Incontro con Antonio Stivanello

 

Con Antonio Stivanello, direttore del Ser.T. 2 di Padova, parliamo dell'assistenza ai tossicodipendenti detenuti e delle opportunità di accesso alle misure alternative alla detenzione

 

(Realizzato nel mese di novembre 1999)

 

Ristretti

Recentemente abbiamo incontrato il dirigente sanitario dell’Istituto, al quale abbiamo chiesto informazioni anche sulla presenza del Ser.T. in questo carcere. Ci ha detto che la vostra presenza è limitata perché avete deciso di occuparvi solo dei tossicodipendenti attivi, cioè di coloro che sono in terapia metadonica. Questa informazione è esatta o abbiamo capito male?

 

Antonio Stivanello

La tossicodipendenza è considerata, a livello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, una malattia cronica recidivante, quindi quello che è un tossicodipendente lo rimane per tutta la vita. Può avere delle fasi di non ricaduta, più o meno lunghe, ma prima o poi qualunque tossicodipendente potrebbe ricadere.

Io, come medico delle tossicodipendenze, ti curo solo se hai un problema di tossicodipendenza. Se hai un’altra malattia, ti rivolgi a un medico diverso, il medico di base, il medico del distretto, e solo per quanto riguardala la tossicodipendenza, il metadone, le patologie strettamente correlate, vieni da me.

Anche per queste patologie correlate, come l’epatite, l’AIDS, io ti posso seguire, ma è meglio se c’è un infettivologo. Nel momento in cui abbiamo preso in mano la situazione delle tossicodipendenze nelle carceri di Padova, abbiamo detto questo: “Se nel Circondariale entrano tre tossicodipendenti al giorno, qui al Penale ne entra uno alla settimana”

I tre che entrano al Circondariale, hanno due problemi diversi. Un terzo di loro sono già seguiti da un Ser.T., o dal nostro, o da un altro. In questo caso non c’è un grosso problema, perché mi basta fare una telefonata per sapere quanto metadone prendevano, se erano 30, continuiamo a dargliene 30. Il problema più grosso ce l’hanno quelli che non sono mai andati ad un Ser.T.: in questo caso, bisogna cercare di fare una diagnosi. Per capire se è tossicodipendente, se non lo è, se dargli il metadone. Quindi c’è un lavoro notevole, sia per il medico che per lo psicologo, perché quando uno entra in carcere ed è ancora in una fase di tossicodipendenza attiva non ha tanta voglia di parlare, ha bisogno di avere una copertura sanitaria immediata, per non stare male.

Tra quelli che entrano al Penale, sono pochissimi coloro che non hanno già contatti con il Ser.T. perché, o l’hanno avuto al Circondariale, oppure entrano perché definitivi erano già in contatto con i Ser.T. all’esterno. Quindi, da un punto di vista sanitario, anche se al Penale arriva un “nuovo giunto”, è probabile che l’eroina non la usi più da un paio d’anni. Con loro il mio compito, da un punto di vista sanitario, è più leggero, non occorre che io lo veda in ogni minuto.

 

Ristretti

Le richieste che vengono dai detenuti (oltre ai farmaci) sono prevalentemente due, una riguarda l’assistenza psicologica, e l’altra la redazione dei programmi di trattamento, perché spesso che le persone dicono: “Sono già nei termini per l’affidamento, ma non posso andarci, perché manca il programma del Ser.T.”.

 

Antonio Stivanello

Quello del programma è un problema che non c’entra nulla con il discorso di tipo sanitario, per fare un programma ho bisogno di altre cose. Per prima cosa ho bisogno di sapere che la persona è davvero tossicodipendente. Perché lui lo dice, ma io non lo so con certezza. Se lui era seguito dal mio Ser.T., in questo caso non ci sono problemi. Anche se era seguito dal Ser.T. di Catania non ci sono problemi. Se quando è entrato in carcere si è dichiarato tossicodipendente e ha fatto un trattamento, anche in questo caso non ci sono problemi, perché il certificato di tossicodipendenza glielo fa il medico del carcere.

Il problema c’è quando una persona dice: “Tre anni fa ero tossicodipendente, sono entrato in carcere ma non lo ho dichiarato”. Qui diventa difficile fargli la dichiarazione di tossicodipendenza. Questo per quanto riguarda la certificazione.

