1.1. Introduzione e pre-giudizi dell'autore - 1.1.a. L'accezione 'alternativa'del termine 'sicurezza' così come delineata da Alessandro Baratta - 1.1.b. La proposta della riserva rafforzata di codice in materia penale (L.Ferrajoli) - 1.1.c. La depenalizzazione di alcune condotte umane (rinvio) - 1.1.d. La certezza della pena e i 'diritti deboli'
L'oggetto principale del seguente studio è un confronto (parziale) tra l'esecuzione delle pene nell'ordinamento giuridico portoghese e in quello italiano.
Ho scelto di approfondire questo peculiare ramo del diritto penale perché credo rappresenti il terreno sul quale, in maniera più emblematica, si manifestino gli ostacoli nell'attuazione dello Stato sociale di diritto e della democrazia 'sostanziale' e 'costituzionale'.
La scelta della comparazione, sia pure a grandi linee, tra due ordinamenti della CE è dettata, invece, dalla presa di coscienza dell'importanza del momento storico che stiamo vivendo, con l'allargamento della Comunità a 25 Stati, con la discussione intorno alla progettazione e attuazione della Legge Fondamentale europea. (1)
Prima ancora di esplicare quali siano le linee guida che seguirò nel confrontare l'esecuzione penale in Portogallo e in Italia, è opportuno chiarire la natura dell'ordinamento particolare oggetto del seguente studio.
L'ordinamento penitenziario è -in via di prima approssimazione -"il complesso delle disposizioni in tema di esecuzione delle pene privative della libertà personale contenute nelle leggi, nei regolamenti, nelle circolari ministeriali, nei codici penale e di procedura penale". (2)
L'esecuzione penale rappresenta un 'segmento' del diritto penale, ossia, di quel complesso di disposizioni che regolamentano giuridicamente i precetti, i procedimenti e le esecuzioni di un sistema penale.
Il diritto penale, a sua volta, è una species del più vasto genus della politica penale; quest'ultima, infine, costituisce uno degli aspetti della politica criminale. Scrive, a questo proposito, Alessandro Baratta: "La politica criminale, come nozione di genere, è un insieme più vasto e complesso della specie 'politica penale'. A questo livello di elaborazione, (3) la linea di distinzione tra la politica criminale e la politica in senso lato (politica sociale, economica, occupazionale, urbanistica ecc.) perde la sua iniziale nettezza." (4) Questo punto di partenza fa comprendere, anzitutto, la complessità dell'oggetto in questione. Complessità che riguarda, oltre 'l'oggetto', anche il punto di vista soggettivo applicabile: in altre parole, lo studio dell'esecuzione penale può essere preso in considerazione da diverse angolazioni, da diversi saperi scientifici (ad es. teoria e storia sociale, psicologia sociale, politologia, teoria dell'argomentazione, etica sociale) e da diversi saperi della scienza giuridica (filosofia e teoria del diritto, diritto costituzionale, diritto amministrativo, dogmatica penale, diritto penale e via dicendo), e, ogni disciplina, darà i propri risultati, inevitabilmente, relativi e frammentari.
Il punto di vista, relativo, del giurista è lo studio critico del contenuto delle diverse fonti del diritto e della giurisprudenza prodotta dagli organi giurisdizionali in tema di esecuzione delle pene.
