a battermi a mille. Non so se ero più spaventato oppure più eccitato. L’effetto dell’adrenalina mi ha fatto pensare alla mia cella, al solito corridoio del carcere che mi porta nel piccolo cortile di cemento dove ho camminato con molta calma, avanti e indietro, per dodici anni. Non riuscivo neppure ad ammirare il panorama dalla nostra macchina volante perché la mia vista si fermava sulle auto che ci superavano o sui tanti camion che ci facevano compagnia. Quel permesso si stava rivelando molto emozionante, e poi c’era qualcosa di più, non stavamo a Padova ma continuavamo ad allontanarci sempre più dal carcere.

Quando siamo arrivati a Milano, ho cominciato a vedere, sempre più frastornato, migliaia di persone che si muovevano frenetiche in questa grande città. Noi con un po’ di difficoltà per l’enorme traffico siamo giunti a destinazione. La nostra meta era la Triennale di Milano, una struttura grande, ariosa, a due piani. Era piena di gente ed era bellissima, ma quello spazio enorme mi ha fatto subito venire la nausea. Ho dovuto smettere di alzare la testa, non ero più abituato a spazi così aperti, così liberi.

Il nostro programma era di visitare le mostre, che la Triennale ha dedicato per ben un mese al carcere, ricostruendo alcune celle per coinvolgere di più il pubblico su problemi come il sovraffollamento, e poi di partecipare al convegno dedicato all’informazione e organizzato anche dalla Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere, di cui facciamo parte con il nostro giornale. Siamo andati subito nella sala dove si svolgeva l’incontro, io attaccato agli altri perché da Ornella non mi dovevo allontanare, e per ogni cosa dovevo essere accompagnato sempre da lei. Queste sono disposizioni normali per noi detenuti da rispettare, vengono messe nel programma del nostro permesso premio per “scoraggiare” una evasione.

La questione “evasione” è sempre un punto dolente quando si parla di stranieri, perché a volte qualcuno scappa, e questo ha fatto sì che anch’io aspettassi molto a lungo prima di conquistare la fiducia del giudice e ottenere il primo permesso. Qui in Italia se uno straniero scappa da un permesso, le ripercussioni colpiscono in modo particolare gli altri stranieri per i quali diventa tutto ancora più difficile. Lo stesso meccanismo si crea nei confronti dei detenuti in generale quando un detenuto che beneficia di qualche misura alternativa al carcere commette un reato. Allora tutto si blocca, tutto peggiora, e spesso non si concedono più misure per un po’. Ma nessuno pensa mai alle migliaia di persone che grazie ai permessi e alle misure alternative hanno potuto cambiare, e cercare di costruirsi una vita onesta.

Tornando al convegno, ho incontrato altri compagni detenuti che si trovano in misura alternativa, e che avevano chiesto un permesso per venire lì. Eravamo tutti mischiati tra la gente, e anch’io per un momento mi sono sentito libero, una persona libera. Ma per sentirmi veramente libero avevo bisogno di muovermi da quella sedia. Di fronte a noi si trovava anche Ornella, seduta al tavolo dei relatori per rappresentare il nostro giornale, e io ogni tanto le facevo segno da lontano che andavo in bagno. Lei con la testa mi dava l’OK e io per andare e tornare dal bagno facevo un giro lunghissimo e con dei passi lentissimi, come in una moviola di Biscardi. Ero curioso di esplorare tutto quel posto pieno di gente e di belle mostre, ma sapevo benissimo che Ornella era nervosa, per cui cercavo di non esagerare con le mie pause. Leggevo la sua ansia quando mi vedeva che rientravo in sala e i suoi occhi si illuminavano, tradendo un certo sollievo che la rilassava.

