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"Se questo è un uomo"
Cronaca di un giorno di ordinaria follia in un ordinario carcere sovraffollato. La testimonianza è tratta dal bollettino n. 2 (dicembre 2001) dell’Osservatorio Calamandrana sul carcere di San Vittore
Di Ivano Longo, dicembre 2001
Un anno e mezzo fa circa, su un quotidiano nazionale viene pubblicata l’intervista fatta ad un agente della polizia penitenziaria, riguardante massicci arresti effettuati nei confronti dei suoi colleghi dentro il penitenziario sardo della città di Sassari, (causa, un’accusa di tremendi pestaggi ai danni dei reclusi). In quell’intervista, in difesa dei suoi colleghi, l’agente, tra l’altro, dichiarava: "…Vorrei che i muri delle carceri fossero trasparenti, così tutti vedrebbero in quali condizioni siamo costretti a lavorare…!". Una frase, questa dell’agente, niente male. E come potrebbero essere diversamente interpretate le parole di uno che chiede la trasparenza del suo fare? Insomma, prima di giudicare gli effetti cerchiamo di esaminare le cause che li hanno determinati. Niente male, come si diceva prima, seppure questa frase suona molto parziale, ovvero, partigiana. In poche parole, se i muri delle carceri fossero trasparenti, quale spettacolo si offrirebbe ad un eventuale ben intenzionato spettatore? Uno spettacolo "insolito" senza dubbio! La prima cosa che noterebbe sarebbe la lentezza con la quale procede l’esistenza lì dentro. Subito dopo si renderebbe conto che la matematica è un’opinione, vista la precisione con cui sono state incastonate le masse di esseri umani, nei piccolissimi spazi disponibili: sei uomini "blindati" nello spazio che, a mala pena, soddisferebbe i bisogni di uno (sic!)… e poi, via così, la stanza dopo la stanza, il piano dopo il piano, il raggio dopo il raggio. Comunque non sarebbe giusto affermare che in quegli stanzini, cosiddette celle, uno trascorre le intere ventiquattro ore che Iddio gli manda; ci sono anche gli spazi riservati ai passeggi, uno, suddiviso in quattro (quanti sono i piani), per ogni raggio (che sono sei, più il reparto femminile), pavimentati con lo stesso cemento con il quale sono stati innalzati i solidi muri divisori. Però, dal tempo previsto per i passeggi, ai quali si accede due volte al giorno, complessivamente per tre ore e mezza, bisogna detrarre il tempo che si usa per fare la doccia, (quattro docce per centocinquanta uomini circa) e coincide nello stesso orario previsto per i passeggi, e i conti sono presto fatti: negli stanzini si sta, ininterrottamente, per diciassette ore e quarantacinque minuti, più due ore e quarantacinque minuti tra un passeggio e l’altro: va anche ricordato, nonché aggiunto nel computo, il fatto che quasi tutti gli incontri che i detenuti possono effettuare fuori dagli stanzini - con i familiari, con gli avvocati, quelli religiosi (la funzione domenicale), gli intellettuali e didattici, compresi quelli con i medici, e l’accesso alla barberia – sono rigorosamente stabiliti negli orari previsti per i passeggi nell’aria aperta. Riassumendo, in quelle tre ore e mezza sono state collocate tutte quelle cose, molte delle quali irrinunciabili, che rientrano nei diritti di un recluso. Le rimanenti venti ore e mezza sono caratterizzate, come si è già detto, dalla lentezza. Dalla lentezza con la quale passano le interminabili ore, alla lentezza (come se questa fosse contagiosa) con la quale si muovono i reclusi dentro gli stanzini. L’intero ambiente emana un’inconfondibile sensazione d’attesa, ossia una lenta attesa. Ma cosa fanno i reclusi in tutte quelle ore chiusi in quegli stanzini, oltre che lentamente muoversi e spostarsi, in quella lenta attesa? La risposta è niente! E quando si dice niente s’intende proprio niente, compresi tutti i significati, anche quelli più estremi, attinenti a questo così ampio termine. Non c’è la teoria, a qualsivoglia ramo della scienza appartenesse, che riesce a confutarci e convincerci che l’uomo anche quando non fa, pur sempre qualcosa fa, se l’uomo in questione si trova rinchiuso dentro una delle celle del carcere di "San Vittore". Ci sono sempre dei reparti che, per un motivo o per l’altro, sono differenti dagli altri, ma qui non vogliamo parlare dei pochi bensì dei tanti, anzi dei tantissimi. E le venti ore e mezza di quei tantissimi, ecco come vengono trascorse.
