Le discussioni di "Ristretti"

 

Latino e filosofia non perdono colpi

È proprio in carcere che queste materie riescono ad appassionare gli studenti

 

È strano, ma in carcere ritrovano un senso materie, esperienze, conoscenze che fuori, a scuola, sembrano spesso svuotate di significato. E gli studenti, dentro, ritrovano quelle energie e quelle curiosità, che i ragazzi che frequentano le scuole "regolari" fuori pare abbiano perso da tempo. La prima esperienza di cui parliamo riguarda l’insegnamento del latino, e ci arriva dalle pagine di "Espressioni", il giornale del carcere di Lucca: a raccontarla è un insegnante che accetta la sfida di dedicare del tempo a spiegare ai suoi studenti detenuti che cos’è il latino, e come è fatta questa lingua. La seconda esperienza riguarda l’insegnamento della filosofia, e uno strano corso avviato ad Avellino, con un titolo ironico, "Prenderla con filosofia". Anche qui a raccontarcela è un insegnante. Ad accomunare queste due esperienze c’è il fatto che in carcere, più che nella scuola "libera", ci si ritrova inaspettatamente con un pubblico attento e concentrato. Proprio perché in galera sono tanti a riscoprire il senso e l’importanza dello studio, e a cercare di recuperare tutte quelle conoscenze che forse, durante l’adolescenza, erano considerate inutili e noiose.

 

La Redazione

 

Latino nella Casa circondariale di Lucca

 

Ho insegnato italiano ai detenuti stranieri della Casa circondariale S. Giorgio dal 1997 alla fine del 2003. Sono stati sette anni importanti della mia vita, in cui ho conosciuto decine e decine di uomini provenienti da ogni continente, ognuno con una storia particolare, e in possesso di competenze culturali e linguistiche diverse. Ognuno con una breve e indefinibile prospettiva di permanenza nella Casa circondariale, di solito in attesa del processo, per poi venire trasferito altrove.

Quando ho iniziato mi chiedevo in primo luogo come avrei fatto a formare un gruppo con cui poter lavorare con un minimo di continuità, e in più a gestire un’aula in cui sarebbero confluiti analfabeti totali accanto a chi invece se la cavava già bene. Di fronte a questi due problemi mi sentivo inadeguato. Mi domandavo che interesse poteva mai suscitare in chi lo seguiva un corso che sarebbe potuto finire da un giorno all’altro, e dove chi non sapeva una parola d’italiano stava a fianco di chi parlava correttamente.

All’inizio il più incerto ero io: pensavo che nei loro panni me ne sarei rimasto in cella a dormire, o piuttosto che avrei sfruttato l’ora d’aria invece di rinchiudermi in un’aula scolastica.

Un giorno però sono stato messo alla prova: qualcuno mi chiese cos’era il latino. Dentro di me pensai che quella curiosità esulava dai nostri limitati obiettivi linguistici, ma mi accorsi anche che tutti si aspettavano una risposta dal loro insegnante, e che nessuno voleva sentirsi dire che a loro il latino non sarebbe mai servito a nulla e quindi tanto valeva soprassedere. Capii che da come avessi risposto si sarebbero sentiti detenuti a tutti gli effetti o uomini liberi almeno di fare delle domande.

Durante la lezione di latino che seguì non si sentì volare una mosca. Anche loro sapevano che di quella lingua morta probabilmente non avrebbero mai più sentito parlare in vita loro, ma proprio per questo si gustarono quelle parole come un dono raro. Anche chi probabilmente non capiva quasi nulla seguì attentamente i miei movimenti e la convinzione con cui espressi quei concetti, e si lasciò convincere dalla mia buona volontà.

Il problema in carcere non è cosa insegnare, ma come farlo. Tutti gli uomini che ho incontrato in questi sette anni mi hanno testimoniato che imparare a scrivere, leggere, e in una parola condividere un percorso formativo, è per loro un bisogno primario. Proprio quando sembra che quasi tutto sia perduto, potersi misurare da pari a pari con un estraneo o collaborare con i compagni in difficoltà nell’apprendimento, aiuta a far ritrovare la dignità e la voglia di riscoprire un proprio ruolo positivo nel mondo.

Marco D’Alessandro

 

Prenderla con filosofia

 

Nella Casa circondariale di Bellizzi Irpino (Avellino) è in corso da alcuni anni l’esperienza di un laboratorio di "Filosofia e Quotidianità" destinato ai ristretti, organizzato dal SEAC Campania, in collaborazione con la Caritas diocesana e la sezione avellinese della Società Filosofica Italiana.

Fare "filosofia fuori le mura" (fuori, cioè, dai consueti circoli accademici e scolastici) e per di più in un contesto quale quello carcerario, fortemente caratterizzato e caratterizzante, mirava a utilizzare le enormi potenzialità del dialogo filosofico inteso quale costante provocazione a pensare, attività peculiare ad ogni soggetto vivente.

L’espressione da noi adottata quasi come uno slogan, Prenderla con filosofia (così usata nel linguaggio corrente ma altrettanto fraintesa), intendeva essere una forma di provocazione per catturare la curiosità e l’attenzione dei detenuti, ma col passar del tempo ha evidenziato spessore e valenza formativa connessi alla specificità di una disciplina che paradossalmente si pone come obiettivo quello di insegnare "l’arte della fuga". Quale provocazione migliore e più accattivante per dar vita ad un laboratorio che avesse quale tema di riflessione e di confronto la QUOTIDIANITà, in tutti i suoi risvolti e coinvolgimenti umani, psicologici, sociali e politici?