Per quanto riguarda il programma, anche qui ci sono due possibilità. Prima possibilità: la persona è di Padova, ed ha la residenza Padova: il programma dobbiamo farlo noi e dobbiamo assumerci la spesa per questo programma. In questo caso le cose sono veloci, quando io ho visto una volta questa persona e so che ha bisogno del programma, gli propongo diverse soluzioni.

Se ha un fine pena lungo, gli propongo la comunità, perché è più facile che il magistrato gli conceda l’affidamento in comunità. La persona può dirmi: “Io in una comunità non ci vado, neanche morto”. Allora ho un’altra alternativa, che deve prevedere i requisiti di un lavoro e di una casa. Gli chiedo: “Lei ha un lavoro e una casa?”. Se mi risponde sì, io le dico “mi mandi i suoi familiari”, perché è già successo che uno ci abbia detto “io con i miei genitori vado d’accordissimo”, e poi i genitori ci volevano denunciare perché glielo abbiamo mandato a casa.

Per quanto riguarda il lavoro, c’è lo stesso problema, se lei mi dice “Io ho sempre lavorato con mio fratello, che fa il meccanico, e mio fratello è dispostissimo ad assumermi”, io le dico: “Mi mandi suo fratello, perché deve farmi questa dichiarazione”. Poi dico fratello “abbiamo un programma, prevede che venga al Ser.T. una volta alla settimana a fare le urine, che andrà ad abitare che dai genitori e che farà questo tipo di lavoro con lei”.

Altrimenti la persona tossicodipendente deve avere un avvocato, allora attraverso l’avvocato ci chiedono la relazione, che noi mandiamo per fax, e l’avvocato poi si arrangia ad inoltrarla.

Ma c’è un’altra condizione, quando la persona mi dice “Non ho la casa, ma non voglio nemmeno andare in comunità”.

In questo caso noi abbiamo altre soluzioni, ad esempio degli appartamenti, ma più la situazione si complica, più è difficile trovare una via d’uscita da carcere. Bisogna rivolgersi alla Tina Ceccarelli, che ha due o tre appartamenti: nel momento in cui ci sono dei posti liberi mandiamo qualcuno, che poi lavora dove ora c’è disponibilità, alla Cooperativa Solidarietà, che è un’impresa di pulizie.

Nel momento in cui questa persona va a lavorare alla Cooperativa Solidarietà, se trova una diversa offerta di lavoro, io certamente non mi offendo, anzi sono contento, perché gli faccio un cambio di programma e questo posto si libera, per un altro. Abbiamo l’esempio di una ragazza, che è uscita da Rovigo, è andata a lavorare alla Solidarietà, è rimasta due giorni e mezzo e il terzo ha trovato un altro lavoro, come cameriera. Lei si diverte di più, guadagna certamente di più, e siamo tutti contenti.

Tutto questo vale finché la persona è di Padova. Se la persona è di Vicenza, io non posso dirle “Tu vai in una comunità, devo prima sentire il Ser.T. di Vicenza. Alloro dico: “Ci sarebbe questo detenuto, è nelle condizioni per andare in misura alternativa, cosa volete che facciamo? Se il programma glielo faccio io, voi poi vi assumete il costo di questo programma?”.

Gli operatori e del Ser.T.  di Vicenza, possono decidere due cose: se vogliono che il programma lo facciamo noi, e poi loro lo pagano, oppure se vogliono farselo loro. Il Ser.T. di Trieste, o quello di Roma dice sicuramente “fatevelo voi” Il Ser.T. di Monselice, può dire quello là io lo conosco e vengo a farglielo direttamente.

Il problema può nascere perché nel momento in cui io ho attivato il meccanismo, cioè ho detto al Ser.T. di Belluno, ad esempio, che c’è questa persona da incontrare, poi spetta a loro fare il passo successivo: anche se il detenuto, ogni quindici giorni, viene da me a chiedere perché il programma non viene fatto, io più che telefonare e sollecitare il Ser.T. di Belluno non posso fare. Io non posso più fare il programma al posto suo. Non posso più mandare il tossicodipendente in una comunità, perché, se lo mando, il Ser.T. di Belluno può dirmi “Va bene, allora pagategliela voi”.

