Un carcere che vive. Un’insolita visita

Un incontro tra fuori e dentro, tra vittima e reo

 

di Walter Madau, casa circondariale di San Vittore

 

Sono detenuto per rapina ed è un anno che sono ospite nel reparto chiamato “la Nave”. Qui ho modo di portare avanti diverse attività, frequentare numerosi gruppi, dove le persone magicamente si propongono in maniera sincera e leale. Sto decisamente meglio e non solo perché non sono chiuso 22 ore su 24. Ho come la strana sensazione d’aver fatto pace con me stesso; mi sembra quasi di vivere in un’altro mondo, o meglio di vedere il mondo in altra maniera. Prima pensavo d’essere diverso; invincibile, straordinariamente lontano da tutte quelle imperfezioni quasi simpatiche che caratterizzano ognuno di noi. Pensavo di essere altra cosa. Adesso il solo pensiero mi fa sorridere in sofferenza; quanto tempo buttato via! Quante occasioni perse! Quanta serenità a portata di mano svanita! Stare insieme, incontrarci mi ha riempito saziandomi; ho come la piacevole sensazione di calzare perfettamente un paio di scarpe comode. Mi sento vivo nel mio piccolo e modesto modo di vivere; importante perché faccio parte di una grande cosa fatta di tante piccolissime idee, azioni e parole. Piccole, perché l’uomo è piccolo in una vita estremamente breve, dove in tempo reale è il piccolo, che al massimo un uomo può fare. Io ero il rapinatore che ha ucciso il suo amato marito. Papa di due figli; vedevo una mamma in lei; guardavo una sorella nella figlia; mi sentivo il fratello! Ultimamente mi è stata data la possibilità di partecipare all’incontro “La trasgressione”, fuori reparto, sempre in compagnia di studenti universitari e detenuti della sezione penale, con la supervisione del professor Angelo Aparo. Una delle ultime tematiche affrontate è stata quella fra rapinatori e rapinati e tale in occasione ho avuto modo di conoscere la signora Bartocci in compagnia della figlia. Questa graziosa signora è rimasta vedova per colpa d’una rapina, e mai riuscirò a dimenticare il suo viso, il suo modo di parlare pacato a noi detenuti, “artefici della sua sofferenza”. Non ho parole per esprimere il mio dolore e il solo pensiero di avvicinarmi alla sua sofferenza è pura, indegna, assurdità. Nonostante tutto sento il bisogno di scrivere quello che in verità quel pomeriggio sentivo. Inizialmente non capivo il perché di tanta sofferenza appositamente cercata con quell’incontro; ormai il danno è stato fatto! Irrecuperabile la vita di quell’uomo! Perché aprire nuovamente una ferita così dolorosa? Perché io rapinatore stavo lì fermo, pietrificato davanti a tanta sofferenza, a mia volta soffrendo? I conti non mi tornavano, come quando ero solo in quella camera d’albergo, prima dell’azione in gioielleria. Avrei voluto non fare mai quella rapina! Avrei voluto non farlo e non solo per lei! Avrei voluto non farla per non indossare quella veste così piena di contraddizioni. Sto bene perché ho il bottino; sto male perché ho tolto la vita ad un uomo simile a me; gioisco perché mi compro un Honda CBR 900 nuova, ma soffro perché vedo mia sorella piangere straziata; piango perché è morto un padre in tempo di pace. La forza e il coraggio di quella donna provata, nel resistere ed essere utilizzata come strumento, è stato straordinario, onorevole. Nonostante tutto, egoisticamente, sento il bisogno di dire che pur non essendo stato piacevole incontrarla è stato proficuo e vantaggioso; stare insieme a lei, di fronte al suo sguardo mi ha catapultato in maniera prepotente in chi sono io; simile a tutti codardi e coraggiosi; onesti e ladri, egoisti e altruisti; lavativi e campioni, faine e leoni. Quella sera, arrivato in cella, non ho voluto raccontare nulla ai miei compagni, ma sono certo che ne beneficeranno anche loro di quel tesoro trovato e pagato a caro prezzo ovunque. Quelle brevissime 3 ore rimarranno sempre in me; svilupperanno nuove occasioni, nuovi atteggiamenti, certamente un nuovo stile.