Incontri in redazione

 

Un incontro in redazione con i magistrati

Alessandro Margara e Francesco Maisto

Un sostituto procuratore e un magistrato di sorveglianza

parlano della riforma dell’Ordinamento penitenziario

 

(Realizzato nel febbraio 2006)

 

a cura della Redazione

 

Una riforma che parla di “diritti dei detenuti”. È quella elaborata da Alessandro Margara, che è stato uno dei padri della legge Gozzini e ha ancora la voglia e le energie per pensare a riformare l’Ordinamento penitenziario. Ricordando che non c’è sicurezza migliore di quella che si assume la responsabilità delle situazioni critiche, le fronteggia, e dà delle risposte su questo piano. In tempi di leggi ex Cirielli e stralcio Fini-Giovanardi sulle droghe verrebbe da pensare che ipotizzare una riforma dell’Ordinamento penitenziario fortemente migliorativa, che parla apertamente di “diritti dei detenuti”, possa essere opera solo di un sognatore.

Ma Alessandro Margara, che è stato per anni Magistrato di Sorveglianza, ed è considerato uno dei padri della legge Gozzini, nella prefazione alla sua proposta di legge ci ricorda che anche quando nel ‘75  fu varata la nuova legge penitenziaria, furono anni difficili, con l’insorgere dell’emergenza terrorismo e il varo di una “controriforma” che sembrava annullare ogni apertura e chiudere ogni spiraglio. E invece poi ci fu il senatore Mario Gozzini con la legge che porta il suo nome, e la politica ebbe uno scatto di umanità, e le carceri cominciarono davvero ad aprirsi. Del nuovo progetto di riforma dell’Ordinamento penitenziario abbiamo parlato in redazione con Alessandro Margara e con Francesco Maisto, sostituto procuratore generale della Repubblica a Milano, che con Margara sta promuovendo il progetto.

 

Alessandro Margara: Vorrei fare una breve premessa alla discussione: il progetto ha delle buone intenzioni, però le buone intenzioni vanno a finire nel nulla se non si interviene nel quadro generale della politica penitenziaria di questo Paese. Ora la politica penitenziaria è questa: nel 1990 fra detenuti e misure alternative c’erano 36.300 persone interessate. Oggi ce ne sono 180.000: 60.000 detenuti in carcere, 50.000 in misura alternativa e 70-80.000 che aspettano di sapere se le loro istanze per essere ammessi alle misure alternative invece di andare in carcere saranno accolte, e in caso contrario andranno in galera.

Cinque volte tanto le cifre del 1990: un aumento di questo genere in 15 anni è preoccupante. Due terzi delle 60.000 persone detenute sono immigrati, tossicodipendenti e persone che stanno in situazioni di criticità varie, con problemi di ordine psichico, di abbandono sociale. Solo un terzo sono persone che hanno invece pene robuste da eseguire, non sempre robustissime, ma insomma sono i “clienti classici” del carcere.

Allora, ci sono due politiche penitenziarie. Una è quella che ha fatto la Bossi-Fini per gli immigrati e ha portato fino in fondo il progetto di legge Fini sulle droghe, che vuol dire esasperare la penalità per i tossicodipendenti, cioè considerare la pena detentiva come la strada maestra per trattare i tossicodipendenti, ed ha varato anche  la legge ex Cirielli, con la persecuzione proprio dei recidivi che sono poi i clienti appartenenti per lo più a quelle categorie deboli che abbiamo visto, perché in galera ci vanno più volte.

Ma c’è una politica diversa, nella quale i tossicodipendenti hanno bisogno di una legge a sé stante, e c’è un progetto di legge che è già stato presentato in materia, così come per l’immigrazione bisogna veramente arrivare ad una proposta di legge alternativa. Questo già rimetterebbe sotto controllo la crescita della penalità, nel senso che dovrebbe determinare virtuosamente una diminuzione della penalità per quella che sinteticamente si può chiamare “detenzione sociale” – perché è il disinteresse sociale nel quale si sono mosse le vicende degli immigrati, dei tossici, di questi altri disperati, senza dimora, malati psichici che ha determinato l’interesse penale. La pena è diventata uno strumento al posto degli strumenti non impiegati da parte del contesto sociale.

