Incontro con Salvatore Pirruccio

 

Come cambia un carcere quando arriva un nuovo direttore?

 

(Realizzato nel mese di settembre 2002)

 

 

Abbiamo cercato di capirlo "interrogando" il nuovo direttore della Casa di Reclusione di Padova

 

Salvatore Pirruccio è il nuovo direttore della Casa di Reclusione di Padova. Arriva dal carcere di Tolmezzo, che ancora dirige. L’abbiamo incontrato in redazione, e "interrogato" sul ruolo dell’informazione dal carcere, sulle misure alternative, sui problemi dei detenuti stranieri, sul volontariato, sul rapporto tra sicurezza e trattamento.

 

Vorremmo cominciare chiedendole che ruolo attribuisce alla nostra attività. Il fatto è che, facendo informazione, un po’ dappertutto si è bersagliati, fuori ma ancora di più all’interno di un’istituzione rigida come il carcere. Noi crediamo che in questa situazione sia molto importante avere un riconoscimento del proprio ruolo, anche per lavorare con maggiore serenità, e vorremmo sapere da lei che ruolo attribuisce alle realtà dell’informazione in un contesto come questo.

Quello dell’informazione è sempre stato un campo molto delicato, perché con l’informazione si raggiungono e si modificano i modi di pensare soprattutto di quelle persone che hanno una strutturazione non forte, non carismatica. Dicevate che l’informazione dà fastidio, può suscitare critiche. Certo, perché è uno strumento molto forte, molto più forte della forza fisica, se vogliamo. Per quel che riguarda l’informazione che proviene da un ambiente chiuso, ristretto come può essere il carcere, non c’è ombra di dubbio che vi è una componente maggiore che ingenera critiche da parte di tutti, perché sappiamo bene, per esempio, come a volte la società esterna la pensi sull’esecuzione penale. Quante persone cosiddette "civili", quando gli parli di detenuti, dicono: "Quello ha sbagliato, sta in carcere, lasciatelo li, buttate la chiave, deve pagare…". Bisogna allora dire che, venendo da un ambiente come il carcere, l’informazione incontra notevoli ostacoli nel far breccia, come qualsiasi altra problematica connessa al carcere, almeno fino a quando la persona a cui è rivolta questa informazione non ha fatto un passo avanti. Cioè fino a quando non ha conosciuto la realtà carceraria, non dico dall’interno come operatore, non come detenuto naturalmente, ma non abbia affrontato e non abbia avuto a che fare con i problemi che provengono dal carcere. Le persone che parlano in questo modo sono quelle che non conoscono e non vogliono conoscere il carcere, né le problematiche di chi ci vive dentro, e allora uno dei modi di operare per avere meno critiche possibili ed essere apprezzati nella propria qualificazione, è quello di essere il più obiettivi possibili, di avere una libertà di pensiero tale da criticare determinate prese di posizione, determinate aree della società esterna, ma se necessario occuparsi seriamente e dunque fare critica anche di quello che riguarda l’altra parte, in questo caso la parte vicina ai detenuti.

 

Parliamo del ruolo del volontariato, della sua importanza. Questa è una Casa di Reclusione, con un volontariato molto attivo e molto poco tradizionale, lei si sarà fatto senz’altro una sua opinione in proposito.

In una Casa di Reclusione, avendo persone che devono scontare lunghe pene, è giusto avere molte attività, è giusto che la società esterna sia sensibile, perché se dobbiamo risocializzare, non dico rieducare perché la parola non è bella, ma restituire alla società esterna persone che non tornino a fare quello che hanno fatto prima, bisogna che la società esterna si occupi di queste persone. Il problema è semmai come si può entrare da volontari in una struttura così difficile, chiusa, protetta.

La struttura penitenziaria vive 24 ore al giorno, è come un ospedale, non si ferma mai, è una struttura pesante, chiusa, con delle regole talvolta ferree, anche se ci sono le eccezioni. Allora chi viene da fuori, secondo me, deve inserirsi in modo armonico, non deve andare a turbare quella che è la vita interna, non deve assumere comportamenti che sono in contrasto con la vita interna. Questo non vuol dire che deve passivamente adeguarsi: si può discutere, si possono prendere iniziative e cambiare determinate cose, però questo va fatto sempre in maniera adeguata, in maniera concorde a coloro che sono qui per mantenere in piedi la struttura, altrimenti si rischia di finire nel caos.

