Interviste di "Ristretti"

 

In collina per tornare ragazzi

Vicino a Cagliari, una comunità accoglie minorenni e giovani affinché scontino la pena fuori dal carcere. Lavorando, imparando le regole della vita in comune ed evitando di finire, una volta compiuti i ventun anni, nei penitenziari per adulti. L’ha fondata don Ettore Cannavera, psicologo e cappellano nel carcere minorile di Quartucciu

 

(Realizzata nel mese di febbraio 2004)

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Persona singolare, don Ettore Cannavera: sacerdote, pedagogista, psicologo, cappellano dell’Istituto penale minorile di Quartucciu, a Cagliari, e responsabile della comunità La Collina di Serdiana,vicino al capoluogo sardo. Un uomo-tuttofare che dirige ma non si tira indietro, mai, neppure quando si tratta di rimboccarsi le maniche e "sporcarsi le mani" per i suoi ragazzi e insieme a loro. Don Ettore non ce l’ha voluto dire, ma sappiamo che nella cassa comune della comunità che dirige ci fa finire anche il suo stipendio di insegnante di psicologia. E la stessa cosa fanno, in parte, anche i giovani lavoratori ospitati nella struttura, secondo il principio dell’autogestione e dell’autofinanziamento, chiarisce don Ettore, "quindi nella consueta riunione settimanale, di comune accordo e in base alle entrate, decidiamo anche le spese da affrontare".

 

Don Ettore, ci racconti la nascita della comunità e gli scopi che l’hanno ispirata.

È iniziato tutto nel 1994 con la fondazione dell’associazione "Cooperazione e confronto", della quale ero il presidente, composta da un gruppo di operatori sociali – educatori, pedagogisti e insegnanti – che operavano nel campo della prevenzione e della riabilitazione per adolescenti e giovani adulti in difficoltà. Durante la nostra attività ci siamo resi conto che il carcere non risponde in modo adeguato ed efficace a una funzione rieducativa: basta vedere i problemi che i ragazzi manifestano nel compiere il reato, che in molti casi cela un bisogno di attenzione, di acquisire responsabilità e autonomia. Nel 1995 abbiamo quindi costituito La Collina, che nasce proprio per quei ragazzi che il giudice, non potendo prevedere per loro l’affidamento in famiglia – pensate a casi di omicidio dove ci sono contrasti all’interno dei paesi dove l’episodio è accaduto –, è disponibile ad affidare a una struttura, lontano dalle proprie case. Qui i ragazzi possono essere seguiti e soprattutto per loro c’è un vero progetto educativo, un’ottica autentica di reinserimento sociale.

 

Com’è composta la comunità, quali sono le attività lavorative e di reinserimento che vengono svolte all’interno e come avviene la gestione?

La nostra struttura è abbastanza ampia, perché alla prima comunità ha fatto seguito La Collina 2, e poi una cooperativa sociale di tipo B, La Gariga, grazie alla quale possiamo coltivare i nostri terreni, parecchi ettari, e creare occasioni di lavoro. Finché i ragazzi rimangono in comunità, svolgono svariati lavori agricoli: coltivazione biologica di erbe e piante da vendere e distillare per ricavare oli e tinture; allevamento di lumache, coltivazione di oliveti. Le modalità di gestione sono simili a quelle delle altre comunità, con le normali regole di convivenza, ma soprattutto con l’ottica del reinserimento, perché i ragazzi devono lavorare fuori. Possono lavorare in comunità, nella nostra azienda agricola, solo per il primo mese, massimo due, finché non trovano fuori un lavoro retribuito e assicurato. Chiaramente sono per lo più lavori di manovalanza, per questi ragazzi dai 18 ai 25 anni senza professionalità né competenze specifiche. Per fortuna conosciamo un buon giro di imprenditori che, sollecitati e sensibilizzati, li impiegano nelle loro aziende.

 

Quante sono le persone che ospitate, per quale durata e come si accede alle vostre comunità?

