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L’esperienza di un detenuto che ha già vissuto il peggio dei circuiti
Di Alessandro Pinti, agosto 2000
Si torna a parlare con insistenza di circuiti differenziati all’interno delle carceri, con meccanismi di passaggio da un circuito all’altro basati probabilmente sulla pena residua concretamente da scontare e sui risultati ottenuti nei programmi trattamentali. E se ne parla forse con troppo entusiasmo. Non per pensare male, è che l’esperienza di chi ha vissuto come me tutte le "emergenze carceri" costringe ad una valutazione meno entusiastica e frettolosa. Nel 1977, nelle carceri speciali, quelle a "massima sicurezza", che potremmo definire il primo livello prospettato da Caselli, finirono sì detenuti pericolosi, ma sistematicamente anche detenuti che per punizione venivano costretti a un regime di vita assolutamente non adeguato alle loro caratteristiche, e altri che ci finivano automaticamente solo per il titolo del reato, e ancora tanti che furono indirizzati negli "speciali" dalle indicazioni sulla pericolosità formulate dai giudici inquirenti. In tale contesto esplose una forte conflittualità, derivante essenzialmente dalla tipologia dei detenuti concentrati. Altra passata esperienza, nel 1992, in piena emergenza mafia, l’applicazione del 41bis (sospensione dei diritti e condizioni di vita estremamente disagevoli) fu generalizzata, e i criteri di applicazione risultarono spesso non rispondenti alle finalità della legge, ma funzionali a ben altri e sperimentati obiettivi meno nobili. Anche in questo circuito di detenuti pericolosi molti subirono abusi e discriminazioni di ogni sorta. Fui rinchiuso all’Asinara, insieme a tanti altri che nulla c’entravano con il terrorismo mafioso, e alcuni di questi compagni da anni usufruivano di permessi premio e di pene alternative al carcere. Avevano ricostruito relazioni, rapporti famigliari, e c’era anche chi aveva avuto dei figli. Per alcuni tutto fu annullato per il semplice fatto che avevano reati di vent’anni prima legati al fenomeno mafioso, altri subirono tale emergenza per motivazioni spesso inesistenti e comunque non collegate all’emergenza in corso. Il rischio è proprio questo, cioè che i livelli verrebbero usati per finalità non trattamentali ma di contenimento ricattatorio nei confronti dei detenuti sino alla perdita di ogni solidarietà e coscienza personale, e il passaggio da un livello all’altro verrebbe usato invece per creare un filtro che snaturerebbe ogni decente percorso reinseritivo. Sì, perché solo chi ha vissuto l’esperienza della cosiddetta "declassificazione" sa quante difficoltà deve affrontare, e quali prezzi bisogna pagare per ottenerla.
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