 

Appena metto i piedi fuori dal carcere “evaporo”

 

Anche se io ho dato la mia parola d’onore che la mia intenzione non è quella di evadere, e quindi di scappare per il resto della mia vita, capisco la paura di chi ci accompagna perché so che forse altri avranno dato la loro parola e che poi non l’hanno mantenuta. Ma con questo non voglio dire che mi metto io a giudicare e a condannare chi scappa. Sono ben conscio che la ragione per cui qualche straniero evade da un permesso premio è la totale assenza di prospettive che il sistema carcerario oggi gli riserva. La certezza di essere espulsi a fine pena porta tanti stranieri a fare un elementare ragionamento, che “tanto sto anticipando l’espulsione, scappo e ritorno al mio paese perché ho davanti solo un futuro di galera”. È un ragionamento che si fa spesso senza riflettere sulle conseguenze, e sul fatto che così si rischia solo di rimanere un ricercato per il resto della vita.

Tanti non conoscono le leggi dell’Italia e del proprio Paese e ignorano che con i moderni sistemi elettronici, che sono stati studiati per contrastare il crimine, oggi un ricercato, almeno qui in Europa, ha i giorni contati. Anch’io durante quest’ultimo permesso mi sono trovato in molte occasioni a dover combattere con il mio istinto animale, che è quello di prendere e correre, scappare verso la libertà, ma poi penso: quale libertà, se poi dovrò nascondermi per tutta la vita? Tanti anni fa, quando facevo galera e basta, pensavo: appena metto i piedi fuori “evaporo”. Ma poi ho cominciato a studiare, a frequentare corsi e in fine a lavorare presso la redazione di Ristretti Orizzonti, dove i volontari si siedono intorno a un tavolo con noi e insieme discutiamo, ci confrontiamo, litighiamo. E devo dire che così sono cambiato. Queste discussioni mi hanno spinto a cercare di informarmi, leggendo giornali albanesi e italiani, a conoscere le leggi della vita “regolare,” e ora ho la presunzione di dire che sono veramente cresciuto, e ho capito che esistono altri modelli di vita oltre a quello del crimine, e che si può essere felici, o per lo meno stare in pace con se stessi e con il mondo, facendo una vita da “regolare”.

Tante persone libere non ci pensano, che un giorno potrà capitare anche a loro di commettere un atto di follia ed essere incarcerate e, come me, dopo anni di pena dovranno ricominciare da capo, prima con i permessi, poi qualche lavoretto in regime di semilibertà per continuare con tutte quelle misure che ti accompagnano fino alla riconquista della totale libertà. Io questa volta ho deciso che non voglio più ritrovarmi nelle condizioni in cui sono ora e, se riuscirò a farmi una famiglia, avere dei figli, un lavoro, me li vorrò tenere stretti. Ed è per questi motivi che ho preso la mia decisione di uscire dal carcere senza debiti con la giustizia italiana, voglio essere finalmente libero nel vero senso della parola. Non voglio essere più la preda del braccio della legge, che aspetta di vederti finire nella rete per tendere la sua pesante corda. Non voglio guardarmi per sempre alle spalle, braccato dalla polizia. I tanti anni di galera hanno modellato in me questa consapevolezza: ho coltivato nel mio cuore un profondo amore per la libertà, ed è quest’amore che mi ha accompagnato durante il permesso proteggendomi da ogni tentazione di evasione.

 

Volevo solo esplorare con gli occhi Milano e le belle ragazze

 

Quando poi c’è stata la pausa pranzo, siamo usciti in gruppo dalla gigantesca struttura della Triennale e ci siamo incamminati sotto gli alti palazzi per raggiungere il posto dove abbiamo mangiato. Io non pensavo al mangiare, volevo solo camminare ed esplorare con gli occhi Milano e le belle ragazze, le macchine e le persone “normali” che si affrettavano ad andare in tutte le direzioni. Camminando in silenzio riflettevo tra me e me, avevo rabbia con me stesso per tutto ciò che ho perso in questi anni di galera.