Ecco, a questo punto certamente ci vogliono questi interventi legislativi, ma ci vuole anche l’attenzione dell’ambito sociale, ed è un’attenzione che l’ambito sociale non ha, una politica sociale diversa di cui si deve essere consapevoli e che deve essere richiesta. Ci vuole che un governo diverso attivi queste cose, ma ne avrà voglia? La proposta di riforma che ho elaborato presuppone la soluzione di questi nodi, perché il discorso è semplice: un carcere che ha questa popolazione presente e prospettabile – perché aumenterà ancora, aumenterà sempre – non funziona, non si possono fare progetti in un carcere di questo genere. Si dice che si fanno le carceri nuove, ma per ogni carcere nuovo ci vuole il personale che non si trova, che costa enormemente, quanto costa enormemente un carcere nuovo, e allora non c’è altra soluzione che cambiare politica.

Riportare il penale nell’alveo che gli è proprio, rilanciare il sociale per quello che effettivamente può fare, perché non c’è sicurezza migliore di quella che si assume le responsabilità delle situazioni critiche, le fronteggia, e dà delle risposte su questo piano. Da qui si può partire allora per il progetto che vi dicevo, nel quale, in pratica, si parla dei diritti dei detenuti, si cerca di recuperarli. Quelli che sono obblighi già inseriti nella legge del 1975, dato che la realtà del carcere non corrisponde minimamente alla legge del 1975, sono obblighi inadempiuti. Trasformiamoli in diritti e che Dio ci aiuti, perché naturalmente bisogna vedere in che misura questa enunciazione potrà essere seguita dai fatti.

 

L’idea è che lunghe semilibertà non sono utili

 

Il progetto è diviso in titoli, come lo era già il precedente Ordinamento, ed il primo titolo è dedicato al trattamento. Per esempio le dimensioni degli istituti, l’attrezzatura delle camere, l’osservazione, il trattamento vengono convertiti in diritti. Da questo deriva un primo punto, che è quello del tentativo di far finire il sistema delle domandine, e credo che la proposta sia gradita ai detenuti ma anche agli operatori, perché è un sistema che riempie di carta tutto e tutti.

Fra i diritti ci sono tutti quelli che riguardano l’osservazione ed il trattamento: diritto ad avere l’osservazione, diritto ad avere il trattamento, in modo tale che la persona possa essere presa in carico, conosciuta. Se l’istituto ha dimensioni maggiori deve essere diviso in tante sezioni, diciamo così, autonome in qualche modo, che poi fanno riferimento all’organizzazione centrale, per quelle che possono essere le questioni comuni, ma nell’ambito delle singole strutture autonome invece il discorso è gestito da chi è responsabile di quel particolare settore. Tra i diritti viene inserito il diritto all’affettività, con le caratteristiche che ha il progetto di legge Boato, elaborato proprio in questo carcere, che prevede alcuni colloqui senza controlli visivi.

C’è anche un riesame dei permessi, con qualche aspetto, come dire, “osé”, nel senso che prescinde dall’uso abituale del termine: ci sono permessi un po’ speciali, che fanno pensare a quello che era stato progettato a suo tempo per il teatro di Volterra per recarsi all’estero. Vengono introdotti i permessi semestrali, proprio per recarsi in famiglia, di ulteriori 10 giorni ciascuno, che effettivamente portano i permessi a 65 giorni l’anno. Poi si è sottolineato il fatto che tendenzialmente i permessi previsti devono essere concessi tutti entro l’anno, e non, come si usa attualmente, centellinati a piccole dosi, che poi impediscono il raggiungimento del numero massimo che si può ottenere.

Il secondo titolo concerne le misure alternative, e con le misure alternative riguarda anche l’esecuzione delle pene diverse da quelle detentive, nonché la magistratura di sorveglianza. Per le misure alternative il discorso di fondo è contenuto nell’articolo 57, che utilizzando sentenze costituzionali stabilisce sostanzialmente che le misure alternative sono una misura ordinaria attraverso cui l’esecuzione penale si sviluppa, cioè non sono un’eccezione. Stabilite certe condizioni, che sono quelle previste dalla legge, anche qui si parla di diritto. In altre parole, talvolta ci sono dei rifiuti che fanno riferimento a precedenti penali e gravità dei reati, ci sono valutazioni che non dovrebbero esserci proprio, perché se il fatto è grave l’esecuzione penale sarà più lunga e quindi ci sarà un tempo più lungo per accedere ai permessi o alle misure alternative, ma a quel punto - se dovessero essere confermati tutti i punti necessari come alcuni elementi esterni o i risultati dell’osservazione - dovrebbe esserci un esito positivo ordinario.

