Maurizio Paglialunga

 

Diritto all’informazione e diritto alla riservatezza

“Se voi chiedete a me se i giornalisti rispettano non tanto la privacy, quanto

la dignità delle persone, io debbo dirvi che questo rispetto non sempre c’è”

 

Incontro con Maurizio Paglialunga, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto

(Avvenuto nel mese di marzo 2006)

 

Maurizio Paglialunga, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto, ha incontrato la nostra redazione e ha risposto a una infinità di domande dei redattori-detenuti, ma soprattutto ha iniziato con il nostro giornale un rapporto, per noi particolarmente importante: perché, non ce lo nascondiamo, un giornale “fragile” come lo sono i giornali dal carcere ha assoluto bisogno di porsi sotto la tutela, la “protezione” dell’Ordine, di farsi un po’ adottare, e noi lo abbiamo fatto senza alcun pudore.

 

Marino Occhipinti: Il più delle volte vediamo che vengono date notizie nelle quali la privacy non viene presa in nessuna considerazione e si va a interferire nella vita assolutamente privata, che con i reati non ha nulla a che fare. Di conseguenza i nostri familiari ci cascano in mezzo senza colpe, e nelle nostre famiglie si consumano una serie di drammi senza fine. Volevamo capire allora fin dove gli organi di informazione si possono spingere, perché abbiamo visto che si tende a particolareggiare molto sulla vita privata delle persone che hanno problemi di giustizia: capiamo che c’è un’esigenza di cronaca, ma spesso si va ben oltre la cronaca.

 

Maurizio Paglialunga: Quello della privacy è un tema che mi viene sempre posto non soltanto da voi, è un tema difficile. Io comincio con un esempio per essere chiaro: secondo voi la foto di una donna chiaramente identificabile che fa la spesa al supermercato può essere pubblicata o no? C’è il rispetto della privacy? Ecco, la risposta può essere questa: un giornale la può pubblicare a seconda del contesto, e qui già andate a vedere la difficoltà della materia, ad esempio se questa foto è a corredo di un articolo sulla longevità degli anziani sì, si può pubblicare, ma se fosse a corredo di un articolo sulla solitudine degli anziani quella donna potrebbe ritenersi lesa, e dire: ma perché avete pubblicato la mia foto, parlate di solitudine e io sono felicemente sposata.

Allora il legislatore ha ricondotto la materia ad alcuni parametri fondamentali, uno dei quali è l’autonomia e la responsabilità del giornalista, cioè non è voluto intervenire drasticamente dicendo “Questo si può fare e questo no”, ma affida al giornalista una grande responsabilità nel valutare le notizie; il secondo è il principio dell’interesse pubblico e dell’essenzialità dell’informazione, che è l’altro parametro a cui noi dovremmo attenerci.

Ora se voi chiedete a me se i giornalisti rispettano non tanto la privacy quanto la dignità delle persone, io debbo dirvi che questo rispetto non c’è sempre, non c’è per varie ragioni, anche se le violazioni sono più a livello di televisione che di carta stampata, e questo perché sul principio dell’essenzialità sta prevalendo la spettacolarizzazione dell’informazione, che significa enfatizzare e dare le notizie sempre in forma spettacolare.

Io vorrei spiegarvi come il legislatore ha voluto affrontare la  materia: intanto alla legge sulla privacy è annesso un codice deontologico dei giornalisti che “mitiga” molto la legge sulla privacy, quindi la legge sulla privacy che può riguardare le banche, l’accesso ai dati personali eccetera, nel caso dei giornalisti e dell’informazione è mitigata, è mitigata perché il Garante individua, e questo è il nodo della questione, alcuni parametri con cui assicurare il pieno rispetto di diritti e libertà fondamentali dell’uomo, quali la riservatezza, l’identità personale e il “nuovo” diritto alla protezione dei dati personali, senza pregiudicare però la libertà di informazione, che è tutelata anch’essa sul piano delle garanzie costituzionali; cioè la Costituzione tutela l’individuo e la sua dignità e il suo diritto alla riservatezza, però tutela anche il diritto all’informazione, perché l’informazione è un bene pubblico, altrimenti si rientra in un regime di censura.