Mi sono accorto di non aver perso solo gli affetti, ma tutto ciò che fa parte del desiderio di essere felice di un uomo, cose che sembrano non avere grande importanza, e si rischia così di perderle, senza neanche accorgersene, ogni volta che si decide di infrangere le regole. Ti rendi conto così che il mondo, la società sono andati avanti e che hanno fatto a meno di te. Che rabbia.

Ma nello stesso tempo ero felice di aver cominciato a “rilanciarmi” in questo mondo libero. Però c’è sempre in me una gran paura che mi stringe spesso nel cuore, poiché gli anni passano e io continuo a navigare tra carcere e libertà, anche se mi sentirei maturo per stare fuori e vivere nella legalità come fa la gente comune. Resisto così aggrappato a ogni più piccola speranza di ottenere la libertà totale, magari con un decreto che mi conceda quella Grazia, che ho inutilmente chiesto diverse volte.

Dopo che abbiamo pranzato siamo tornati alla riunione. Io non solo ero curioso di rifarmi gli occhi con i mille colori e forme che in carcere ti mancano, ma ero anche molto attento e concentrato sulla discussione e sulle proposte che riguardavano la voglia che abbiamo tutti noi che stiamo in carcere di informare chi sta fuori in modo più preciso ed efficace sulla realtà della detenzione e sulle battaglie che facciamo per avere diritto a un po’ di futuro. Anche il ritorno a Padova è stato bello per me, una nuova emozione. Niente più paure e ansie. Avvolti nel buio della notte, in mente mi tornavano i ricordi dei miei viaggi, lontani nel tempo.

Una volta tornati a Padova siamo andati a casa della nostra responsabile, Ornella, che ci ha preparato una squisita cena: ho vissuto per anni in una cella squallida sovraffollata, e ritrovarmi in una vera casa, sedermi intorno ad un tavolo vero, è stata un’altra circostanza che mi ha emozionato tantissimo. Ho chiesto il permesso di esplorare la casa, e gentilmente mi è stato concesso. All’inizio parlavo piano a tal punto che gli altri facevano fatica a sentirmi, ma, essendo già sera, il mio istinto mi portava ad abbassare la voce per un’abitudine presa in carcere, dove le celle sono attaccate, in fila, e se alzi la voce puoi disturbare quello che dorme, quello che legge o quell’altro che prega.

Ho cominciato ad aggirarmi per la casa liberamente. Aprivo le porte di ogni stanza da solo, sentivo la mancanza del piacere di stare in una vera casa da ben dodici anni. In questa giornata, anche se alla fine sapevo di dover tornare in carcere a fare la vita da detenuto, ho vissuto emozioni dimenticate e ho riflettuto anche sul ruolo che hanno per noi i volontari. Vedo in loro uno spiraglio di sincerità, un desiderio vero di darmi una mano per il mio futuro. Ho avuto da loro una lezione di coerenza, passione e lealtà che questi volontari hanno, ho capito che credono realmente in quello che fanno, cioè dare opportunità e fiducia al prossimo, senza nessun pregiudizio né senso di superiorità.

E poi voglio aggiungere una cosa: dal momento che si sono fidati di me e mi hanno anche fatto mangiare a casa loro come un loro simile, la mia lealtà verso di loro sarà ancora più sincera. Per molti fuori di qui quello di invitare qualcuno a casa può essere un comportamento scontato, ma per me, come detenuto straniero, è una cosa molto più grande di una semplice cena. Spero che i volontari non si stanchino di fronte alle delusioni che qualche singolo detenuto causa loro, ma continuino nel loro impegno con convinzione, perché regalare delle belle giornate a noi detenuti significa anche farci riflettere e spesso cambiare idea e modo di vedere la vita e il mondo libero.

Ho lasciato la casa di Ornella con rammarico, guardando l’orologio e dannandolo perché le sue lancette erano state così veloci e avevano raggiunto subito il triste momento del ritorno in carcere. Avrei voluto che quella giornata non finisse mai, ma le mie preghiere non hanno potuto convincere il tempo a fermarsi.