 

Ristretti

In genere, se una persona è in carico ad un Ser.T. lo sa benissimo. Come succede alla Giudecca, dove ci sono molte donne tossicodipendenti, a volte mi chiedono di telefonare al Ser.T., deve magari le conoscono benissimo e conoscono la loro situazione, ma a volte non danno la disponibilità, perché magari avevano già un programma e non lo hanno rispettato.

 

Antonio Stivanello

La situazione peggiore è, invece, di quello che non è mai andato il Ser.T.: non conosce nessuno e non scrive al Ser.T., scrive a me, perché sa che mi occupo di carcere e, all’interno del carcere, le voci circolano, così mi scrive anche chi non dovrebbe.

Oltre a tutto questo, c’è un’altra questione, chi è quella delle comunità. Molti detenuti, dopo aver scritto al Ser.T., senza avere risposte, si rivolgono direttamente alle comunità. Dalla comunità rispondono che sono disponibili a prendere le persone, perché nel momento in cui le prendano loro hanno anche la retta. È molto difficile che una comunità dica di no. A questo punto un nasce un altro problema, perché il tossicodipendente non capisce come mai, se la comunità è disposta a prenderlo, non si muove nulla e non riesce ad andarci. Magari il problema è che il suo Ser.T. non ha più i soldi per pagare questa comunità, oppure deve fare una sua valutazione, perché magari dice “Questo l’ho già mandato sette volte in comunità, non gli paghiamo anche l’ottava”. Così si crea una situazione di tensione o, comunque, di notevole malessere.

Voi sapete che la regione dà i soldi sulla base di alcuni criteri: uno di questi è la popolazione, e va bene. Un altro criterio è che i finanziamenti maggiori arrivano alle zone pedemontane e nelle isole. Noi abbiamo delle esigenze maggiori, rispetto al Ser.T. di Monselice, ad esempio, anche in base alla popolazione, perché abbiamo un carcere. Se io ho un finanziamento sufficiente a garantire il ricovero in comunità per i tossicodipendenti di Padova, mi trovo in difficoltà quando, a quelli presenti sul territorio, si aggiungono quelli in carcere, dove ovviamente la percentuale di tossicodipendenti è maggiore, rispetto alla città.

 

Ristretti

Quando la regione attribuisce i finanziamenti, non prevede in alcun calcolo la presenza del carcere nel territorio?

 

Antonio Stivanello

No, i costi sanitari maggiori sono calcolati solo rispetto alle isole e alla pedemontana perché, ad esempio, un’autoambulanza ha un costo maggiore se deve andare via mare.

Se abbiamo due detenuti, uno di Padova e uno di Verona, io faccio più volentieri il programma a quello di Padova, perché prima o poi lui esce e, se non ha la casa e il lavoro adesso, non li avrà nemmeno quando esce. Siccome io mi occupo di carcere e anche di bassa soglia, lo lascio come carcere, ma lo ritrovo come bassa soglia, fuori. Così è meglio provare a fare un programma adesso, perché con una scusa che è in alternativa alla pena, quindi che è un po’ più controllato, chissà che non me lo perdo anche come bassa soglia: inizio il programma e, magari, attraverso questo programma si sistema. Con quello di Verona invece, faccio più fatica, perché come faccio a mettere in conto al Ser.T. di Verona anche la casa e il lavoro? È difficile che lo faccia andare in un appartamento, che era organizzato per Padova, e alla Cooperativa Solidarietà. Anche perché poi, finito questo percorso, lui dove va? Torna Verona. Allora dev’essere Verona che organizza questa cosa e, per quanto si pensi, noi abbiamo un’organizzazione che è infinitamente superiore a quella degli altri Ser.T.. Aspettarsi che un Ser.T. periferico, come quello di Treviso o di Belluno abbia la possibilità di trovare un appartamento e un lavoro per chi è in carcere, è praticamente impossibile, non c’è quasi mai successo.