Poi c’è un’altra considerazione: molte volte, ma sia chiaro che non mi riferisco a Padova, anche perché conosco da poco questo carcere, i volontari si inseriscono in una struttura penitenziaria credendo, in maniera errata, di andare a fare gli avvocati dei detenuti, la difesa dei diritti civili dei detenuti. Questo è quanto di più sbagliato possa fare un volontario, perché per la legalità in carcere, per la difesa dei diritti dei cittadini, detenuti in questo caso, ci sono le istituzioni, e non siamo nelle galere in cui si somministravano chissà quali punizioni. Insomma, per quanto brutto possa essere il carcere non siamo più a quei tempi.

 

Diciamo che a volte possono esserci delle lacune in questa difesa dei diritti. Basta ricordare i fatti di Sassari, ad esempio (N.d.R.: agenti accusati di aver pestato dei detenuti).

Quegli episodi fanno tornare indietro di cento anni la società civile, tanto per cominciare. E’ giusto che la magistratura intervenga ed è giusto sanzionare i colpevoli, buttarli fuori, perché non possiamo lavorare facendoci coadiuvare da quelle persone.

 

Ma c’è anche da dire che le attività cosiddette trattamentali spesso si reggono sull’apporto del volontariato, perché l’istituzione non riesce a provvedere.

Si reggono sul volontariato, ed è vero, perché purtroppo l’amministrazione non è in grado di garantire un numero cospicuo di operatori trattamentali all’interno delle carceri. Tanto per fare un esempio, visto che siamo a Padova ed è una Casa di Reclusione, che dovrebbe essere favorita rispetto al circondariale, è giusto che ci siano solo due-tre educatori?

Ce ne vorrebbero 25-30, perché se io ho 6-700 definitivi e li devo "trattare", a parte le pratiche burocratico-amministrative, osservazione, sintesi etc, che consentono ai detenuti di ottenere misure alternative, oltre a questo la vita giornaliera del detenuto deve essere seguita dagli operatori del trattamento, che sono gli educatori. Un’esperienza abbastanza buona, ma che da dieci anni oramai non conosco più, è quella dei carceri minorili. Io ho prestato servizio per circa 10 anni al Malaspina di Palermo, e lì gli educatori cominciavano a lavorare la mattina alle 8 e terminavano la sera alle 20, in due turni ovviamente, però stavano tutto il giorno, anche di domenica, coi ragazzi. Conversavano e giocavano a pallone con loro, studiavano assieme etc.

Naturalmente l’adulto ha necessità diverse, su questo non c’è dubbio, però dobbiamo pensare, se vogliamo che qualcosa funzioni, all’inserimento della figura dell’educatore - e dello psicologo, che l’amministrazione non ha ancora potuto incardinare nei suoi ruoli, perché come sapete è una figura in convenzione - in maniera più massiccia, assumendo migliaia di educatori, perché io possa prenderne 4-5 e metterli in ogni sezione. Quando ad un educatore affidi 10 detenuti è tutta un’altra cosa, sarà utopia però è così.

 

Ci piacerebbe definire i ruoli degli operatori e dei volontari, nell’ipotesi che ci fossero più educatori. Anche noi siamo assolutamente contrari ad una visione dell’attività del volontariato come sostitutiva di quella dell’educatore. Per noi il ruolo del volontariato è soprattutto quello di portare dentro al carcere la società esterna, nel nostro caso poi facciamo volontariato per portare informazioni fuori e dentro.

Questa è una cosa che va bene, dal mio punto di vista, è una cosa che un educatore non potrebbe fare, perché i compiti sono altri, ecco allora che "soccorre" il volontario, che in questo campo fa conoscere la realtà penitenziaria alla società esterna; e magari quando i detenuti si apprestano ad uscire può aiutare a prepararne la dimissione, l’uscita. Quante persone ci sono che escono dal carcere e non sanno dove andare?