Allora contemperare due diritti costituzionali può diventare un problema. La scelta quindi di non introdurre, scrive il Garante, regole rigide in materia, bensì di limitarsi a indicare espressamente solo alcuni presupposti, si è basata su due ordini di considerazioni: da una parte la molteplicità e la varietà delle vicende di cronaca e dei soggetti che ne sono coinvolti non consentono di stabilire a priori e in maniera categorica quali dati possono essere raccolti e poi diffusi nel riferire sui singoli fatti, un medesimo dato può essere legittimamente pubblicato in un determinato contesto e non invece in un altro: dall’altro una codificazione minuziosa di regole in questo ambito risulterebbe inopportuna, in un contesto in cui sono assai differenti le situazioni nelle quali occorre valutare nozioni generali e valorizzare nel contempo l’autonomia e la responsabilità del giornalista. Alla fin fine il giornalista è chiamato lui a valutare caso per caso cosa pubblicare, quali elementi fornire, quali non fornire, cioè l’essenzialità dell’informazione rispetto all’interesse pubblico della notizia. Allora voi mi direte che questo è un concetto molto vago e non c’è da fidarsi dei giornalisti perché gli si affida troppa discrezionalità, però questa è ad oggi la situazione.

Poi c’è la questione dei cosiddetti dati sensibili, sesso e salute, nel caso di personaggi pubblici, e qui potremmo anche discutere se voi siete personaggi pubblici e fino a quanto lo siete. Questi sono dati ultraprotetti a livello di legge sulla privacy, ma allora ci chiediamo: quando Papa Wojtyla appariva alla finestra ed era manifestamente malato, gli tremavano le mani e non riusciva a parlare, se noi avessimo preso in assoluto la legge sui dati riguardanti la salute non avremmo dovuto dare quelle immagini. E invece era lui stesso che voleva mostrarsi nella sua debolezza di uomo, che voleva che tutti vedessero la sua malattia, però qualche primo piano, specie quel giorno che lui decise di aprire la finestra e non riusciva a parlare, forse si poteva evitare.

 

Marino Occhipinti: Il Papa ha aperto la finestra e si è esposto, se invece qualcuno andava a fotografarlo sul letto mentre stava morendo è un po’ diverso. Io ripenso, tornando indietro, al mio processo, non è mica stata scritta una cosa sbagliata quando hanno pubblicato la fotografia di mia moglie e hanno scritto: la moglie di Marino Occhipinti. La cosa era vera, ovviamente c’era un certificato di matrimonio, però non so quanto fosse il caso, in una vicenda come la mia, di pubblicare la fotografia di mia moglie sul Resto del Carlino e che utilità potesse avere, dal punto di vista dell’informazione.

 

Paolo Moresco: È vero che non si sa fino a che punto siamo personaggi pubblici, ma le nostre famiglie non lo sono. Io ho fatto il giornalista e l’ho fatto per trent’anni, però mi fa un po’ schifo. Ma perché, la madre, i fratelli non contano? Lì è scempio di persone innocenti, direi che sono vittime “secondarie”, perché spesso sono anche loro vittime. Io trovo che scaraventare una persona che ha subito indirettamente un delitto, come un parente, sul giornale, è di una volgarità indegna, senza scusanti.

 

Maurizio Paglialunga: Il problema è sempre quello, se c’è un parente, specie i figli minori poi è ancora più grave, se c’è un parente che non ha nessun rilievo nell’ambito della notizia non dovrebbe essere coinvolto. Io vi dico come la penso, però vi dico anche che non tutti la pensano come me, io la penso come un grande cronista polacco che si chiama Ryszard Kapuscinski, il quale sostiene: “Non c’è giornalismo possibile fuori dalla relazione con gli esseri umani, credo che per fare del giornalismo si debba essere innanzi tutto degli uomini buoni o delle donne buone, dei buoni esseri umani, solo così si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro tragedie”. E cosa fa Kapuscinski? Distingue nettamente l’essere scettico, come può essere un giornalista, l’essere realista, doti assolutamente necessarie per questo mestiere, e l’essere cinico, atteggiamento che ritiene incompatibile con la professione del giornalista.

Il cinismo è una delle malattie del giornalismo. L’Ordine dei Giornalisti comunque ha anche dei compiti di vigilanza deontologica, spesso diamo delle sanzioni ai giornalisti, ad esempio le violazioni più frequenti che noi registriamo a livello nazionale, ma anche nel Veneto, sono violazioni alla Carta di Treviso. Il minore è veramente tutelato, la sua crescita non deve essere turbata dal vedersi finire sul giornale, ecco però noi su questo ancora registriamo tante violazioni, anche se molte meno rispetto a una volta, perché una volta nel giornalismo proprio non c’erano regole, adesso una coscienza sta crescendo. Io credo che ci vorrà del tempo e purtroppo devo dirvi che la coscienza cresce a livello di giornalisti, cresce poco a livello di vertici e gerarchie giornalistiche, perché c’è ancora questa idea che sbattere il mostro in prima pagina faccia vendere più copie, anche se assolutamente non è vero, non paga nemmeno questo, tant’è che i quotidiani italiani nell’ultimo decennio hanno perso un milione di copie, e forse bisognerebbe analizzare meglio le cause di questo calo di vendite. È comunque innegabile che abbiamo perso credibilità, abbiamo perso autorevolezza, e la gente, che non è stupida, non ci compra.