Che succederebbe se tutti i sei uomini si alzassero nello stesso momento?
Verso le ore sette e mezza sono quasi tutti svegli, ma sarebbe un guaio se tutti si alzassero contemporaneamente: altro che i mezzi pubblici, nelle ore di punta. Non si esagera. Lo stanzino è lungo quattro metri e largo due metri e mezzo circa. Poi metteteci dentro sei brande di ferro (due a castello per tre). Poi ancora aggiungeteci i sei stipetti (cinquanta centimetri per cinquanta ognuno) e, infine, un tavolo (ottanta centimetri per cinquanta – per sei persone!) contornato con qualche sgabello, finisce l’inventario della cella. Il piccolo monitor che svolge la funzione del televisore è posto sopra gli stipetti, in un angolo della cella, visibile da tutti. Ma qui parliamo dell’inventario ministeriale e non di quello personale, cioè non del vestiario e degli oggetti di proprietà del recluso: tra i vari cappotti, gli accappatoi, gli asciugamani e i vestiti che solitamente si usano per gli incontri coi familiari, o per i processi, immaginate allora quanto spazio ci rimane e quale confusione si creerebbe se tutti i sei uomini, come si accennava prima, si alzassero nello stesso momento, ovvero, alle sette e mezza di mattino. Perciò, mentre uno è in bagno, l’altro riceve dallo spioncino (una apertura nella porta, larga ventitre centimetri e alta diciotto) la razione del pane giornaliero, la frutta (di solito due mele a testa) e, se vuole, un bicchiere di latte, mentre gli altri quattro stanno buoni buoni dentro le loro brande. Una volta finiti i turni con il bagno (come esce uno dal bagno un altro entra; mentre quello ritorna nella propria branda un altro scende per aspettare il suo turno) arriva il cosiddetto passeggio. Dopo il primo turno dell’aria e in attesa del secondo, di solito si mangia quello che passa il convento. Alle ore quindici e un quarto si entra definitivamente in cella, per rimanerci fino alle nove del mattino seguente. E in quelle diciassette ore e quarantacinque minuti, cosa si fa? Ripetiamo ancora una volta, niente! In realtà si ha l’impressione che qualcosa pure si tenta di fare, ma codesti tentativi non sono altro che le interpretazioni di certe mosse e di certi movimenti del nostro corpo, e che l’altro, il nostro compagno di sventura, intuisce ancor prima di qualsiasi messa in atto da parte nostra, cioè, il nostro impercettibile gesto di tentare di fare qualcosa viene, in un lampo, percepito dal nostro compagno che, per puro istinto di difesa, accenna a sua volta la sua volontà di tentare di fare qualcos’altro. Il gesto di questo viene poi percepito anche dagli altri occupanti dello stanzino e il muto comunicare tra le sei persone comincia ad intrecciarsi e ad interpretarsi arbitrariamente. E tutto questo a volte dura per ore intere. Al nostro occasionale e ben intenzionato spettatore sembrerebbero tutti pazzi. Alla fine anche la lotta coi gesti e i movimenti viene interrotta (siffatta lotta non termina mai, viene soltanto, per poco tempo, interrotta da una tacita tregua) da uno che improvvisamente accende il televisore con intenzione di vedere qualche programma attraverso il piccolo monitor, ma c’è sempre un altro al quale questo, e proprio questo programma non va: questione di gusti, o Dio sa di che cos’altro. Un altro poi, nello stesso momento e dallo stesso discusso programma, trae lo spunto per raccontare il suo calvario processuale, ma difficilmente trova qualcuno che lo ascolti più di qualche attimo. Tuttavia questi continua a parlare e a parlare, pur consapevole che nessuno lo ascolta. Soltanto verso la fine del suo soliloquio, al quale nessuno ha voluto partecipare, il nostro oratore comincia a rendersi conto che il rivivere certi attimi della vita, per lui fatali, ha ulteriormente scosso la sua anima, ormai quasi del tutto dilaniata. Poi c’è quello che accenna di voler raggiungere il tavolo per scrivere la lettera ai suoi a casa, ma, guarda caso, gli altri due si sono già seduti intorno allo stesso, con seria intenzione di finire una partita a carte iniziata Dio sa quando e che con molta probabilità non finirà mai, o meglio non finirà nel modo di come di solito finiscono tutte le giocate con le carte: con un vincitore e, di conseguenza con un perdente.