Ogni comunità ospita al massimo sei ragazzi. In questo momento, tra l’una e l’altra, sono solo otto perché siamo in attesa di trovare altri posti di lavoro per prendere altri ragazzi. Fino a oggi, in sette anni, sono passati da noi 25 ragazzi, di cui sette condannati per omicidio, quindi il tempo di permanenza cambia a seconda di ognuno: per reati gravi come l’omicidio, la permanenza è molto più lunga, da tre a cinque anni. I ragazzi vengono inviati qui dal Tribunale di Sorveglianza, soprattutto quello dei minori, perché in genere hanno commesso il reato prima dei diciotto anni. Non c’è una scadenza precisa al termine della quale si deve per forza lasciare la comunità: i ragazzi possono fermarsi qualche tempo in più se non si sentono pronti a reinserirsi nel loro contesto familiare o in altri ambienti fuori dal loro paese, perché il nostro progetto intende anche prevenire la recidività, che è molto alta in questi giovani.

 

Per seguire adeguatamente i ragazzi vi avvalete dell’aiuto di qualche figura professionale?

Abbiamo cinque figure professionali, tra educatori e psicologi, che noi chiamiamo "operatori di condivisione" perché hanno il compito di orientare e sostenere i ragazzi nell’avvio o nella ripresa di un proprio e autonomo progetto di vita.

 

C’è qualcosa di veramente determinante per favorire il reinserimento di questi giovani e aiutarli a cambiare vita? Ad esempio il lavoro?

Il lavoro e la responsabilizzazione. Vivendo della loro fatica, i ragazzi riacquistano dignità. La comunità è infatti autogestita e autofinanziata: i ragazzi devono mettere parte del loro stipendio nella cassa comune per le spese di manutenzione, gli alimenti e le bollette. Responsabilizzazione, invece, vuol dire che qui hanno dei precisi compiti da svolgere: cucinare, fare le pulizie, gestire il giardino esterno. Ciascuno ha una mansione di cui deve rispondere settimanalmente.

 

Parliamo di lei. Quali motivazioni l’hanno spinta a occuparsi di minori che hanno o hanno avuto problemi con la giustizia?

I motivi derivano dal vedere il fallimento delle carceri e la recidività alta. Il desiderio di evitare che i ragazzi, compiuti i ventun anni, vengano trasferiti nel carcere per adulti. Noi offriamo loro la possibilità di finire di scontare la pena qui in comunità, con un vero progetto educativo e di reinserimento sociale.

 

Cosa comporterebbe, per loro, il trasferimento nel carcere per adulti?

Sarebbe un guaio. Lì veramente i ragazzi si perdono. Una grossa fesseria. Si vanifica il lavoro che è stato fatto nel carcere minorile, perché quando un ragazzo entra in una compagnia di adulti, con personalità più forti della sua, è destinato a soccombere, rischia di assimilare una vera cultura malavitosa. Può diventare irrecuperabile.

 

E allora cosa ne pensa della proposta avanzata dal ministro Castelli di abbassare la soglia di punibilità addirittura a dodici anni?

A dodici anni si va ancora all’asilo! L’adolescenza è sempre più prolungata, la maturazione dei nostri ragazzi è sempre più lenta. Crescono in fretta solo dal punto di vista cognitivo, ma non affettivo, non di controllo delle proprie emozioni e quindi delle responsabilità che sono in grado di assumersi. Speriamo proprio che questa grave modifica non avvenga.

 

E dell’idea di abolire i Tribunali per i minorenni, cosa ne pensa?

Direi che la Lega non ha capito il grande progresso nella giustizia minorile avvenuto in Italia in questi cinquant’anni, soprattutto con la riforma della procedura penale del 1988. Abolire i Tribunali minorili sarebbe un grosso passo indietro.

 

Lei è anche cappellano nell’Istituto penale minorile di Quartucciu, a Cagliari: com’è la situazione lì, la vita quotidiana?