Io ho visto gente tornare dentro, aver paura di uscire, allora i volontari, o almeno una parte di loro, potrebbero occuparsi anche di questo. E dei rapporti con le famiglie. A Tolmezzo ci sono alcuni volontari che regolarmente hanno contatti con le famiglie, le aiutano, perché si tratta di famiglie che vengono da lontano e non possono spendere somme esagerate per andare in albergo.

Questo potrebbe essere un aspetto interessante, anche perché c’è un corpo di volontari, qui a Padova, che è molto numeroso.

 

Volevamo rivolgerle una domanda apparentemente banale: ci crede veramente e quanto, nel trattamento? Le chiediamo questo perché abbiamo avuto altri incontri nei quali è emerso che, con la recidiva al 70 %, sembra che il trattamento abbia un po’ fallito. Quando le chiediamo se crede al trattamento, naturalmente ci riferiamo ad un trattamento che non sia quello attuale, perché con due educatrici per 700 detenuti non è che si possa pretendere molto.

Io credo che, se facciamo un’indagine, gli unici che credono alla risocializzazione del detenuto sono quelli che lavorano in carcere, al dettato costituzionale dell’articolo 27, 3° comma non ci crede nessuno tranne noi. Io credo nella possibilità di redimere ed emendare l’uomo, e le attività trattamentali sono un mezzo. Altrimenti la pena sarebbe solo afflittiva. Ora, perché la recidiva è così alta? Perché i grossi problemi non stanno nel carcere, sono nella società esterna, e spesso la società esterna purtroppo non è in condizione di aiutare. Qui nel nord-est siamo un po’ un’eccezione, ma in linea generale è difficile trovare lavoro fuori. Se la società ha questi problemi, se colui che sta in carcere non ha famiglia, non ha nessuno fuori che lo attende, che lo possa aiutare quando esce, purtroppo in molti casi tornerà dentro.

La recidiva è una cosa che è un po’ distaccata dalle attività trattamentali, perché con le attività trattamentali noi poniamo in essere un processo interiore, tentiamo, per carità, di porre in essere un processo interiore che faccia rivivere criticamente il proprio passato e che convinca la persona che quella strada là non andava bene, che magari ne possa intraprendere un’altra, ma questo vuol dire arrivare fino a dietro la porta. Dall’altra parte della porta non c’è niente da fare: ci vuole la società, ci vuole il lavoro, la famiglia.

Quando il detenuto cittadino è in carcere non ha grandi problemi per la sopravvivenza, per la sanità etc., è quando è fuori che gli cominciano i problemi. Allora lì bisogna rivolgersi alla società di fuori, bisogna lavorare per sensibilizzarla.

 

Lei adesso è passato da una Casa Circondariale ad una Casa di Reclusione: quali pensa che dovrebbero essere le differenze di gestione tra le due realtà, anche come gestione del detenuto, quello che sul regolamento è chiamato trattamento personalizzato ed individualizzato?

Il problema è di fondo: la Casa Circondariale serve per determinate finalità, la Reclusione per altre, e le sappiamo tutti, inutile elencarle. Allora, quand’è che queste finalità non sono più così nette? Quando abbiamo un sovraffollamento che non ci consente di spostare persone con determinate posizioni in determinati posti. La differenza che vi può essere attualmente tra un Circondariale ed una Reclusione, è solamente quella di una qualche attività in più, una maggiore considerazione e una maggiore prevalenza, rispetto al Circondariale, delle attività trattamentali su quelle di sicurezza, su quelle di custodia.

Il Circondariale ha altre necessità, ma comunque se il sovraffollamento in ipotesi non ci fosse, la popolazione detenuta andrebbe divisa per posizione giuridica, per reati commessi, per personalità, per tipologia, cosa che la legge dice ma che è difficile da fare con la popolazione che abbiamo. Bisognerebbe fare una distinzione per fasce d’età, prima ancora che per reati, perché una persona che ha raggiunto i 50-60 anni non può stare con una che ne ha 25. Non perché quella sia chissà che cosa, ma perché hanno caratteri diversi, hanno modi di pensare ed abitudini diverse.

 

Perché alcune cose sono consentite in un carcere e vietate in altri, tipo i libri con la copertina rigida, o quello che si può ricevere con i pacchi?