Gli stranieri hanno qualche problema in più. Voi sapete che adesso gli stranieri hanno diritto all’assistenza anche per quanto riguarda la tossicodipendenza, anche se sono irregolari. Prima, se uno veniva al Ser.T. e diceva “Io sono un extracomunitario, senza fissa dimora”, io non potevo dargli il metadone. Oggi posso dargli il metadone, ce l’ha il giorno stesso, e continua a prenderlo: ha diritto all’assistenza per quanto riguardala la prevenzione la cura e la riabilitazione. Sembrerebbe tutto chiaro, invece non è così.

Perché, quando la regione distribuisce le varie quote alle ASL, stabilisce che queste quote siano per i residenti nella regione. La regione non riconoscere ai Ser.T. il pagamento delle rette in comunità per gli extracomunitari non residenti.

Gli italiani, per la maggior parte, hanno una casa e una famiglia, quindi un posto per dormire e magari un lavoretto. Se invece uno è extracomunitario, senza fissa dimora, non ha un posto per dormire, né un lavoro. Allora, l’unica possibilità di ottenere una misura alternativa, di fatto, è quella della comunità. Ma a lui la comunità non gliela pagano, quindi questo per noi è un grossissimo problema che, prima, abbiamo sollevato a livello verbale e, adesso, lo stiamo facendo per scritto, perché la regione non ha ancora assunto una posizione chiara in proposito.

 

Ristretti

Avete preso, con la regione, una posizione ufficiale al riguardo?

 

Antonio Stivanello

Quello che io ho chiesto e che i Servizi Sociali facciano una lettera, per chiedere una chiarificazione della Circolare Ministeriale n° 5 del 2000: se le comunità vadano considerate “riabilitazione”, oppure no.

 

Ristretti

Dite che, per quanto riguarda l’assistenza, i farmaci, li fornite anche agli irregolari. Recentemente è uscito un articolo, sulla rivista del Gruppo Abele, nel quale si diceva che questa legge, in realtà, viene applicata da pochissimi Ser.T.. Ad esempio, a Torino, è soltanto uno il Ser.T. che dà effettivamente assistenza agli stranieri irregolari. C’è una discrezionalità, in questo.

 

Antonio Stivanello

La discrezionalità sta solo in questo: se viene da me uno che dice sono extracomunitario, non ho una residenza, io gli faccio fare l’esame delle urine, l’esame del sangue e, accertato che era tossicodipendente, stabilisco con lui quanto metadone gli è necessario, quindi lui ha subito il metadone. In un altro Ser.T. gli fanno l’esame del sangue, l’esame delle urine, e gli dicono “per il metadone ripassa tra una settimana”. In un altro Ser.T., di cui non faccio un nome, ma sempre in regione, è successo che, a una ragazza di 45 anni, hanno chiesto di tornare accompagnata dai genitori, se voleva il metadone. Questa ragazza era fuori casa da 20 anni…

Questa è la discrezionalità e, all’interno di questa discrezionalità, io posso fare una grossa differenza.

Poi, c’è un altro problema: io che vivo regolarmente in Italia ed ho un mio lavoro, ad un certo punto ho delle difficoltà fisiche, psicologiche, d’ambientamento, e comincio a fare uso di sostanze stupefacenti. E questo è legato al fatto che ho delle ragioni psicologiche a monte, è chiaro che devo avere una terapia non solo farmacologica, ma anche psicologica.

Ma se io sono venuto via dalla Tunisia perché non avevo una lira, sono venuto in Italia per cercare un lavoro ma questo lavoro non lo trovo e dopo un po’ trovo uno che mi dice: “se vendi un paio di bustine mangi”, io vendo queste bustine e, siccome le ho in mano, prima o poi le provo. Ma quando le provo, mi metto nei guai, perché poi c’è la dipendenza fisica. In questo caso non ho bisogno del supporto psicologico, non ho bisogno di uno che mi parli della madre, della famiglia, ho bisogno soltanto di mettermi a posto dal punto di vista fisico e di un sostegno sociale, sotto forma di una casa, di un lavoro, di una sistemazione normale.

 

Ristretti

All’inizio, però, lei diceva che la condizione di tossicodipendenza si caratterizza per la cronicità e la recidiva, quindi uno può anche essere diventato veramente tossicodipendente.