Questo punto di vista, se isolato e non integrato con i saperi delle altre discipline che studiano lo stesso oggetto, non può che dare una visione parziale della cruciale questione criminale, penale e penitenziaria. Tale verità è ben chiara alla corrente della criminologia critica che propone un modello di scienza integrata del diritto penale, dove oggetto di studio sono le differenti definizioni del comportamento criminale prodotte dalle istanze del sistema (legislazione, dogmatica, giurisprudenza, polizia e senso comune) e queste definizioni non costituiscono più un punto di partenza -come avviene nella criminologia eziologica - ma, appunto, oggetto di studio, con l'utilizzazione degli strumenti messi a disposizione dalla storia e dall'analisi della struttura sociale. (5)
Il limite di detta corrente è, secondo Baratta, l'interdisciplinarità interna, che si ha quando "un complesso integrato di discipline accademiche, converge su un unico oggetto (nel nostro caso il diritto penale), selezione ed organizza, all'interno del proprio discorso, risultati provenienti da altre discipline accademiche mantenendo però l'autonomia strategica e l'egemonia del proprio sapere specifico in rapporto con queste [..] Il discorso scientifico della interdisciplinarità interna conduce ad una forma di controllo del sistema della giustizia criminale che, a sua volta, poteremmo denominare 'controllo interno'. Si tratta di un controllo formale rivolto a misurare la corrispondenza fra le pratiche repressive ed i principi del diritto penale liberale (uguaglianza, libertà, legalità, ecc.), attraverso i quali si è tradotta la 'promessa' della modernità." (6)
Quello che propone Baratta è, invece, un controllo esterno del sistema, basato su principi di giustizia materiale e avente ad oggetto il controllo della relazione fra costi sociali e benefici dell'intervento del sistema penale. Possiamo definire tale dimensione come 'comportamentale' per contrapporla alla dimensione 'della definizione' propria dell'interdisciplinarità interna (e del controllo interno), secondo il modello della criminologia critica. La dimensione comportamentale ha ad oggetto il referente materiale della criminalità che è un oggetto 'disomogeneo e mobile', che mal sopporta l'autonomia strategica e l'egemonia di una disciplina scientifica. Secondo questa istanza metodologica, vi è bisogno di contributi convergenti di discipline scientifiche e saperi speciali con competenza paritetica, "che si organizzano secondo una combinazione specifica per ciascuna area, senza che nessuna disciplina possa, a priori, pretendere un ruolo egemonico o una competenza sulla competenza delle altre". (7)
"Non c'è futuro, ritengo, per una disciplina, nel nostro caso la criminologia, che pretende di serrare dentro la propria grammatica -frammentaria -la dimensione comportamentale della 'questione criminale', vale a dire tutte le situazioni problematiche o legate a violazioni di diritti, tutta la violenza e tutti i conflitti che possono essere messi in relazione con quella. [..] solo un discorso trasversale alla divisione accademica del lavoro scientifico e delle discipline istituzionalizzate può legittimarsi dal punto di vista epistemologico e politico. Un tale discorso non può essere formulato che da un soggetto collettivo, che si potrà formare attraverso la partecipazione di attori provenienti dalle diverse comunità scientifiche, quando alla logica tradizionale delle convocazioni accademiche si sostituiscano l'impegno civile e la domanda politica da parte della comunità dei cittadini e delle istituzioni del governo locale e nazionale. Solo un tale soggetto ed un tale discorso potranno produrre un sapere sociale orientato al principio democratico dell'interazione fra scienza e società, un discorso che non disattende i bisogni reali dei cittadini." (8)
Ho voluto citare Alessandro Baratta all'inizio del lavoro, perché ritengo fondamentale interiorizzare l'insegnamento, di impegno civile, prima ancora che di metodologia scientifica, proposto dal Maestro.
La frammentazione dei saperi scientifici di cui parla Baratta è, a mio modesto avviso, 'la cartina di tornasole', 'l'anello di congiunzione' al ben più drammatico problema della frammentazione della tecnica di legislazione 'criminale', caratterizzata, principalmente, da politiche penali dell'emergenza, (9) non coordinate, fondate e giustificate dalla eticizzazione, assolutizzazione e criminalizzazione dei conflitti sociali, dalla 'polarizzazione ideologica tra Bene e Male', (10) che porta ad una anacronistica legittimazione 'auto-poietica' (11) del sistema penale; in questa ottica, i valori della 'giustizia', 'incorporati' nelle Costituzioni moderne (valore delle persone, tolleranza del diverso, uguaglianza nei diritti - liberali e sociali), (12) non costituiscono più il fondamento, la giustificazione e il limite del potere statuale, ma, divengono 'strumenti' malleabili, adattabili alle volontà contingenti della 'maggioranza'di turno.
