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Alcol e psicofarmaci...
Di Abdul, dicembre 2003
La diffusione dell’alcool fra gli immigrati è incredibilmente più alta di quanto si pensi. Ricordo quando ero in libertà e mi incontravo con i miei connazionali: tra loro erano in molti a far uso di alcol in ogni occasione per divertirsi e creare un’atmosfera più allegra, anche se l’alcol per la nostra religione è totalmente vietato, e questa è una regola della vita quotidiana e sociale stabilita per conservare saldi i rapporti tra le persone e i legami tra i membri di una famiglia. Ci sono però tante persone che hanno violato questo patto religioso e culturale per motivi diversi, ed io ho raccolto su questo problema la storia di Said, un cittadino marocchino, detenuto nel carcere Due Palazzi. "In Marocco non ho mai neppure provato il sapore dell’alcol e non avrei mai pensato che un giorno sarei diventato un alcolista. In Italia ho affrontato tanti problemi per sopravvivere: come clandestino non potevo trovare un lavoro, e a quel punto l’unica via d’uscita era scendere in piazza per spacciare, ma non ne avevo il coraggio. Ricordo quello che mi disse allora Zakaria, uno di miei amici, che aveva capito il mio problema: "Guarda Said, la vita in Italia non è facile come pensavi, anch’io ho scelto di emigrare contro la volontà dei miei genitori, ho lasciato lo studio senza sapere che cosa mi aspettava al di là della frontiera, e non posso tornare indietro, sarebbe una sconfitta troppo pesante. Allora faccio finta che questa mia scelta sia quella giusta. Beviti anche tu qualche bicchiere, ti farà bene e ti darà coraggio per fare quello che ti sembra giusto fare". Così inizia la mia storia con il diavolo dell’alcol. Ha sostituito le mie debolezze, giorno dopo giorno bicchiere dopo bicchiere bevevo per cacciare via la paura, e qualche volta perdevo il controllo di quello che stavo facendo. Una mattina mi sono ritrovato nella caserma dei carabinieri con l’accusa di spaccio di stupefacenti. E così sono finito in carcere. In cella ho avuto tutto il tempo per ragionare sulla mia scelta, ho capito che l’alcol mi ha mostrato solo debolezza e mi ha aperto una strada senza ritorno. Anche in carcere bevevo troppo, ma non per divertimento, volevo solo evitare di pensare ai motivi per cui ero dentro e alla mia scelta di emigrare e non tener conto dei i consigli dei miei genitori. Bevevo finché l’alcol si impadroniva di me mostrandomi solo le cose cattive, mi sentivo come se stessi dialogando con un’altra persona. A causa dei suoi effetti, che mi spingevano a commettere sbagli e a obbedire ciecamente al suo "comandamento", ho perso la fiducia degli altri nei miei confronti, e anche la possibilità di vivere normali rapporti di amicizia. Sono consapevole che l’alcol può causare gravi problemi alla salute, ma soprattutto che il suo abuso provoca conseguenze che possono essere devastanti, in quanto non ti lascia distinguere tra il buono e il cattivo. Nel mio caso mi metteva tutte le cose sullo stesso livello, mi ha causato anche la perdita dei giorni della liberazione anticipata. Tante volte mi sono svegliato in isolamento senza sapere che cosa avevo fatto. Sapevo tutto dopo, tramite i miei compagni di sezione. Il grande problema era quando mischiavo alcol e psicofarmaci, che mi davano in quantità, così creavo un cocktail particolare, ero io che decidevo quante gocce volevo senza che il medico mi facesse problemi, senza sapere quali erano gli effetti sulla salute, senza avere la minima informazione in proposito. In carcere mi trovo in una cella di 4 metri per 3 a forma di cubo, un letto e poco più e il cibo che a volte è immangiabile. In più ho i miei problemi personali, la difficoltà di dialogo con gli operatori dell’istituto. Ho partecipato ai gruppi organizzati, ma non trovavo nemmeno lì senso: ci riunivamo in una specie di aula a parlare di argomenti e problemi altrui, senza un intervento convincente, positivo. Alla fine mi sono convinto che l’unico modo per trovare una via d’uscita dipendeva solo da me stesso, senza aspettare l’ aiuto di nessuno. Ognuno di noi alcolisti deve trovare una via di mezzo per uscire dalla devastazione, ho la voglia di ritornare alla mia vita che aveva un senso, senza nessuna paura di quello che mi riserva il futuro, ho scelto di ricominciare a vivere e di trovare la normalità, cerco di fare di tutto per recuperare la mia dignità, non ho mai perso la fiducia in me stesso. Questa esperienza fa parte della mia vita e penso sarà utile per il mio futuro, l’esperienza per me è una cosa buona che non muore mai". Sono 17 anni che sono in Italia, dei quali quasi cinque passati in carcere. Da testimonianze come quella di Said ho capito la sofferenza e le difficoltà degli alcolisti che si trovano dietro le sbarre, ho visto anche che non c’è una grande differenza tra gli alcolisti immigrati in libertà e in carcere. In libertà è difficile, perché sei clandestino e non ti puoi rivolgere a nessuno per chiedere un aiuto, in carcere i problemi stanno nella difficoltà di dialogo con le persone, e nella solitudine. Questa testimonianza mi ha fatto capire che sono tanti gli alcolisti stranieri che cercano alla fine di trovare una via di uscita per recuperare quello che resta della loro vita: rapporti famigliari interrotti, amici, salute. Sono certamente consapevoli che l’alcol è la rovina della loro esistenza. Ci sono ragazzi immigrati che con l’alcol sono diventati schiavi, hanno perso i loro valori fondamentali, l’idea della dignità umana, della patria, e hanno trovato solo la rottura dei legami famigliari, il distacco dalla loro religione e dalla cultura del loro paese di origine, la totale incertezza del futuro.
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