 

Antonio Stivanello

L’Organizzazione Mondiale della Sanità è composta da scienziati che si sono formati in Occidente e, il più delle volte, stanno economicamente bene. Se una persona la metti nella condizione che, l’unica cosa che può fare per vivere, è quella di vendere sostanze stupefacenti, questa prima o poi potrà ricadere. Ma non è una persona che rientra negli schemi di tossicodipendenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se, invece, questa persona ritorna in Tunisia, non cacciata, ma in una situazione più che decorosa, trova un lavoro in Tunisia e viene guardata, non come un rimpatriato con disonore, nel disprezzo, ma come uno che è tornato perché guadagna bene, perché ha un lavoro e una casetta, questa non userà più droga.

 

Ristretti

Il concetto di tossicodipendenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è legato a una concezione tradizionale di tossicodipendente e non alle condizioni attuali degli stranieri immigrati.

 

Antonio Stivanello

Quando si parla di extracomunitari e di immigrati si dimentica di dire una cosa. C’è una bella differenza tra l’immigrato che viene qua ed ha già un lavoro, da quello che viene con un gommone, all’avventura. In questo secondo caso vuol dire che ha alle spalle una situazione che può essere di due tipi: o è disastrosa dal punto di vista politico o sociale, oppure che è arrivato ad un livello totale di incapacità a sostenersi dal punto di vista alimentare, per cui scappa dalla miseria. Succede, spesso, di persone arrivate dal Nord Africa che, con le rimesse, mantengono due famiglie.

Concludendo, per i detenuti stranieri tossicodipendenti, abbiamo questi due problemi. Il primo è che la misura alternativa della comunità per il momento non è praticabile. L’inserimento in appartamenti è molto difficile, l’abbiamo fatto solo con qualcuno che era regolare, che aveva un permesso di soggiorno, e che si era messo nei guai in seguito. Per gli irregolari è estremamente difficile una sistemazione di questo tipo. Quella che è l’ipotesi, che stiamo percorrendo, è di dire: perché non proviamo a fare degli accordi, dei gemellaggi, con alcuni Stati. Ad esempio, si potrebbe costituire, a Padova, delle cooperative che possano insegnare un lavoro che poi sia possibile fare a Tunisi. Attraverso i fondi della cooperazione internazionale sostenere, poi, la nascita di una cooperativa a Tunisi. Quindi al tossicodipendente tunisino poi dire: “Invece di stare in carcere, vieni in questa cooperativa, dove puoi imparare un lavoro che poi può essere esportato in Tunisia. Finita la tua pena, non torni in Tunisia a mani vuote, ma ricevi un premio di buona uscita, se hai lavorato per due anni in alternativa, e poi lì ti assumono, con un reddito sostenibile”.

 

Ristretti

Bisognerebbe però capire in quali Stati ci sono le condizioni politiche e sociali per realizzare questi progetti, che sarebbero forse la soluzione ideale, per coloro che non si possono regolarizzare in Italia e, piuttosto di andarsene con l’espulsione, troverebbero un modo dignitoso di tornare in patria.

 

Antonio Stivanello

Voi sapete che adesso, ad esempio, il Marocco ha chiesto la riduzione del debito con l’Italia. Allora, bisogna entrare in questi accordi e chiedere al Marocco, in cambio della riduzione del debito, la costituzione di alcune cooperative, nelle quali assumere delle persone che rientrano dall’Italia.

Ristretti

Se uno straniero tossicodipendente trova una comunità disposta ad ospitarlo gratuitamente, può andarci?

Antonio Stivanello

Certamente, può andare senza nessun problema. Abbiamo delle situazioni, qui all’interno dell’istituto, per le quali sembra stia andando a buon fine una regolarizzazione. Ad esempio, c’è una persona che, prima di entrare in carcere, aveva una convivente e questa si è dichiarata disponibile a dargli alloggio quando esce. Noi gli abbiamo trovato un lavoro e, basandosi sul sostegno di questa convivente, può strutturare una situazione di residenza a Padova.

Ristretti

Non sarebbe possibile che gli stranieri irregolari, ai quali la regione non paga la retta in comunità, se la paghino direttamente, lavorando all’interno della comunità stessa?

 

Antonio Stivanello

Le rette variano dalle 90 alle 140 mila lire al giorno. Comunque, abbiamo già sperimentato una situazione simile: avevamo sistemato una persona in appartamento e le avevamo trovato un lavoro, con l’accordo che contribuisse, parzialmente, al costo dell’alloggio. Per un po’ questa persona è andata a lavorare, poi ha lasciato il lavoro e l’appartamento, non l’abbiamo più vista.