In altre parole, si dimentica che lo Stato Costituzionale di diritto nasce e si fonda, prima ancora che sull'idea della 'struttura' democratica del potere, sul principio che lo Stato, la maggioranza di governo, non può decidere determinate cose (c.d. 'diritti liberali', cfr art.3,n.1 Cost.it) - come ad es. uccidere, discriminare o torturare un uomo -, deve decidere determinate cose (c.d. 'diritti sociali', cfr art.3, n.2 Cost.it) - come ad es. assicurare a tutti un lavoro, una casa, una vita dignitosa -. (13)
Le differenti visioni della democrazia ('politica' e 'costituzionale') saranno analizzate nel capitolo terzo. Quel che qui rileva è, invece, il peculiare rapporto intercorrente tra politica criminale e politica sociale negli odierni stati 'democratici'. In uno Stato sociale di diritto -dove, ribadiamo, lo Stato non ha più solo obblighi di non fare (diritti liberali), ma ha anche obblighi positivi (diritti sociali), secondo una interpretazione e una applicazione 'dinamica' delle Carte costituzionali-, (14) la politica penale dovrebbe rappresentare l' extrema ratio, l'ultimo strumento da utilizzare là dove la politica sociale non sia riuscita a dirimere un conflitto sociale. (15) Al contrario di quanto detto, è significativo notare che, in Italia, "in mezzo secolo di storia repubblicana le sole riforme attuate siano state la riforma penitenziaria e quella processuale" (16) piuttosto che riforme sociali organiche, coerenti ed effettive. Lo stesso stato dell'arte è riscontrabile nella giovane repubblica portoghese e in diversi altri paesi 'democratici'.
Ancora. La confusione tra politica sociale e politica criminale si scorge (e si riflette) nell'accezione comune e - ancor più drammaticamente -'politica' del termine 'sicurezza', il quale acquisisce esclusivamente valenze collettive (internazionale, pubblica, nazionale, locale) dimenticando che, 'sicuri', in uno Stato sociale di diritto, "dovrebbero essere, innanzi tutto, i soggetti titolari di diritti fondamentali, in particolare di quelli universali", (17) ossia, tutti i cittadini -e non solo i non devianti -di uno Stato; e, obbedendo al principio di universalità e ai trattati internazionali e comunitari in materia, tutti i soggetti che si trovano -pur non essendone formalmente cittadini -in uno Stato che professa (..e che vorrebbe.. esportare!) principi di 'democrazia'. Ma allora basta 'citare' l'obbrobrio dei Centri di permanenza temporanea per immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, le c.d. 'gabbie etniche' - dove si è ristretti non a seguito di un accertamento giurisdizionale (18) che attesti una responsabilità penale ma semplicisticamente per ciò che si è -per comprendere che la definizione di 'sicurezza' non risponde a parametri di logica ma è un ordine ideologico, non è un concetto universale ma particolare, non adempie a quanto prescritto dal Trattato di Ginevra e dall'art.10 della Cost.it, ma alla volontà dei vari Legislatori, italiani e 'democratici', di attuare un controllo sociale totale si stampo post-coloniale.
Pensiamo, ancora, al caso della giovane Comunità europea, dove, prima ancora di creare una discussione seria sul disegno costituzionale, si è ben pensato di creare e attuare uno spazio di giustizia europeo -si allude, in particolare al Trattato di Schengen e al mandato d'arresto europeo - (19) senza nemmeno prevedere quelle limitazioni alla potestà punitiva che sembravano essere un'incontrovertibile conquista del secolo dei Lumi.
Assistiamo, dunque, ad una sistematica in attuazione dei principi costituzionali (sia liberali che sociali) su scala, potremo dire, 'comunitaria' (se non 'planetaria'), dove, dietro la mediatica e speculativa finzione di un interessamento accanito verso il tema della 'sicurezza' e garanzia dei diritti fondamentali (dei non devianti), si cela, quanto meno, una confusione ideologica nel distinguere politica della sicurezza e politica sociale. In questa ottica, oltre alla sopra delineata inversione del rapporto tra politica sociale e criminale, tra species e genus, la politica criminale "diventa uno strumento di legittimazione e riproduzione della realtà sociale", (20) dove il sistema penale vive ed opera all'infuori della legalità costituzionale, operando in modo parallelo al sistema legale.