Con riferimento alle singole misure alternative, poi, in particolare per l’affidamento in prova al servizio sociale, si cerca di eliminare ciò che è diverso dall’intervento del servizio sociale, quindi tutto quello, per esempio, che è entrato in uso attraverso varie forme, come l’intervento di polizia, che è un intervento fuorviante nell’ambito di una misura che invece è fondata sul ruolo dei servizi sociali. La semilibertà prevede uno sviluppo che si chiama “progressi nel trattamento”, per cui ci sono dei tempi che si concluderanno con allargamenti dei programmi di trattamento e poi alla fine con il passaggio alla liberazione condizionale, perché l’idea è che effettivamente lunghe semilibertà non sono utili, non sono positive. Ad un certo momento la persona scoppia, perché la diversità di sistema fra la libertà esterna e gli inevitabili condizionamenti interni è evidente.

Si introduce quindi la liberazione condizionale come misura alternativa, nel senso che la si sottrae al Codice penale e si inserisce nella legge penitenziaria senza grandi modifiche di testo, di condizioni: è la gestione che cambia, perché la gestione è sì di intervento di polizia, che è quello sull’osservanza delle prescrizioni, ma soprattutto di intervento del servizio sociale che segue il vero e proprio processo di reinserimento della persona.

In questa parte ci sono poi alcune cose importanti, una delle quali riguarda le preclusioni all’ammissione ai benefici per i reati che sono sicuramente quelli più gravi, anche se disgraziatamente si allargano sempre di più, perché nel 4-bis vanno a finire i reati che colpiscono l’opinione pubblica e non solo. Ad un certo punto, dopo un periodo di esecuzione molto lunga, anche le persone detenute per i reati che attualmente sono ostativi, possono essere ammesse ai benefici, ci può essere il finire della preclusione. Poi c’è il problema dell’esecuzione della pena a lunga distanza di tempo dalla commissione del reato, per la quale si privilegia la soluzione delle misure alternative e quindi si avvicinano i momenti di ammissione alle stesse.

La seconda parte di questo titolo, dedicato alle misure alternative, riguarda l’esecuzione delle condanne diverse dalla pena detentiva. Io sostengo che la pena detentiva ha avuto un trattamento di maggiore attenzione costituzionale rispetto a tutti gli altri contorni della pena, che sono appunto la pena pecuniaria, le pene accessorie, le misure di sicurezza. Su queste si dicono alcune cose, per levare alle stesse la capacità attuale di essere una lunga serie di ostacoli che si frappongono alla conclusione del reinserimento. Quello a cui si tiene è che siano sollecite, cioè che vengano eseguite in contemporaneità o subito dopo la pena detentiva, e che abbiano comunque delle uscite che non siano ostative al processo di reinserimento che si è già avviato.

Il terzo titolo riguarda l’organizzazione penitenziaria: una parte è dedicata alla descrizione dei vari  tipi di istituti, con la creazione delle “Case territoriali di reinserimento sociale” che fanno riferimento all’organizzazione degli enti locali, come più o meno accadeva per le Case mandamentali. Poi c’è tutta l’organizzazione del personale, che però vi interessa fino ad un certo punto, ed infine si passa proprio alle pratiche e alle procedure che dovrebbero sostenere ed avviare il reinserimento sociale, e con questo io credo di aver finito.

Francesco Maisto: Prima che si arrivasse alla redazione quasi definitiva di questo testo, ci sono stati molti incontri. Che cosa noto io in questo tipo di incontri? Lo dico proprio come avvertimento preliminare: il fatto che non si fa una lettura complessiva dell’articolato. So che è difficile e faticoso, però sapete cosa succede di solito, che più o meno ognuno legge la parte che gli interessa. La conclusione è che i colleghi magistrati di sorveglianza vanno a leggere soltanto la parte relativa alla magistratura di sorveglianza, gli ospiti dei penitenziari italiani vanno a leggere sostanzialmente la parte relativa ai diritti e alle misure alternative, gli assistenti sociali, gli educatori e la polizia penitenziaria si vanno a leggere soltanto la loro parte.