 

Paolo Moresco: Sì, ma la cosa più scandalosa è la televisione, quando nel pomeriggio ti mescolano la cronaca nera, fatta male, in modo strappalacrime e stupido, con quella che sculetta, è lì che secondo me i giornalisti dovrebbero intervenire, perché è un uso un po’ bastardo della professione.

 

Maurizio Paglialunga: Ma ormai non si sa più, a livello di televisione, cos’è giornalismo e cos’è intrattenimento, perché ci sono giornalisti che fanno intrattenimento e “non giornalisti” che fanno trasmissioni di informazione.

 

Marino Occhipinti: Vorrei tornare però alla questione della privacy. Se io vengo arrestato oggi, la mia fotografia, i miei dati e probabilmente anche il mio indirizzo finiscono sui quotidiani, però c’è ancora la presunzione di innocenza. Ma, anche se nell’articolo c’è la formula dubitativa, “avrebbe commesso, è accusato di”, quanto è regolare, secondo il codice deontologico, pubblicare appunto le fotografie che poi vengono fornite nelle conferenze stampa dalle Forze dell’Ordine o dalla Magistratura?

 

Maurizio Paglialunga: Il problema della presunzione di innocenza è esploso in Italia quando è successa tangentopoli, perché finché toccava i poveri cristi non c’era, quando è toccato a quelli che contano allora è venuto fuori, e quindi si è più attenti a stare dentro alle leggi adottando un minimo di cautele: il condizionale, la formula dubitativa. La fotografia è un fatto complesso e su tutto ciò poi grava anche un diritto all’oblio, nel senso che se io vent’anni fa ho commesso un reato e dopo vent’anni faccio un incidente stradale, non è che devi riscrivere che il sottoscritto vent’anni prima aveva rubato al supermercato…

Quando invece c’è un’operazione di polizia, e vengono fuori le foto, perché li fanno scendere dalla macchina fuori dalla questura in manette, sapendo che ci sono le telecamere? Perché non fanno entrare la macchina dentro, così nessuno li riprende? È chiaro che noi giornalisti dobbiamo prenderci la nostra responsabilità, e non fare quel tipo di riprese, però i primi a voler spettacolarizzare non siamo sempre noi… quanto meno c’è un concorso di colpa, voglio dire.

Il Garante dice che le foto segnaletiche, fotografie degli arrestati e degli indagati, anche se esposte nel corso di conferenze stampa tenute dalle Forze dell’Ordine, o comunque acquisite lecitamente, non possono essere diffuse, se non in vista del perseguimento delle specifiche finalità, per le quali sono state originariamente raccolte: accertamento, prevenzione e repressione dei reati. Inoltre, anche nell’ipotesi di evidente ed indiscutibile necessità di diffusione di queste immagini, il diritto alla riservatezza e alla tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione.

Sicuramente, comunque, di gente in manette non puoi pubblicare foto, nemmeno fare riprese televisive, invece viene fatto anche questo. Le foto segnaletiche le dovresti acquisire lecitamente e avere un motivo di giustizia per pubblicarle. Il Garante è molto rigido, noi ad esempio riceviamo, in questi ultimi mesi, tanti pronunciamenti del Garante, quindi non è vero che non c’è difesa, quanto meno voglio dire, si crea un fastidio al giornalista o al giornale che ha sbagliato.

 

Graziano Scialpi: È vero che sulla privacy il grosso disastro lo fanno le televisioni, ma anche nei giornali non si scherza, ho fatto anch’io il giornalista e so cosa vuol dire quando succede un fattaccio e dopo quattro o cinque giorni arriva il capo servizio e ti dice: dobbiamo mantenere viva la storia. E tu da bravo cronista gli dici che non c’è nessuna notizia, non c’è nessuna novità, e lui ti risponde: non me ne frega niente e voglio cinquemila battute. Uno allora cosa fa? Comincia ad andare a scovare la moglie, la sorella.

 

Maurizio Paglialunga: Questo è purtroppo vero, guardate la vicenda di Tommy, il bambino rapito, io nei giornali ho continuato a leggere tra le righe dubbi sui genitori, che non erano supportati da nulla, se non da una necessità di continuare a scrivere di quel caso ogni giorno, per tener viva l’attenzione e riempire pagine e pagine.