In questo non felice quadro si inserisce il sistema totale carcere, il segmento conclusivo del controllo penale, il 'contenitore dell'esclusione sociale', il 'Vaso di Pandora' dove tornare a rinchiudere tutti i mali del mondo.
Ed è chiaro, mi auguro, che di tale sistema totale non si possa parlare verificando esclusivamente quale sia la funzione della pena, quali siano i diritti dei ristretti, le loro condizioni di vita materiale, ma anche e sopratutto cercando di capire chi sono i detenuti, quali le fattispecie più punite, le classi sociali più colpite e più a lungo ristrette; e, allora, basta dare 'un'occhiata' ai dati statistici al riguardo, per verificare che i reati più puniti sono quelli legati, a vario titolo, agli stupefacenti -ad es., in Portogallo, nel 1998, il 62% dei ristretti, nel 2003 il 55%! (21) -, che la classe sociale (rectius, etnia) più colpita è rappresentata dai migranti -ad es., in Italia, nel 2001, il 29,5% dei ristretti! (22) ..Bisogna, allora, ammettere l'esistenza di diritti forti, quelli della 'sicurezza' pubblica, contrapposti a diritti deboli, (23) quelli della garanzia e della sicurezza dei diritti fondamentali e universali. La lesione di questi ultimi diritti comporta l'inadempimento non solo dell'art.3, n.2 Cost.it, ma dell'intero testo costituzionale poiché questo si basa sulla persona come valore. (24) "Per questo la loro lesione da parte dello stato giustifica non semplicemente la critica o il dissenso, come per le questioni non vitali su cui vale la regola della maggioranza [principio democratico], ma la resistenza all'oppressione, fino alla guerra civile. 'Su questioni di esistenza', è stato detto, 'non ci si lascia mettere in minoranza'". (25)
Chi scrive, condivide l'idea della 'resistenza' civile contro l'oppressione dei diritti fondamentali e universali e denuncia, fino alla noia, come nei confronti delle classi meno abbienti (titolari dei diritti deboli) "l'efficentismo" del legislatore, dei giudici e delle forze dell'ordine raggiunga livelli sorprendenti. (26)
Questi dati, quindi, confermano la tesi secondo la quale la questione penitenziaria va analizzata congiuntamente alla questione sociale depurata dall'opera mediatica-statuale di eticizzazione, assolutizzazione e criminalizzazione dei conflitti sociali, ossia, con soluzioni differenti dalle politiche della 'sicurezza' (dei soli non devianti, a difesa dei soli 'diritti forti') attuate dai nostri rappresentati politici.
Non è questa la sede dove avanzare le alternative alla 'crociata' politica criminal-sociale della 'sicurezza', scrupolosamente delineate nelle opere di Baratta, Ferrajoli (qui, in eccessiva sintesi, riportate) e di altri intellettuali, giuristi e attivisti.
In questa sede si è voluto solo delineare il 'pre-giudizio' dell'autore, il punto di vista e la metodologia 'ispiratrice' della seguente, parziale, analisi.
