Se uccidi non puoi essere più lo stesso anche nel chiuso della tua coscienza

 

di Altin Demiri, giugno 2006

 

È raro che uno si cacci in guai seri tutto d’un tratto. In genere nei guai ci si finisce alzando ogni giorno un po’ di più il livello della propria sfida alle norme di comportamento della vita “regolare”. Le prime volte va quasi sempre tutto bene e allora subentra una specie di febbre incosciente che ti spinge a osare sempre un poco di più.

Il grave reato che mi ha portato in prigione, l’omicidio, non è il prodotto fatale di quel clima, e lo dimostra il fatto che la maggior parte dei miei amici di allora non sono diventati assassini. Ma di quel clima è comunque figlio, perché io non avrei mai ucciso se la parte razionale della mia personalità non fosse stata oscurata da quel progressivo, ubriacante distacco dalla vita “regolare”.

Un uomo che uccide non può essere più lo stesso agli occhi degli altri, ma non può esserlo più anche nel chiuso della propria coscienza. È una consapevolezza che mi pesa ogni giorno addosso, e di cui so che non mi libererò neppure quando tornerò libero fra i liberi. Ma proprio perché sono consapevole della gravità del mio delitto, credo di poter dire che un reato di sangue avviene quasi sempre senza che ci sia una premeditata intenzione in chi lo commette. Nel mio caso è stato senz’altro così (una rissa, nata per futili motivi; un crescendo confuso di tensione, il sangue alla testa, un gesto irrimediabile, che mai avrei commesso dieci minuti prima o dieci minuti dopo), ma lo è anche nella maggior parte dei casi di cui sono venuto a conoscenza, parlando nei miei dodici anni di galera con persone che si sono macchiate di analoghi delitti.

Questa considerazione non toglie gravità alle nostre azioni, ma le rende più “umane” di come in genere vengano astrattamente giudicate. Il più delle volte Caino non è poi tanto diverso da Abele: è animato dalla stessa sensibilità e si riconosce negli stessi valori, nonostante un devastante offuscamento di quella sensibilità lo abbia portato, un giorno, a calpestare quei valori nel modo più atroce. Giusto che paghi; ma giusto, anche, riconoscergli comunque di essere un uomo.

Quando in carcere di recente ho incontrato gli studenti di molte scuole, sono convinto di avere fatto una cosa buona a parlare del mio reato, anche se mi è costato, perché non è affatto facile dire “io sono un assassino” davanti a una platea di facce che hanno gli occhi puntati su di te. Sono sicuro però che la mia sincerità ha lasciato qualcosa dentro a chi ha voluto capire. Ai ragazzi, giovani come ero io quando ho commesso il mio reato, non me la sento di dare consigli. Un invito, però, lo voglio rivolgere. Ed è l’invito a godersi fino in fondo, ora per ora, la libertà, perché vi assicuro che nessuno come chi l’ha persa è in grado di apprezzare il suo valore. E non dimenticare, però, che non esiste libertà senza responsabilità. Io l’ho capito troppo tardi, e ora ne pago le conseguenze.