Alla fine sfugge il nodo della vicenda, e cioè che tutto si tiene in questi 177 articoli, e non è un caso che si concatenano l’uno all’altro. Senza il concatenamento non si riesce a vedere effettivamente qual è la dimensione complessiva. Faccio un esempio: non serve a niente dire che qui si è modificata l’operatività della liberazione anticipata, se poi non si prevedessero - così come prevede l’articolato - dei sistemi di carattere organizzativo e strutturale che riguardano l’amministrazione e la magistratura di sorveglianza, quanto a professionalità e a modi di accedere alla stessa. Insomma, se non si prevedesse tutta l’armonizzazione dell’articolato, il lavoro avrebbe poco senso, perché la liberazione anticipata deve essere effettiva, cioè non deve succedere la cosa più scandalosa che appare in ambito penitenziario, e cioè che una persona, pur avendo diritto ad essere scarcerata, cioè ad uscire perché deve avere la liberazione anticipata, di fatto resta in galera ancora perché non viene esaminata in tempo l’istanza, perciò in qualche maniera è come se continuasse ad avere un credito di libertà nei confronti dello Stato.

La lettura complessiva dell’articolato consente di dire che c’è una stretta correlazione, tra la parte relativa ai diritti, la parte relativa ai doveri, la parte relativa alle misure alternative, quella relativa all’organizzazione e quella relativa al reinserimento sociale, che non è l’uscita e basta, ma è un progetto razionale di reintegrazione sociale che si struttura in un modo molto preciso. Questa è la prima avvertenza, quindi quando parliamo di misure alternative non valutatele soltanto in sé, ma dovete anche valutare, cosa che a voi sembra che non conti niente, invece conta eccome, una diversa strutturazione dell’amministrazione e delle figure che operano all’interno di essa.

Seconda avvertenza: in corso d’opera si è reso necessario un punto fondamentale nell’articolato. Sapete che questo progetto si pone nel solco e in un superamento in avanti della legge Gozzini, o meglio ancora, della 354 del ‘75, nostra prima legge penitenziaria. Sta di fatto invece che in questi giorni noi abbiamo avuto “l’ammazza Gozzini”, abbiamo cioè avuto la legge ex Cirielli, quindi abbiamo sentito la necessità di inserire subito un articolo in questo progetto: l’abrogazione della legge ex Cirielli, perché l’articolato non regge senza la preliminare abrogazione di questa norma.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Nei giorni scorsi, infatti, ci chiedevamo come si fa a prevedere la permanenza in cella solamente per 14 ore al giorno, e scalare un’ora ogni anno fino ad arrivare ad un massimo di 10, così almeno prevede l’articolato, con le strutture che ci sono ora, con il sovraffollamento, con i pochi operatori. Poi invece abbiamo letto che per arrivare a questo è prevista tutta una serie di adeguamenti, che riguardano tutto il sistema, dalle strutture al personale. Volevo aggiungere soltanto un’altra considerazione: io sono tra quelli che, ovviamente, sono andati a leggere bene il capitolo inerente le misure alternative, e non riuscivo a trovare niente che mirasse a risolvere il problema che nasce dalla larga discrezionalità dei magistrati. Cioè, se si capita nel carcere “giusto”, dove ci sono i magistrati di sorveglianza che applicano veramente la legge Gozzini, si esce anche, ma in alcune realtà, in alcune regioni sappiamo che avere i benefici è quasi impossibile. Abbiamo visto dei rigetti di magistrati di sorveglianza dove sta scritto “Ha un lontano fine pena”, però è anche vero che se una persona ha la condanna molto lunga ma è nei termini per accedere ad esempio ai permessi, significa che ha già scontato un periodo di detenzione sufficientemente adeguato da poter ottenere tali benefici. Con il vostro articolato, come funziona la discrezionalità dei magistrati?

Alessandro Margara: L’articolo 57 dice: “La misura alternativa rappresenta un intervento ordinario e necessario, attraverso il quale la pena viene eseguita e tale rimane anche nei casi in cui la legge ordinaria la preveda nei confronti di persone in stato di libertà”. Poi si dice in particolare che l’assegnazione alla magistratura di sorveglianza è prevista tenendo conto della specifica preparazione in materia penitenziaria, acquisita sia con la frequenza di corsi di formazione e studio relativi alla stessa, sia con l’attività giudiziaria svolta presso gli uffici e i tribunali di sorveglianza, sia con attività istituzionali svolte presso istituti o centri di servizi sociali penitenziari. Per stringere, ci dovrebbe essere una specialità nella preparazione della magistratura di sorveglianza, per evitare che alla stessa approdino persone che ne sanno poco e che in pratica hanno un po’ di resistenza a queste disposizioni, cosa che si è verificata e si verifica spesso.