 

Ristretti

Per gli italiani che sono in carcere da anni, è abbastanza semplice prendere la residenza nella città del carcere in cui sono detenuti. Per me, ad esempio, sarebbe facile prendere la residenza a Padova, invece mi ostino a tenerla a Torino, dove sono andato ad abitare emigrando dalla Puglia. Lei cosa ci consiglia, per quello che riguarda l’accesso alle misure alternative con e la Ser.T.. È meglio chiedere la residenza nella città in cui si è detenuti, o conservare quella nella città di provenienza?

 

Antonio Stivanello

Se lei è residente a Torino, io telefono alla Ser.T. di Torino e quelli mi dicono: “sì, scriveremo”. Ma, se poi non si fanno vivi, ogni due mesi lei torna a chiedermi di richiamarli. Se loro non si muovono, io non posso farci niente. Se lei, invece, prende la residenza a Padova, il responsabile per fatto che non ha un programma sono io. Poi c’è da dire che, fatto il programma, non è finita lì, perché il magistrato può dire comunque “no, tu stai dentro”. In quel caso io sono a posto, comunque, perché il programma l’ho fatto.

 

Ristretti

Può quantificarci, in termini di ore e di personale impiegato, la vostra presenza all’interno di questo carcere? Perché, nonostante adesso ci siamo confrontati con voi sui problemi che avete, abbiamo sempre presente anche le ragioni dei compagni che si lamentano spesso dalla vostra “latitanza”.

 

Antonio Stivanello

Anzitutto dobbiamo considerare che noi non abbiamo molto personale e, quindi, non siamo in grado di offrire, se non in alcune situazioni molto particolari, tutti i supporti psicologici o psicoterapeutici Non abbiamo le forze per farlo. Quello che stiamo portando avanti è un programma metodico, impostato all’inizio dell’anno: ogni detenuto deve essere visto all’entrata e ad ogni detenuto viene fatto un programma di possibile alternativa alla pena.

Su questo punto sono brutale, perché se uno ha un “fine pena mai” e un altro il fine pena tra sei, mesi, io mi occupo del secondo. Ci sarebbe la necessità anche di interventi per affrontare i problemi psicologici, di sostegno, ma noi non ce l’abbiamo.

Quello che riusciamo a fare è di vedere tutti e di fare un programma, che può anche consistere nel dirci “ci vediamo tra sei anni”, perché magari la persona è un ex tossicodipendente, nel senso che non si fa più da due tre anni, non è nei termini per avere le misure alternative, e magari ha i colloqui con la famiglia. Forse avrebbe bisogno anche di un sostegno psicologico, ma in questo momento noi non siamo in grado di darlo.

Se la persona dipende da un altro Ser.T., in questo caso, se è nei termini per le misure alternative, contattiamo quel Ser.T. perché faccia il programma.

Se la persona è nei termini e, invece, dipende da noi, il programma spetta a noi farlo. In tutti questi casi facciamo il nostro intervento, ma da qui a dire che le persone siano soddisfatte, certamente ce ne passa. Perché, se io sono di Tunisi e potrei andare in una comunità, faccio fatica a capire motivo per cui la regione non mi ci manda.

Però non succede che una persona arrivi al giorno in cui gli hanno fissato la Camera di Consiglio per l’affidamento senza avere il nostro programma, o che sia nelle condizioni per andare in detenzione domiciliare e le manchi il programma del Ser.T..

Per quanto riguarda il personale, oltre al sottoscritto, abbiamo una psicologa, che è Emanuela Pegoraro e dedica quasi tutto il suo tempo al carcere. Poi abbiamo un’educatrice, che si occupa del laboratorio di ceramica della Sezione a Custodia Attenuata.

Inoltre c’è il presidio, costituito da 4 psicologhe, di cui 3 lavorano part time, e dal medico, che lavora sei ore al giorno. Questo medico, secondo noi, dovrebbe occuparsi solo di tossicodipendenza, quindi se una persona ha mal di denti non va da lui, ma va dal dentista, e forse questo forse non è ancora ben recepito.

 

 

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