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Il carcere, gli affetti che vanno, quelli che restano
Ma come è facile dimenticare quanto vuoto abbiamo lasciato fuori e quanta sofferenza ha determinato il nostro arresto!
Di Alessandro Pinti, marzo 2001
In carcere rimangono solidi, ed anzi in qualche caso si rafforzano, i rapporti famigliari, mentre è molto facile perdere una parte importante della propria vita affettiva e di relazione. Che cosa succede allora con la propria compagna, con la quale prima dell’arresto ci si giurava amore eterno? E’ un discorso delicato, che scava nel profondo dell’essere umano, e può essere anche complicato affrontarlo, considerato che sostanzialmente si è portati a ritenere che certi argomenti dovrebbero rimanere nella sfera strettamente intima e personale. Non tanto per una questione di privacy, ma ritengo piuttosto per una sorta di vergogna, forse molto maschilista ed ipocrita, che interpreta la rottura di una relazione come un segno di sconfitta. E qui ci inoltriamo nel ginepraio di un discorso, come dire, scottante. Per non suscitare reazioni di rifiuto in chi si sente al centro di questo delicato problema e si porta dietro un vissuto pesantemente negativo, preferisco raccontare solo la mia storia, e tutto ciò che ha rappresentato sotto il profilo umano e psicologico la "perdita" di quella che pensavo fosse la compagna con cui condividere la vita. Si è spesso molto opportunisti quando si finisce in carcere, e si vorrebbe che tutti fossero a nostra disposizione, e non solo dal punto di vista affettivo, ma anche da quello più strettamente pratico, che prevede spesso l’imposizione, a chi ci stava vicino, di comportamenti ritenuti "doverosi" nei nostri confronti, spesso dimenticando quanto vuoto abbiamo lasciato fuori e quanta sofferenza ha determinato il nostro arresto. Il mio è il punto di vista di chi si ritrova con più di trent’anni sulle spalle da scontare, e quindi il ragionamento che mi accingo ad affrontare è particolarmente profondo nelle sue implicazioni esistenziali ed umane. Superata la prima fase dell’arresto, con un istintivo e totale coinvolgimento emozionale dei propri affetti, si passa a quella di una riflessione più razionale delle ragioni che hanno determinato tale condizione. Per molti di noi, la propria compagna non sapeva assolutamente nulla di cosa andavamo a combinare in giro. Così almeno è stato per quanto mi riguarda. Conducevo una vita semplice, senza eccessi e comportamenti "sopra le righe", in una situazione ambientale di assoluta normalità. Praticamente mi ero costruito un contesto relazionale fondato sulla menzogna. Non poteva essere altrimenti. Erano invece sinceri i miei sentimenti e quel desiderio di una vita possibile che giornalmente cercavo di costruirmi insieme a persone che adoravo, ma che ho tradito, costringendole, successivamente al mio arresto, a dover riflettere, e soffrire, sulla natura del nostro rapporto. Devo ammetterlo: probabilmente è la prima volta che mi sono sentito davvero un delinquente! Ho giocato in una sorta di rischiatutto, di un "o la va o la spacca", e in questo gioco ho perso, perdendo l’unica persona che ritenevo amica di una vita. Si è creato un vuoto incolmabile, e la resistenza, da parte mia, a impedire la naturale evoluzione delle cose, cioè l’inevitabile perdita di quelle ragioni del cuore che tenevano legate due persone, appare come l’ultimo misfatto che si aggiunge al tanto male commesso. Il fatto è che in carcere succede anche di diventare arroganti, incapaci di comprensione, assolutamente fuori dal mondo. E capita pure che chi si trova nella dolorosa situazione di avere dei figli, una moglie, e li perde, non riesca a farsi una ragione della separazione, vivendo così nel rancore e nel disprezzo. Anche se su queste questioni non si può generalizzare ovviamente, e infatti io stesso posso testimoniare di rapporti solidissimi anche dopo tanti anni di carcere, ma sono delle eccezioni, la realtà è molto meno clemente.
Quei famigliari, vittime più di noi delle nostre scelte Il rapporto che il carcere impone con i famigliari, e più in generale con i propri affetti, è difficile da descrivere, nel senso che ci espone emotivamente su argomenti che provocano sofferenze ed eccessivi coinvolgimenti personali. E’ bene però, dal mio punto di vista, cercare di dare un contributo che possa essere il più sereno possibile. L’affettività, quel bisogno irrinunciabile dell’uomo in tutte le sue espressioni, viene soppressa dal carcere, con risvolti a volte drammatici. Spesso si incrinano convivenze di anni, proprio perché la totale mancanza di manifestazioni affettive scava nel profondo, pone interrogativi esistenziali, e fa emergere con violenza quel diritto di vivere e quei bisogni che il carcere inesorabilmente impedisce. Qualche tempo fa sembrava che un primo passo la politica l’avesse fatto, nella direzione di iniziare un discorso intelligente su questo tema. Mi riferisco alla proposta inserita nel nuovo regolamento penitenziario in materia di "affettività in carcere", che però è stata bocciata poi dal Consiglio di Stato. Questo ovviamente è un aspetto del problema. C’è poi tutto ciò che riguarda il rapporto più complesso con i famigliari, vittime più di noi delle nostre scelte e soggetti a sofferenze che sfuggono alla normale comprensione. Un disagio che a volte non viene tenuto in debito conto, e la condizione di chi si trova in carcere viene spesso messa troppo al centro dell’attenzione, dimenticando che l’essere detenuto ha implicazioni molto più generali, che riguardano tutte le persone che costituiscono la vita affettiva di chi è incarcerato. E queste persone a volte vivono vere e proprie "subalternità" affettive, che hanno risvolti vergognosi laddove qualcuno usa la sua condizione di detenuto in termini di sfruttamento vero e proprio della famiglia. E la famiglia ne paga le conseguenze maggiori. Capita così di vedere detenuti con atteggiamenti fortemente possessivi, che impongono ai famigliari comportamenti "standard" a salvaguardia delle forme (la moglie che deve mostrarsi sempre assidua e comprensiva ai colloqui, o che deve affrontare da sola i problemi della famiglia, per non causare eccessiva tensione nel marito detenuto), giustificati da quella falsa morale che ha profonde radici nella sottocultura di cui continuano a nutrirsi tante persone che stanno in carcere, anche se non la maggior parte, naturalmente. La realtà del carcere è quella di un mondo duro e complesso, e indagare la natura di alcune sue contraddizioni risulta veramente difficile. Bisognerebbe fare un grande passo in avanti, un salto di qualità nell’individuazione autocritica di tutte le ragioni che spesso determinano rotture drammatiche nei rapporti affettivi e con la famiglia, e credo che il carcere in quanto tale sia l’aspetto meno influente di queste rotture: la causa principale è la nostra incapacità di analisi e la totale mancanza di consapevolezza, di misura. Infine penso che questo mio ragionamento si pone due obiettivi principali: il primo è quello di tentare di analizzare una condizione che personalmente mi coinvolge e che necessita di una più accurata indagine, per scoprire tutti gli aspetti di un disagio e di una sofferenza rimossa e che si tende a sottovalutare, l’altro obiettivo è di dare un contributo al dibattito partendo proprio dal mio vissuto, affinché una maggior consapevolezza possa aiutarci a ristabilire un sereno rapporto con i nostri cari.
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