 

Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): Entrando nel merito in un punto particolare, la questione delle telefonate, mi chiedevo se non si possa davvero uscire da un solco, fatto da una serie di limitazioni infinite, che è esclusivamente italiano: non sarebbe ora che ci adeguassimo un po’ al mondo occidentale? Nelle sezioni normali non si potrebbe arrivare, come in tutta Europa, come in America, ad avere il telefono a scheda e al fatto che uno possa davvero chiamare quando gli pare?

Alessandro Margara: Nell’articolato è previsto l’uso della scheda, ma è mantenuto un sistema che limita il numero delle telefonate e dei minuti. È vero che in altri paesi il sistema è più libero, ricordo che una famosa detenuta italiana in America telefonava al proprio legale a carico del destinatario (e devo dire che questi era un po’ preoccupato dal sistema). Nella mia proposta di legge si applica il sistema di telefonate con le schede al settore della media sicurezza. Quindi ecco, c’è questa disposizione che dice: “Deve essere favorita l’utilizzazione di schede prepagate per l’uso del telefono negli istituti o sezioni con sistemi di sorveglianza media o attenuata, le schede vengono ricaricate mensilmente con un sistema limitativo del tempo a disposizione, tenendo conto come parametro decisivo della residenza di congiunti e conviventi.

Le schede vengono messe a disposizione degli utenti nei giorni e per il tempo previsto dal regolamento dell’istituto”. Non so se questo risolverà il problema, d’altronde oggi come oggi i controlli sono molto modesti, quindi praticamente questo sistema dovrebbe e potrebbe funzionare ed evitare tutte le complicazioni dei passaggi delle domandine, che per la verità non ci dovrebbero essere più.

 

Il carcere faccia il carcere, non può fare l’albergo dei poveri, l’ospedale psichiatrico, la casa di cura e così via

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Vorrei aggiungere una cosa che riguarda i colloqui. Le faccio un esempio: c’è una detenuta alla Giudecca che è stata in carcere in Germania ed i suoi familiari sono riusciti ad andare solo una volta a trovarla. Lei aveva un’amica conosciuta in carcere che quando è uscita andava a fare i colloqui con lei ogni settimana. Anche in Francia se arrivi al carcere, entri e fai colloquio. In Italia abbiamo delle limitazioni, per le compagne e i compagni di detenuti servono i certificati di convivenza, e poi ci sono molte difficoltà ad avere colloqui con terze persone, con amici, o con una persona che è già stata in carcere, è un po’ tutta fortemente  delimitata la questione che riguarda telefonate e colloqui.

Alessandro Margara: È interessante senz’altro vedere cosa succede negli altri sistemi, per cui si potrebbe anche arrivare ad eliminare queste limitazioni sulle persone da autorizzare per le telefonate e a lasciare essenzialmente il discorso di non eccedere oltre un certo limite, per cui la scheda sarebbe prepagata per un costo definito che verrebbe ovviamente prelevato subito. È un settore, comunque, in cui si può ancora lavorare.

 

Salvatore Pirruccio (direttore della Casa di reclusione di Padova): Volevo chiedere solo una cosa: in Italia abbiamo questo grosso problema del sovraffollamento, e credo che per l’avvenire non si risolverà in fretta. Non si riesce a prevedere l’impossibilità di portare detenuti in un istituto dove la capienza massima è già raggiunta? Se io ho in ipotesi 300 posti, l’istituto è chiuso se sono tutti occupati, non posso riceverne altri perché altrimenti la gente è accatastata e tutto quello che è previsto dalla legge diventa allora difficile da realizzare.

Alessandro Margara: Anche qui si deve dire che altri regimi conoscono soluzioni di questo genere, nel senso che ci sono Paesi dove, quando l’istituto è pieno, fuori c’è scritto “completo”. È ovvio che dov’erano previste 500 persone o anche meno, e ce ne sono 1000, le strutture non possono funzionare come dovrebbero. All’inizio di questo ordinamento si ribadisce il concetto che l’istituto deve ospitare il numero di persone per il quale è stato progettato, ma non si arriva a limitare le entrate.