C’è differenza di trattamento, in queste cose, tra un istituto e l’altro. Sì, questo c’è sempre stato e ci sarà sempre. Noi abbiamo avuto, nel 2000, l’emanazione del nuovo regolamento, e uno degli scopi di questo regolamento era quello di uniformare un po’ le abitudini, e in qualche modo ci siamo riusciti: colloqui, telefonate, al di là dell’ampliamento sono state in qualche modo uniformate, ma ogni istituto è una struttura a sé, è un ente come dire… autonomo, se vogliamo usare una parola impropria, dove le regole di base sono tutte uguali, poi ci sono una serie di sfaccettature che sono diverse a seconda della struttura, delle persone, dei comportamenti, ma questo non potrà mai essere cambiato.

 

Oramai nelle carceri c’è una forte componente di stranieri: lei come crede sia possibile, anche alla luce delle nuove leggi, continuare a parlare di reinserimento e di misure alternative anche per loro?

Intanto bisogna partire dal presupposto che le leggi italiane sono uguali per tutti coloro che si trovano nella stessa posizione sul territorio nazionale. Anche l’applicazione dovrebbe essere uguale, ma obiettivamente i presupposti delle misure alternative sono quelli di avere un radicamento sul territorio, cioè avere dei punti di riferimento fuori, e avere come finalità l’inserimento su quel territorio, altrimenti che senso ha porre in essere una misura alternativa per una persona che non può essere reinserita in quel tessuto sociale?

 

Quindi casa, lavoro e famiglia sono una questione determinante per poter iniziare? Vorremmo ci chiarisse che cosa succede se uno straniero trova un alloggio e un lavoro, ma naturalmente non ha la famiglia vicina…

Il fatto che non siano radicati sul territorio è una difficoltà. Io ho distinto prima quello che dice la legge da quello che poi è materialmente l’applicazione della legge. Non possiamo chiudere gli occhi, è ovvio che è una difficoltà maggiore per lo straniero ottenere una misura alternativa, perché non ha punti di riferimento. Non parlo dello straniero che si è sposato qui, comunque che ha la moglie qui, i figli, il permesso di soggiorno, quelli no, quelli sono trattati e possono ottenere le stesse cose degli italiani, non c’è dubbio, ma obiettivamente è difficile sostenere la causa di una persona che desidera andar fuori, ma per far cosa? per fare una passeggiata in piazza? Che valenza trattamentale ha?

 

Ma uno straniero, in ogni caso, è una persona che deve, come un italiano, cercare di reinserirsi nella società, ed un primo passo è quello di vivere dentro la società. Se lui lavora in semilibertà, la risocializzazione può in ogni caso prescindere dal fatto se lui poi abiterà lì, in quel posto. Quanti italiani che lavorano in semilibertà poi a fine pena se ne vanno da quella zona e tornano nella città d’origine?

Ciò che intendevo sottolineare io è che vi è una difficoltà oggettiva nel far fruire le misure alternative a queste persone. Purtroppo è così, inutile che ci nascondiamo, è vero. Quello che manca sono i presupposti, nel senso del lavoro, del radicamento sul territorio.

Io non so come questa nuova legge sull’immigrazione verrà applicata, ma se la finalità è quella di restituire al paese di origine il soggetto, allora la misura alternativa forse non ha senso, forse è meglio fargli fare dei corsi che possano poi essergli utili nel suo paese d’origine.

 

Ma non è neppure pensabile che gli stranieri abbiano una espiazione pena totalmente in carcere, mentre gli italiani hanno altre possibilità.

No, io ho inteso porre in evidenza le difficoltà oggettive che si incontrano da parte degli operatori del trattamento e da parte della magistratura, nell’attribuire, nel favorire una misura alternativa nei confronti di uno straniero.

 

Vuol dire, direttore, che nel momento in cui le condizioni ci sono, lo straniero ha le stesse opportunità? perché è vero che fuori ci sono difficoltà oggettive, però ci sono molte situazioni nelle quali si creano le condizioni anche per gli stranieri, per esempio a Padova c’è un detenuto straniero che lavora in articolo 21 nella biblioteca di Limena. Volevamo capire come la pensa lei, nel caso ci siano i presupposti per le misure alternative per uno straniero, che del resto devono esserci anche per un italiano, perché se è uno sbandato e non ha niente è chiaro che ci sono difficoltà a pensare per lui a un percorso esterno.