Un accenno (con rinvio), a grandi linee, però, meritano:
1.1.a Sicurezza dovrebbe significare protezione e soddisfazione dei bisogni basici di ciascun individuo, concetto che abbraccia un campo ben più ampio di quello della lotta contro la criminalità, comprendendo anche, rectius, soprattutto, la lotta contro l'emarginazione, l'esclusione sociale, per la realizzazione di una società che possa esprimere al massimo le potenzialità di sviluppo degli individui (cfr art.3, n.2 Cost.it.). Ma tale interpretazione 'deontologica' del termine sicurezza, implica una rivoluzione copernicana delle politiche penali che, piuttosto che informarsi al modello "diritto alla sicurezza" dovrebbero informarsi a quello della "sicurezza dei diritti", al fine di promuovere (e, auspicabilmente, realizzare) una "politica integrale di protezione e soddisfazione dei diritti umani e fondamentali". Tale visione sembra ottemperare, anzitutto, al principio di eguaglianza - formale e sostanziale - e al principio di tolleranza; in secondo luogo, interpreta correttamente il rapporto tra politica criminale e politica sociale, dando priorità alla seconda, e declassando il diritto penale e gli indirizzi rivolti alla prevenzione dei delitti ad elementi (non sostituvi ma) sussidiari. (27)
1.1.b La certezza della pena, cardine dello Stato di diritto, caratterizzata da una valenza intimidatoria generale e preventiva, è compromessa dal proliferare della legislazione penale dell'emergenza, che porta alla non facile conoscibilità dell'illecito -quale è il crimine giusto per non finire da criminali, cantava De Andrè (28) -; la riserva di codice proposta dal filosofo Ferrajoli (29) potrebbe, allora, evitare alle diverse maggioranze di stravolgere le regole penali - rectius, la protezione integrale che dovrebbe essere accordata ai bisogni basici dell'individuo - prevedendo maggioranze qualificate, 'aggravate', per cambiarle, in un quadro maggiormente coerente allo Stato Costituzionale di diritto. Si pensi al reato di tortura - previsto in accordi internazionali ratificati dallo stato italiano (ad es.,art. 1 della Convenzione istitutiva del CAT, art.5 DUDU, art.3 CEDU), elevato a rango costituzionale (art.25,n.2) nell'ordinamento portoghese -non previsto esplicitamente dall'ordinamento giuridico italiano ma in vigore, almeno formalmente, nell' ordinamento interno a seguito delle ratifiche degli accordi internazionali sopramenzionati, e alla recente proposta di legge italiana - già approvata da un ramo del Parlamento - che prescrive la reiterazione come conditio sine qua non per configurare tale reato. Certamente, e, doverosamente -per un tema così delicato, e per il quale lo Stato italiano ha già contratto (e non ha adempiuto) obbligazioni specifiche -la previsione di una procedura aggravata per cambiare lo status quo ante, rappresenterebbe una tutela, quanto meno, formale, contro l'arbitrio del momentaneo Legislatore.
1.1.c Ancora, la depenalizzazione (30) (di alcune condotte oggi etichettate come 'criminali' pur non collidendo con altri interessi basilari dell'individuo e della società) è uno strumento, a lungo termine, maggiormente efficace e maggiormente rispondente all'esigenza di sicurezza (intesa, questa volta, come garanzia dei diritti basilari di 'tutti') rispetto alla costruzione di nuove carceri o a provvedimenti di amnistia (ma politicamente, a breve termine, è una mossa impopolare).
Queste tre proposte porterebbero ad una maggiore certezza della pena e, accompagnate da un Welfare non più assistenziale e speculativo, darebbero come (probabile) risultato una forte riduzione del tasso di carcerazione.
1.1.d. Nel seguente studio, volutamente, non si è mai fatto riferimento alle vittime dei reati, ossia, alla parte debole del 'rapporto criminoso'. (31) Tale decisione è dovuta esclusivamente alla volontà di soffermare l'attenzione sugli specifici diritti deboli del condannato o dell'imputato in custodia cautelare. Gli argomenti ora citati, 'sicurezza dei diritti', 'riserva rafforzata di codice', 'depenalizzazione', 'certezza della pena' permettono, però, di poter fare riferimento ai diritti deboli sia delle vittime del reato sia delle vittime delle esecuzioni. Tali proposte, alternative alla 'crociata' politica criminal sociale, infatti, porterebbero non solo all'attuazione dell'art.3,n.2, Cost.it., ad una maggiore conoscibilità dell'illecito e ad una forte decarcerizzazione, ma anche alla possibilità di concentrare attenzione e mezzi (a favore, anzi tutto, delle vittime dei reati) contro i crimini che realmente ledono interessi basilari, diminuendo in questo modo sia 'i costi dell'ingiustizia' degli imputati in custodia cautelare ('condannati' ad un processo non 'in tempi ragionevoli', in aperta collisione con l'art.111 Cost.it., art.6 CEDU) e dei ristretti 'definitivi', sia gli interessi della parte offesa a vedersi garantita e tutelata 'in tempi ragionevoli'; sia, infine, gli interessi di un'altra categoria 'debole', gli agenti di polizia penitenziaria, costretti oggi a lavorare in un contesto sovraffollato, disumano e degradante senza una giusta gratificazione economica, né una formazione adeguata.