E poi arriva la sera e, infine, la notte, e con la notte arrivano i lamenti e le grida
Un ambiente strano questo carcerario: nessuno vuole accettare la sconfitta, come se avesse ancora qualcosa da perdere. Perciò, dopo ogni partita di carte, nessuno dei giocatori si dichiara sconfitto: il vincitore, per il fatto di aver vinto, e il perdente si dichiara solo perseguitato dalla solita sfortuna; insomma, sfortunato, ma non sconfitto. Una logica tutta interna, e largamente diffusa fra i giocatori meno abili. A scuotere questa apparente tranquillità pomeridiana è la voce dell’agente che invita uno degli occupanti dello stanzino a raggiungere la rotonda, perché lo vuole l’ufficiale giudiziario. Questi così detti ufficiali giudiziari qui li chiamano "Aquila nera". Quando questi signori chiamano qualcuno significa soltanto una cosa: o un altro mandato di cattura, o un rigetto, oppure una multa da pagare, o la fissazione della data di qualche udienza, o qualche altra disgrazia simile. Una volta rientrato nello stanzino, lo sfortunato compagno tenta di coinvolgere anche gli altri (e con chi altro sfogarsi?), raccontando quella maledetta storia alla quale lui è completamente estraneo. Altri lo guardano senza dargli né ragione, né torto; comunque, lo guardano con un’espressione severa e seria (tale espressione del viso contiene in sé il massimo del rispetto che un recluso può mostrare a un altro: come per dire, per il momento non penso ai miei guai, i miei pensieri e la mia comprensione sono rivolti ai tuoi). Se poi dentro a quell’espressione non ci fosse nessuno di quei nobili sentimenti poco importa, è il gesto che importa. Questo allo sfortunato basta e avanza, anzi, se non è un deficiente, preferisce che le cose stiano così, perché domani toccherà a lui il compito di sollevare un altro con la stessa espressione del viso, severa e seria. Se non altro il nostro compagno sfortunato in quel momento sarà in pace con la propria coscienza. A volte capita che qualcuno decide di leggere un libro, e come per incanto il volume del televisore si alza proprio in quel momento; si discute a voce alta sulle immagini che scorrono sul piccolo monitor; si ride rumorosamente; si osserva che con la luce spenta l’immagine sarebbe più chiara… insomma, dopo appena qualche pagina, il libro viene chiuso e, guarda caso, nello stesso istante qualcuno scopre che questo film ormai l’hanno visto già tutti, e nessuno può mostrarsi interessato a seguirlo. Speriamo che ormai abbiate capito cosa intendevamo dire quando affermavamo che dentro le celle di "San Vittore" non si riesce a fare niente! Si, è vero, qualcuno potrebbe osservare, e con tutte le buone ragioni fare questa domanda: "Ma se le cose stanno veramente così come descritte in questi fogli, allora come si è riusciti a scriverle?". E poi aggiungere quasi maliziosamente: "Quella tesi a cui vi siete così tanto affezionati, e cioè che in un posto simile non si riesce a fare niente, è stata confutata proprio con questo scritto". Quando, durante la seconda guerra mondiale, dentro l’occupata Parigi, un ufficiale tedesco mentre ammirava il capolavoro Guernica si rivolse a Picasso con le parole: "Ha fatto lei questo quadro?", il pittore spagnolo rispose: "No, l’avete fatto voi"! La stessa risposta la potremmo dare anche per quello che riguarda questo scritto… Mah! Torniamo a noi. E poi arriva la sera e, infine, la notte. Finalmente la pace, penserete voi, ma vi sbagliate. Col giungere della notte, arrivano i lamenti e le grida. Le chiamate provenienti da diversi stanzini, rivolte agli agenti, con lo scopo di poter accedere alla stanza chiamata "Pronto Soccorso", sembrano non finire mai. E gli agenti, spesso, sembra che non ci siano proprio – ma anche questo sarebbe un altro argomento che non approfondiremo ora. E dai e dai, alla fine tutto si quieta… o almeno appare così a quelli che vinti dalla stanchezza, finalmente trovano quella pace che soltanto il sonno può dare.
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