 

Ornella Favero: Una cosa per noi sempre delicata è come ci si comporta con le lettere. Faccio un esempio: noi riceviamo lettere da altre carceri che denunciano certe situazioni, certi problemi, e non è che siamo in grado sempre di verificarne la veridicità, allora come agiscono di solito i giornali con le lettere?

 

Maurizio Paglialunga: Chi pubblica ha sempre la responsabilità, sulle lettere come sulle interviste. Se la lettera ha contenuti offensivi o violazioni di legge, il giornale ne risponde, quindi lì bisogna stare molto attenti. E bisogna stare attenti anche a come arriva la lettera, a come la si acquisisce, perché ci sono stati casi di giornali che hanno pubblicato lettere a firma Mario Rossi, poi Mario Rossi si è fatto vivo, dicendo: ma io non ho scritto nulla, come vi siete permessi di pubblicare una lettera con la mia firma? Ci sono anche lettere che diventano oggetto di un articolo: ad esempio, una lettera denuncia una determinata situazione e il giornalista ci lavora sopra o ci fa un’inchiesta, o interpella i diretti interessati. Ma una lettera contenente accuse generiche che potrebbero essere infondate o potrebbero essere oggetto anche di una querela, io non la pubblicherei.

 

Ornella Favero: Radio Radicale, per esempio, avendo una struttura solida alle spalle, le lettere dalle carceri le legge tutte, ma quando noi riceviamo una lettera che denuncia una certa condizione in un carcere, o episodi di violenza, non è semplice decidere se pubblicarla o meno.

 

Paolo Moresco: Parliamoci chiaro, in galera episodi di violenza succedono anche, però la galera è un ambiente dove ci sono pure mitomani, ci sono un mucchio di cose che poi si rivelano non vere. La galera è un ambiente a circuito chiuso, per cui tutti i fenomeni che ci sono fuori, qui vengono amplificati.

 

Maurizio Paglialunga: Io farei una cosa al posto vostro, nell’ambito del giornale raccoglierei tutte le denunce sulla situazione generale e darei poco spazio però agli sfoghi personali, perché è chiaro che uno può avere una visione alterata della realtà. Però se c’è una protesta per esempio per la qualità del cibo va bene, perché no, io raccolgo la denuncia dei detenuti di Padova che dicono che mangiano male, poi la direzione dirà che invece è il Grand Hotel e dopo vediamo… perché no, voglio dire, è il balletto delle parti che consente ai detenuti, secondo me, di riconoscersi nel giornale che tutto sommato raccoglie anche le segnalazioni di quello che non va, poi se c’è intelligenza dall’altra parte si capisce anche che le lamentele possono essere un modo di apprendere cosa non funziona.

Certo lasciamo perdere il caso vostro, che è troppo particolare, ma un giornale è contropotere, deve dare fastidio, oggi in Italia i giornali danno poco fastidio, ma invece si dovrebbe disturbare il manovratore, avere un ruolo di controllo. In Italia se fai una domanda al politico di turno che viene ritenuta sgradevole, ti prende a parole e se ne va, al Presidente degli Stati Uniti tu gli puoi anche chiedere “Ma è vero che lei ieri sera l’hanno vista a cena con la segretaria in atteggiamento intimo?”, e lui resta inchiodato sulla sedia e cerca di rispondere, non si sognerebbe mai di aggredire il giornalista, ma questo secondo me è ancora una volta un problema nostro di credibilità, di autorevolezza.

 

Ornella Favero: Però quando tu dici giustamente che un giornalista dovrebbe dare fastidio, il nostro problema è che qui se un giorno decidono di trasferirmi tre persone, uno che mi impagina il giornale, l’altro che scrive e il terzo che mi fa le vignette, io il giornale lo chiudo. In fondo è per questo che chiediamo che l’Ordine ci tuteli un po’.

 

Maurizio Paglialunga: Secondo me voi dovete cercare in tutti i modi di non entrare troppo in conflitto con l’istituzione, perché non c’è un rapporto paritario, non ci può essere. Io infatti più che fare un giornale di denuncia, racconterei storie, come ho visto fate già per altro, perché a farne un giornale di mera denuncia delle disfunzioni, secondo me potreste produrre un numero al giorno con quello che succede nelle carceri, ma poi rischia di diventare anche controproducente.