Se i presupposti sono apprezzabili, sono validi, sono ritenuti utili, si può accedere alle misure alternative, vi si deve accedere, la legge lo consente. È lì la difficoltà, valutare in maniera apprezzabile qualche opportunità che si presenta. Può essere apprezzabile per una persona, non lo è per un’altra. La finalità è uguale, ma la valutazione dei presupposti è completamente diversa. Io vorrei fosse chiara una cosa: la concessione di misure alternative alla detenzione deve avere una finalità, uno scopo, e lo scopo è quello previsto dalla Costituzione, quello del reinserimento e dell’emenda del detenuto. La misura alternativa non può mai essere fine a sé stessa, non ha senso. Noi dobbiamo fare tanti piccoli passi per arrivare a realizzare quell’obiettivo.

 

Le misure alternative sono tutte molto discrezionali, e quello che ci interessava capire è il suo orientamento: Per esempio, per avere l’articolo 21 è un ostacolo la pena molto lunga oppure anche qui c’è una valutazione individuale?

Non è un ostacolo in sé e per sé. Bisogna tener conto che il soggetto che è in esecuzione penale comunque deve avere scontato la pena base, che è quella prevista dalla legge, e poi bisogna che abbia un’aspettativa non molto lunga, perché l’articolo 21 è comunque una di quelle misure che serve per reinserire il detenuto nella società. Certo, possiamo anche cominciare a reinserirlo 20 anni prima del fine pena, ma è un po’ difficile.

 

E per un ergastolano, ad esempio?

Spero che tolgano l’ergastolo il prima possibile perché non ha senso, e comunque c’è la pena minima che deve aver scontato, 10 anni.

 

Vorremmo tornare un attimo sul trattamento e chiedere che ruolo dovrebbe avere, secondo lei, su questa questione la custodia, la Polizia Penitenziaria.

La Polizia Penitenziaria per legge è parte integrante del trattamento. Ma naturalmente è qui per custodire i detenuti, è qui per la sicurezza, oltre che per il trattamento, e allora le due cose vanno contemperate. Al di là di questo rimane sempre il fatto che la Polizia Penitenziaria è composta da uomini. Teniamo conto che gli uomini non sono tutti uguali, così come non sono uguali tutti i detenuti, e non sono uguali tutti gli agenti. C’è chi condivide le idee di cui stiamo discutendo, c’è chi le condivide un po’ meno. Dobbiamo cercare di coinvolgerli, sì, ma non è che possiamo modificare la testa di una persona.

 

Allora c’è un problema di preparazione, di formazione?

Esatto. Io ho premesso che la legge parla di interventi rieducativi anche da parte del personale di custodia, ho detto che questi interventi vanno contemperati con la sicurezza, perché loro sono qui per garantire la sicurezza. La Polizia ha questo obbligo preminente, poi la legge dice che deve partecipare all’opera di rieducazione.

La partecipazione al trattamento è di grado diverso tra un agente, l’educatore, l’assistente sociale, il direttore, ed è diverso anche tra l’agente semplice e un ispettore, un sovrintendente. I gradi di partecipazione e di condivisione sono diversi, e la formazione potrebbe certamente essere più pregnante, potrebbe essere indirizzata verso altre motivazioni, verso altri fini, ma questa è una questione che riguarda la politica generale della gestione dello Stato.

 

Ma non c’è modo di confrontarsi sui diversi punti di vista? Quando lei prima parlava del fatto che ci possono essere agenti che non credono, che non condividono l’idea del trattamento, però c’è un regolamento, c’è una legge, per cui perlomeno devono adeguarsi, non è la struttura che deve adeguarsi a loro. Non pensa allora che sia importante un ambito di confronto tra volontariato, operatori ed anche agenti?

Un’interazione, un confronto con il personale di Polizia e con gli operatori in genere, può portare solo buoni frutti, su questo non c’è dubbio.

 

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