Francesco Maisto: Qui c’è una parte che è proprio intitolata “Il contrasto al sovraffollamento”, è vero che non si arriva alla soluzione, che c’è in alcuni ordinamenti nord-occidentali particolarmente progrediti, in cui addirittura si può prenotare il posto. Però è anche vero che il sovraffollamento è l’alibi per non fare niente. Allora, posto che il sovraffollamento non è causato dal carcere, ma il carcere viene affollato da altre questioni, innanzitutto bisogna rilanciare le altre questioni che non funzionano e che dovrebbero funzionare al posto del carcere. Come dire: il carcere faccia il suo mestiere, il carcere faccia il carcere, non può fare l’albergo dei poveri, l’ospedale psichiatrico, la casa di cura e così via; gli altri facciano il loro mestiere. Il che non è impossibile, è possibilissimo.

Tenuto conto che il carcere è uno strumento costoso, non è vero che facendo funzionare di più il carcere si spende di meno di quanto si spenderebbe se le persone invece di stare in carcere stessero nei posti a loro deputati. Noi abbiamo un 25-30 per cento di tossicodipendenti che però non hanno commesso gravi reati: siamo nell’ambito della microcriminalità, così come abbiamo extracomunitari che non appartengono alla criminalità transnazionale, cioè commettono dei reati “artificiali”, reati senza vittima. Sto parlando di quelli che sono senza il permesso di soggiorno. Allora, bisogna incidere sulla legge degli stupefacenti e sul testo unico per quanto riguarda l’immigrazione, che non significa soltanto la Bossi-Fini, significa anche la Turco-Napolitano.

Bisogna fare delle scelte che vanno in un altro senso, cioè evitare che chi delinquente non è, gli extracomunitari che delinquenti non sono, diventino delinquenti per il solo fatto che non hanno un pezzo di carta. Vedete che così facendo se ne va il 50 per cento della popolazione carceraria, il che significa che c’è la possibilità di fare altro.

Si tratta poi di allargare le possibilità di accesso alle misure alternative. Voi avrete visto che oltre all’affidamento ordinario, cioè il 47 a voi noto, c’è una sorta di 47-bis. È un affidamento per persone che hanno un handicap sociale, e i parametri di valutazione da parte della magistratura di sorveglianza lì non sono gli stessi di quelli del 47 ordinario, si tratta di dimostrare la situazione di disagio psichico e sociale, niente altro.

Anche le Case territoriali di reintegrazione e di reinserimento sociale, in quanto dirette dal sindaco, quindi con l’impegno delle strutture locali, permetterebbero di alleggerire il carico per la polizia penitenziaria, per i funzionari, per gli assistenti sociali, per gli educatori, però in compenso dovrebbero essere la Regione e il Comune ad occuparsi di queste fasce che sono quelle più ampie di detenuti. Le più bisognose, ma anche quelle per le quali è sempre più difficile, in un regime ordinario, riuscire a fare qualcosa. Allora, questa è un po’ una “zavorra penitenziaria”. Il detenuto classico non deve essere questo, deve essere un’altra cosa.

Alessandro Margara: La questione di fondo è che per limitare l’intervento penale bisogna rendere più efficace l’intervento sociale. Per cui ecco, tutti questi progetti per fare uscire gente dal carcere e stare, per esempio, in questi istituti territoriali, sono progetti che vogliono vedere nuovamente un territorio partecipe di questo problema e che si riprende le questioni che dovrebbero essere di sua competenza. Perché i tossicodipendenti non sono seguiti adeguatamente, e perché i Ser.T. non funzionano come dovrebbero? Perché anche per loro si è ridotto lo sforzo che c’era e che era già insufficiente, ma oggi è diventato più insufficiente che mai, per cui di tossicodipendenti in carcere che potrebbero ottenere le misure alternative ce n’è una fetta considerevole.

 

Graziano Scialpi: Speriamo che nel frattempo passi anche il nuovo Codice penale che, se non erro, prevede che il giudice possa già in sentenza stabilire la misura alternativa rispetto al carcere, forse anche quello aiuterebbe un po’.

Alessandro Margara: Le misure alternative date in sentenza pongono problemi molto complessi, e generalmente quelli che le chiedono, nell’ambito politico, nell’ambito teorico di studio, non si rendono tanto conto dei problemi che pongono. Pongono problemi sia nel momento dell’inflizione – a chi si devono dare e come si devono dare –sia nel momento dell’applicazione, e cioè come si fa a stabilire le modalità con cui la misura alternativa si esegue, cosa che nella fase esecutiva è stabilita dal Tribunale di Sorveglianza.