 

Ornella Favero: C’è un’altra questione che ci interessa, e riguarda il “diritto all’oblio” delle persone private della libertà. Faccio un esempio: un giorno è venuta in redazione una giornalista di un importante quotidiano, che doveva scrivere un articolo su Ristretti Orizzonti, e poi è andata a vedersi nell’archivio del suo giornale nomi e cognomi delle persone che sono intervenute durante l’incontro e nell’articolo ha aggiunto, in un contesto che non c’entrava nulla, la “qualifica” di ognuno: questo è dentro per omicidio, quell’altro per rapina… ma non si può fare nulla in questi casi?

 

Maurizio Paglialunga: L’Ordine ha la funzione di magistratura della professione, quindi, se ci arriva una segnalazione si apre un procedimento disciplinare, una specie di processo vero e proprio in cui il giornalista può venire assistito da un avvocato, si fa tutta un’istruttoria, alla fine si emette un giudizio, che può essere avvertimento, censura, sospensione dalla professione o radiazione. Allora il problema qual è, che i procedimenti sono di primo grado, secondo grado, voi lo sapete meglio di me, dopo anni magari adesso va tutto in prescrizione, quindi servirebbe un giudizio più rapido. L’altro tema che è stato sollevato a livello di Ordine dei Giornalisti è la difficoltà di assumere un ruolo di terzietà del giudice, nel senso che io potrei trovarmi a giudicare, come presidente dell’Ordine, un collega che mi lavora a fianco e che è il mio più caro amico magari. Allora per me sarebbe più facile giudicare i giornalisti dell’Emilia Romagna piuttosto che quelli del Veneto, invece la legge impone questo, quindi tu rischi di non essere sereno nel giudizio. Però ciò non toglie, che ad esempio noi comminiamo diversi avvertimenti, censure, adesso abbiamo un caso che rischia di arrivare alla radiazione addirittura, perché sta reiterando comportamenti non corretti. Noi cerchiamo di fare tanta prevenzione, convochiamo i colleghi, gli scriviamo, gli ricordiamo quali sono le norme continuamente. Ma è davvero una battaglia senza soste.

 

Marino Occhipinti: Per finire, pensi che abbia senso promuovere una “Carta di Padova”, su modello di quella di Treviso, per la tutela della privacy delle persone private della libertà e dei loro famigliari?

 

Maurizio Paglialunga: Noi la nuova Carta la appoggiamo, la Carta di Padova se così si chiamerà, l’appoggiamo e la sosteniamo assieme alla Federazione della Stampa, che è il sindacato dei giornalisti, ma il problema che mi pongo io, come presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto, e che si pone l’Ordine, è riuscire a farla rispettare, perché le regole è bene raccoglierle e dar loro rilievo in un convegno, però già le abbiamo, e certe regole non sono rispettate. Le foto in manette, e quello di cui si è parlato finora, sono cose all’ordine del giorno, allora per far rispettare queste regole noi prima di tutto dobbiamo sensibilizzare i nostri colleghi, dobbiamo fargli capire il perché delle regole, convincerli che sono buone regole, poi semmai anche reprimere. Ma io non vi nego però che in determinate circostanze, in presenza di fatti particolarmente efferati, quando la gente telefona in redazione e dice: “Quello ha ammazzato il bambino, se lo prendete scrivete che devono metterlo dentro e buttare la chiave”, anche molti di noi la pensano così, molti di noi giornalisti, ed è questo che viene cavalcato spesso dalla stampa. Allora il problema nostro è sì applicare le regole e quindi reprimere chi non lo fa, e per questo l’Ordine dei Giornalisti laddove le regole vengono violate deve intervenire, però è anche far sì che tra i miei colleghi, tra di noi, passi una cultura nuova e diversa, perché altrimenti non ne veniamo a capo.

La gran parte di noi giornalisti ritiene che si può sempre scrivere di tutto, e basta vedere quello che pubblicano i giornali. Recentemente su un giornale del Veneto è stata pubblicata non solo la notizia, ma anche la foto della figlia suicida di un noto personaggio della malavita: ma che senso ha avuto pubblicare quella foto? Lo scontro che è avvenuto in redazione con i vertici giornalistici che l’avevano deciso, è rimasto irrisolto, perché chi era convinto che quella andava pubblicata, il direttore in testa, ha pubblicato la foto, che era anche, oltre tutto, una foto raccapricciante, perché quando uno si butta dalla finestra non è che arriva poi giù di sotto integro, quindi non aveva nessun senso e non aggiungeva nulla alla notizia pubblicare quella foto, eppure è stata pubblicata. Se noi non riusciamo a promuovere una cultura nuova, non risolveremo mai questo problema.

 

 

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