La situazione dell’istituto è abbastanza tranquilla, ci sono in media venti ragazzi di cui ben 15-16 stranieri. Tra i ragazzi, gli agenti e gli educatori c’è un buon rapporto, ma la pena più pesante è la condanna all’ozio: i ragazzi svolgono poche attività perché dal Dipartimento della Giustizia minorile stanno restringendo sempre più i finanziamenti.

Quali sono le difficoltà – e le differenze – di reinserimento dei ragazzi italiani e di quelli stranieri?

La nostra esperienza è positiva. In questo momento, tra gli otto ragazzi presenti nelle nostre comunità, metà sono stranieri. Certo, ci sono dei momenti difficili, ma tutto sommato c’è grande rispetto, grande attenzione gli uni verso gli altri. Noi lavoriamo molto sulle differenze, per mettere in evidenza l’arricchimento vicendevole che si ricava nel confrontarsi su religioni, culture e ideologie diverse, quindi credo che queste comunità miste siano un piccolo segno di come è possibile vivere nel rispetto delle diversità: si tratta di accoglienza, più che di tolleranza.

 

Per uscire dalle proposte sulla giustizia minorile che non vadano solo nella direzione repressiva, c’è qualcosa che si potrebbe fare per migliorare l’attuale situazione?

Si può attuare tutto quello che le leggi propongono come misure sostitutive e alternative al carcere, però bisogna creare nuove strutture: invece di costruire altri penitenziari, bisognerebbe ampliare comunità come le nostre, perché i ragazzi e i giovani adulti scontino la pena fuori dal carcere. Certamente sotto controllo, nell’ambito di progetti di educazione e di reinserimento sociale, però fuori. Per questi ragazzi il carcere è veramente da abolire, oppure va lasciato solo in modo residuale, per le situazioni più gravi, per un piccolo periodo di assunzione di responsabilità. Ma poi, se vogliamo portare avanti un discorso educativo, dobbiamo agire gradualmente fuori dalle carceri: il vero reinserimento si fa fuori, non dentro. In fondo credo che quando un ragazzo finisce di scontare la sua pena in carcere, questo rappresenti un fallimento, perché ci sono tante misure di cui si può usufruire, ma purtroppo mancano le strutture e le risorse finanziarie. Anzi, i soldi nelle carceri vengono spesi malissimo, vista la produzione e la riproduzione continua di devianza e delinquenza che si genera all’interno degli istituti di pena.

 

"Io e don Ettore". La testimonianza di Francesco

Ho sempre avuto un senso di diffidenza verso la chiesa, ma con don Ettore è stato tutto diverso. L’ho conosciuto nell’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu, dove ho trascorso tre anni. Lui non mi ha giudicato, non mi ha inflitto arringhe né strazianti paternali. No, lui ha sempre saputo come prendermi e rendermi orgoglioso delle cose che so fare, anche se poche e apparentemente banali. Per me è stato molto importante incontrarlo: mi ha insegnato a cercare i lati positivi anche nelle cose più brutte, e le sue visite facevano andare meglio la mia giornata e anche quelle successive.

Qualche anno fa sono stato trasferito nel carcere di Padova, ma con don Ettore siamo sempre rimasti in contatto. È persino venuto a trovarmi "in continente", come diciamo noi sardi, e poi abbiamo un progetto e un obiettivo comuni: lui è disposto ad accogliermi, e io sarò felice di far parte del suo gruppo e rimanere nella sua comunità anche una volta terminata la pena.

Nel periodo trascorso in permesso alla Collina sono stato benissimo, sia con lui che con gli altri che lì abitano e lavorano. Lì non c’è bisogno di isolarsi per trovare la tranquillità interiore, ci sono talmente tante cose da fare... Le porte sono sempre aperte, gli spazi ampi e senza limiti alla vista. E la vita quotidiana si basa su due pilastri: la fiducia reciproca e, soprattutto, la certezza che c’è sempre qualcuno su cui contare.

 

Comunità La Collina

Località S’Otta

09040 Serdiana (CA)

Tel. 070743923

 

 

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