Forum: pena di morte

 

Da Luisa: "Cosa pensate, voi in carcere, della pena di morte? Se vi trovaste da un’altra parte, dove qualcuno abbia sconvolto la vostra vita, in che modo vorreste fargliela pagare?"

 

Mi chiamo Luisa e abito a Pellestrina, isola in provincia di Venezia. Da qualche mese leggo il vostro giornale «Ristretti», e vorrei farvi alcune domande su una questione che in questi giorni è molto discussa: la pena di morte. Cosa pensate, voi, della pena di morte?
Se vi trovaste da un’altra parte, dove qualcuno abbia sconvolto la vostra vita (anche se credo che il carcere faccia già questo effetto) quale sarebbe la vostra reazione immediata? In che modo vorreste fargliela pagare?

Risponde la redazione di Ristretti Orizzonti...

 

Cara Luisa, le tue domande riguardano uno dei temi più difficili da trattare, per una redazione composta da detenuti. Per risponderti, è necessaria una premessa: le persone che stanno in carcere non sono tutte uguali, sia perché sono condannate per reati differenti, sia perché affrontano in maniera diversa l’esperienza della detenzione.

Qualcuno di noi deve, effettivamente, fare i conti con la propria coscienza, se pensa a quanti hanno sofferto a causa sua; altri sono, sì, responsabili di azioni illegali, ma non hanno danneggiato direttamente delle persone, quindi non si sentono in debito verso "vittime" in carne ed ossa.

Pensa ad un evasore fiscale o ad un contrabbandiere: certo, hanno fatto "del male" alla società, ma questa colpa appare loro astratta, perché astratto e generico è il concetto stesso di "società".

Un altro problema è rappresentato dal fatto che alcuni di quelli che stanno in carcere si sentono vittime, e se a volte questo può essere vero (ci sono anche persone ingiustamente condannate), in altri casi questo atteggiamento diventa la difesa contro i propri sensi di colpa: "Certo, ho sbagliato, ma... a causa di altri; ma... sto pagando a caro prezzo; ma... la società mi respinge, mi disprezza, quindi la colpa è anche sua, in fondo".

Terminata la premessa, rimangono da soddisfare le tue domande, soprattutto quella sulla pena di morte.

Tu chiedi cosa ne penseremmo, se ci trovassimo da un’altra parte, dove qualcuno avesse sconvolto la nostra vita. Evidentemente, l’applicazione della giustizia non può essere confusa con l’emotività di uno stato di rabbia, com’è quello che comprensibilmente vive chi ha subito un danno, tanto più se di grave entità. E non possiamo dirti che noi siamo diversi, inclini alla sopportazione e al perdono; siamo però consapevoli delle conseguenze, per averle provate, di azioni dettate dall’impulsività di un momento.

Sulla pena di morte, anche in carcere ci sono gli stessi atteggiamenti contraddittori che si registrano nella società libera. In linea di massima, siamo tutti contrari alla condanna capitale, perfino ci scandalizziamo di fronte all’insensibilità dei governanti americani, che la fanno eseguire anche nei casi di dubbia colpevolezza.

Tuttavia, di fronte a persone responsabili di azioni «infamanti», ad esempio chi ha violentato un bambino, molti di noi cambiano idea, perfino eseguirebbero volentieri la sentenza…

Nelle carceri degli Stati Uniti, è stata di recente effettuata un’indagine su chi fosse favorevole o contrario alla pena di morte: la maggioranza dei detenuti si è dichiarata favorevole, pure sapendo che questa condanna avrebbe potuto colpire anche loro.

In Italia, la cultura umanistica è più matura che negli U.S.A. e la pena di morte è rifiutata, dentro come fuori dalle carceri, come soluzione per il controllo della criminalità.

Permangono, in alcune persone, dei dubbi sull’opportunità di "eliminare fisicamente" i colpevoli dei delitti più efferati, i "mostri", irrecuperabili alla civile convivenza. Anche in carcere, c’è questa tendenza a distinguere tra le "persone normali" (i delinquenti comuni: ladri, spacciatori, omicidi) ed i "mostri" (pedofili, violentatori), che infatti vengono tenuti in sezioni isolate. L’ambiguità di fondo, sulla pena di morte, consiste nel fare distinzioni tra chi la meriterebbe e chi no, invece di rifiutarla e basta. Questo dà modo, ad ognuno, di farsi una propria graduatoria di "candidati alla forca": nulla a che vedere con la giustizia, ma tanto basta per sentirsi migliori, distinguendoci da chi riteniamo peggiore di noi.

 

 

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