Francesco Maisto: Poiché voi con il vostro periodico fate opinione anche nel mondo penitenziario, è bene essere chiari su questo punto. Uno degli slogan che sta andando più di moda in quest’ultimo periodo in molti ambienti è che “si esce da questo empasse con il nuovo Codice penale”. Non dico che non è così, ma lo è, secondo me, per il 60-70 per cento e non di più. Che cosa vuol dire? Credo che bisogna fare i conti con la cultura dei giudici oggi in Italia.

Voi potreste rispondermi che se il Codice prevede la detenzione domiciliare scritta in sentenza, il giudice ce la deve mettere per forza. Problema: ma come ce la mette questa detenzione domiciliare? Perché se la mette in maniera tale che l’avrò sempre e comunque, anche quando abito in un monolocale in cui impazzisco e preferisco andarmene in carcere piuttosto che stare in detenzione domiciliare, allora l’obiettivo è fallito. La cultura del giudice è determinante, perché noi abbiamo dei precedenti passati e recenti in cui c’è quello che i francesi chiamano “l’impermeabilizzazione del diritto”, cioè tu hai voglia che ci sia una legge, ma quella legge non viene applicata. Per fare un esempio ricordo che quando ero più giovane lodavamo le misure alternative, ma il vecchio professor Pisapia ricordava che “anche il Codice Zanardelli, cioè quello prima del codice Rocco, prevedeva gli arresti di fine settimana come pena, però i giudici italiani non l’hanno mai applicata”. Abbiamo un altro esempio: nel 2004 è stata fatta una modifica della disciplina della sospensione condizionale della pena, per cui una volta avuta la prima volta la sospensione condizionale, non si può avere una seconda volta, per i reati commessi dopo il 2004 naturalmente. Si può avere, però, a condizione che al posto della sospensione si offra di svolgere una attività di pubblica utilità. Sapete quanti sono i casi in cui è stata applicata questa norma in Italia? Uno solo, nei confronti di uno spacciatore dal giudice Salvini di Milano. È con questo che noi dobbiamo avere a che fare quando diciamo “pene alternative date dal giudice in sentenza”.

Seconda osservazione quando parliamo di pene alternative: le pene alternative sarebbero naturalmente per i reati di media dimensione, non per i reati gravissimi. Posto che nel Codice penale si preveda la pena alternativa per questi reati non gravi, che cosa comporta? La necessità di un’abitazione e di un minimo di reddito sufficiente, un minimo di attività lavorativa, cioè quello che attualmente poco viene offerto dalla nostra società. Dunque, la conseguenza sarebbe che in caso di violazione della pena alternativa la si sostituisce con la misura carceraria.

Questa possibilità non esiste nella legge sul giudice di pace, nella quale la violazione della pena alternativa è punita con la reclusione fino a un anno. Quindi, in un modo o nell’altro, la detenzione ritorna. Allora, concludendo questo discorso, che cosa succederebbe? Succederebbe l’assurdo, il paradosso, che la pena data come alternativa al carcere alla gran parte delle persone per le quali verrebbe prevista, in realtà si trasformerebbe non più in alternativa, ma si trasformerebbe in un carcere previsto sicuramente: questo è il punto sul quale non ci intendiamo con molte teste dure del diritto penale sostanziale.

 

Ornella Favero: Vorrei tornare un attimo sulla questione del primo comma del 4 bis, quello che riguarda i sequestri, l’associazione e altro, perché ieri ne discutevamo e in fondo, visto da qui, risultava che comunque con il 4 bis non sei più una persona ma sei una categoria, però anche le persone che hanno commesso i reati elencati in questo articolo hanno storie molto diverse. Di solito non mi va di considerare il caso singolo, però qualche volta mi sembra giusto farlo: c’è un detenuto in redazione che ha il 4 bis primo comma per un sequestro e si farà 16 anni di carcere ininterrotti, senza un permesso, per un reato commesso quando era praticamente un ragazzo, senza vittime reali, mentre ci sono poi persone qui che hanno commesso un omicidio ed escono regolarmente in permesso, e giustamente, io certo non critico questo fatto. A me pare però che ci sia una disparità di trattamento, perché il detenuto che ha il 4 bis primo comma fa parte di una categoria, invece l’omicida ha una sua storia, un suo reato che viene valutato e si dice: “Va bene, tu dopo un certo numero di anni puoi accedere ai permessi”. Ho visto che qualcosa è modificato nella sua proposta, però ancora con delle grossissime difficoltà per accedere alle misure alternative o ai permessi.