Non solo. La certezza della pena è compromessa dalla emanazione 'formale' di sentenze di lunga espiazione -che non trovano eguali in Europa (con la sola eccezione della Spagna, che, in una recente riforma, ha previsto restrizioni fino a 40 anni per i 'terroristi') dove la pena massima, in astratto, difficilmente supera i 15 anni contro i 30 anni degli 'ergastolani italiani' - dovute più all'enfatizzazione dei media-terroristi (e al conseguente furor di popolo) che ad una concreta volontà retributiva dell'ordinamento (informato piuttosto alla risocializzazione del reo), il quale prevede la possibilità di 'accorciare' o modificare l'esecuzione (32) in base ai dati dell'osservazione e al sistema 'premiale' proprio del sistema penitenziario italiano. Ciò che si critica è il fatto che il giudice del merito sa in partenza che la pena non sarà totalmente espiata: a rimetterci è la valenza intimidatoria e deterrente della (certezza della) pena, ma, anche e sopratutto, la fiducia nelle istituzioni della parte offesa, la frustrazione della vittima che, dopo le attenzioni e le 'coccole' mediatiche del processo, si vede abbandonata da uno stato che non ottempera a quanto sancito in sentenza.
Si può dunque dire che, l'elasticità, il principio della umanità e della funzione, quanto meno, non desocializzante della pena, in Italia, prendono forma nell'esecuzione 'giurisdizionalizzata', con abbassamento della pena edittale e probation, attribuendo un difficile ruolo al magistrato di sorveglianza, e rendendo, sul piano della legislazione ordinaria, in effettivi i principi costituzionali ex art.27, n.3 poiché la possibilità di infliggere una pena di 30 anni è presumibilmente contraria al senso di umanità e postula l'impossibilità di rieducare il reo. .
A questo proposito risulta opinabile l'atteggiamento della Corte costituzionale, la quale ha ritenuto la pena dell'ergastolo non contraria alla Costituzione, perché, in concreto, la carcerazione non eccede i 25 anni; c'è chi propone, in un quadro più coerente al patto sociale costituzionale, la divisione del giudizio in due fasi, una di accertamento di responsabilità, una di applicazione della pena. (33)
Può dirsi che, allo stato dell'arte, l'unica coscienza del giurista riformista (e non solo) è, quindi, rappresentata dalla volontà di agire sulla questione penitenziaria agendo alla radice, guardando al sociale, guardando dal basso e promovendo l'attuazione delle proposte 'alternative' sopra riportate; e, almeno in una prima fase, ricordando i dati statistici sulla popolazione carceraria, bisognerebbe dare minor rilevanza a 'fatti' come l'indultino, i nuovi poteri della magistratura di sorveglianza, l'apertura del carcere al mondo esterno, la diversa formazione degli organi della polizia penitenziaria se questi provvedimenti, questi soggetti, operano in un contesto sovraffollato, 'disumano e degradante', dove parlare di legalità, di rispetto e sicurezza dei diritti fondamentali, di separazione dei detenuti per favorire il processo di risocializzazione, diventa una chimera.
Sembra, dunque, indispensabile porre attenzione alle politiche criminali adottate negli ultimi decenni in Portogallo e in Italia (ma, ahimè, anche in Spagna e in altri paesi 'democratici') per non perdere di vista la fonte 'primaria' della questione criminale, penale e penitenziaria odierna.
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