E sono proprio le parole di un detenuto: "Abbiamo tanto tempo per pensare e riflettere", a sottolineare la necessità di un laboratorio filosofico in ambito carcerario, per aiutare i detenuti a non sentirsi solo osservati ma anche osservatori di se stessi, delle proprie vicende e di un’esperienza comunitaria così particolare. Tale esperienza pone ciascuno come innanzi ad uno specchio, dove ci si vede, ci si ritrova, ci si riconosce, si prende consapevolezza, si rilegge il proprio copione esistenziale, ponendo le premesse per correggerlo o ristrutturarlo. Operazioni queste che, fatte in solitudine, non sortirebbero lo stesso effetto, anzi rischierebbero di accentuare gli effetti devastanti dell’isolamento: deprimere, incattivire e rendere molto più problematico quel percorso di risocializzazione e di integrazione di cui tanto si parla.

Il dialogo socratico, invece, come provocazione a pensare e a confrontarsi, induce a soffermarsi su quella quotidianità tanto alienante e frustrante per conferirle nuovo senso, investendola di domande che sollecitano la ricerca di risposte più convincenti e, soprattutto, condivise.

A questo proposito, appare illuminante quanto è emerso da un dialogo relativo al processo di integrazione e di reinserimento. La problematica, discussa e analizzata con pacatezza e lucida consapevolezza dai detenuti, affrontava, tra l’altro, e denunciava l’ambiguità contenuta in questi termini: la violenza, il buonismo ipocrita e il tentativo di colpevolizzare sempre e comunque i detenuti per giustificare e autoassolvere le inefficienze e le inadempienze di un intero sistema sociale. Non meno interessanti si sono rivelate le argomentazioni scaturite nell’affrontare problematiche - squisitamente filosofiche - relative alla certezza, alla verità, alle libere convinzioni, alla legalità e al libero arbitrio.

Gli interlocutori, seppur sprovvisti di pre-requisiti di carattere culturale, hanno dimostrato di essere in pieno possesso di tutti gli strumenti per affrontare temi esistenziali e prendere consapevolezza di essere loro stessi portatori di una FILOSOFIA che è ispiratrice di scelte e di assunzione di responsabilità.

Dalle testimonianze dirette e indirette di questa esperienza laboratoriale emerge un dato fondamentale da cui non si può prescindere: nell’universo carcerario è oltremodo necessario un investimento di tipo culturale; è urgente lanciare una sfida di ordine etico che veda coinvolta tutta la società nell’attivare metodi, mezzi, saperi atti a prevenire e a interrompere la spirale del "male".

Lo sviluppo sociale e la formazione degli individui - la civitas e la civilitas - procedono di pari passo, si intrecciano e richiedono grossi investimenti sulle persone, ed in particolare sul potenziamento delle loro capacità, quanto mai necessarie a riflettere sulla quotidianità per investirla di senso e non subirla come ineluttabile.

Il laboratorio di filosofia ha offerto ai detenuti, ma soprattutto a me, l’opportunità di constatare e di esplicitare come tutti debbano essere coinvolti in un progetto-processo che non può limitarsi a pura e semplice operazione di trasmissione/assimilazione di un sapere codificato, ma essere un’operazione di ripensamento, di rivitalizzazione e ricostruzione di senso, di rottura e di continuità.

I detenuti, in quanto persone, sono portatori di un vissuto ricco e problematico, espresso in bisogni identitari fortemente strutturati che sfociano in una vera e propria filosofia di vita; essi hanno elaborato sul campo parametri e categorie valutative in grado di orientare le loro scelte in piena autonomia e responsabilità. Non hanno, pertanto, da apprendere "nuovi saperi", né sono ben disposti a ricevere "lezioncine". L’unico approccio possibile è quello di riconoscere la loro dignità di persone e nutrire per essi il massimo rispetto, se si vuole che si mettano in discussione e siano disposti ad accettare il conflitto socio-cognitivo. Solo così saranno in grado di elaborare, lentamente, nuovi e più condivisibili paradigmi interpretativi della realtà sociale e comunitaria.

A questo punto appaiono in tutta evidenza l’opportunità e l’efficacia di un laboratorio di filosofia, e in generale di iniziative a carattere culturale, da svolgersi proprio in carcere dove, nonostante le condizioni di isolamento e di forte limitazione della libertà, può farsi strada la cultura del dialogo, dell’ascolto e della reciprocità, necessaria perché ciascun detenuto si riappropri della sua identità e si faccia protagonista di un nuovo, personale progetto di vita.

Un’ultima, ma non meno importante riflessione scaturisce da questa esperienza: il ruolo formativo che riveste la comunità, da intendersi come comunità educante, crocevia di relazioni, dove ci si incontra, ci si confronta anche animatamente e in cui ognuno è in grado di elaborare e formulare la propria scala valoriale, nutrita di orientamenti validi e fortemente condivisi.

Il carcere infatti non è un "mondo a parte" né "l’altro mondo", ma è parte integrante della società che noi tutti, con apporti diversi, contribuiamo ad arricchire o impoverire e di cui non possiamo non ritenerci corresponsabili.

Per la forte carica emotiva e le molteplici implicazioni umane, culturali e sociali, l’espressione di don Milani "I CARE", mi sembra quanto di più opportuno si possa indicare per lanciare a tutti un pressante invito a prestare la dovuta attenzione all’universo carcerario e alle sue problematiche.

 

Luigi Iandoli

 

Su un muro della mia scuola c’è scritto "I care", è il motto dei migliori giovani americani, significa mi interessa, mi importa, è il contrario del motto fascista "Me Ne Frego"… 

 

Don Lorenzo Milani

 

 

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