Alessandro Margara: Non grossissime, tranne una che è quella fondamentale, cioè che ci vuole parecchia galera per arrivare a qualcosa, mettiamo la semilibertà, che è il caso che ci interessa, per arrivare a questa si devono fare due terzi della pena, e si dice due terzi della pena ma senza calcolare la liberazione anticipata. È vero che il discorso è stato introdotto con una normativa che la Corte costituzionale non ha ritenuto pertinente, non ha ritenuto soddisfacente, perché ha detto appunto che qui si arrivava al “tipo di autore” e questo è contrario all’articolo 27 terzo comma della Costituzione. La questione, per esempio, della legge ex Cirielli sui recidivi è la stessa cosa: effettivamente anche questa entra nel discorso del “tipo di autore di reato” e quindi ignora la finalità rieducativa della pena che dovrebbe riguardare un po’ tutti. È un aspetto non facile introdurre dei termini di ammissibilità meno rigidi di quelli che ho introdotto in questo progetto, fermo restando che bisogna trovare il modo per superare questa cosa.

 

Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Ma per sfuggire a questo automatismo e riportare a galla quella che è la rieducazione, non sarebbe più opportuno fare in modo che il 4 bis non sia così automatico per chi ha commesso un determinato reato, ma che sia un organo, tipo il magistrato di sorveglianza, a decidere, tenuto conto di come è stato commesso il reato e il contesto, se sia il caso di applicare oppure no il 4 bis? Cioè di delegare qualcuno perché l’applicazione sia decisa in un secondo momento. Penso all’articolo 74 della legge 309/90, il traffico internazionale di stupefacenti: questo articolo, per esempio, comprende svariati tipi di autore, da quello che traffica un quintale di cocaina a chi va a prendersi un etto all’estero; anche lì che ci sia un’autorità che decida se sia il caso di applicare il 4 bis oppure no.

Alessandro Margara: È la legge che stabilisce se applicare o no il 4 bis. Se si introduce invece un interprete ulteriore che differenzia tra i casi, c’è una violazione di uguaglianza anche all’interno dello stesso articolo, che naturalmente può però essere motivata. Nel progetto di legge presentato con prima firma Boato, in materia di riforma della 309/90, l’articolo 74 viene limitato, perché anche nella mia specifica esperienza di 74 se ne trovano di tutte la qualità. Si dice narcotrafficanti, ma i narcotrafficanti stanno in Bolivia, in Colombia, anche l’Italia ha i suoi pezzi buoni, ma in effetti molti 74 sono modesti concorsi di persona nel reato.

Per la verità qualcosa si fece nel 1992, subito dopo il decreto legge Martelli, nell’eccezione di incostituzionalità nella quale puntavamo molto sul fatto che questi reati non avevano sempre dei protagonisti appartenenti alla criminalità organizzata, e questo è un altro degli aspetti. Sotto questo profilo, effettivamente, si giustificherebbe anche un po’ quello che dite, nel senso che ci sono sicuramente, e in un certo periodo di tempo ci furono pacificamente, quasi tutti i sequestri di persona rimessi ad iniziative individuali, sostanzialmente in piccoli gruppi che non avevano nessuna parentela con la criminalità organizzata, però poi, accanto a questi, c’erano anche quelli della criminalità organizzata. Potrebbe esserci la soluzione di accertare volta per volta la permanenza dei collegamenti con la criminalità organizzata, farla diventare un elemento della ammissibilità della preclusione, cioè dire che la preclusione c’è se in effetti la realtà concreta del fatto commesso è relativa alla criminalità organizzata. Lavorare su questo è possibile.

 

L’espulsione revocata condiziona i provvedimenti amministrativi, nel senso che i provvedimenti amministrativi sono soccombenti rispetto alla decisione di revoca del Magistrato di Sorveglianza

 

Elton Kalica: Ho visto che nell’articolo 1 del vostro progetto è stato inserito che gli stranieri, anche se sono sprovvisti del permesso di soggiorno, in carcere possono avere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Questo è secondo me un grande passo perché a noi permette prima di tutto di avere la residenza nella città in cui si trova l’istituto, che adesso per chi non è in regola è impossibile, e poi altri effetti per quello che riguarda il servizio sanitario, oppure avere delle borse di studio dalla Regione o da altri enti. Poi c’è anche un altro articolo che riconosce il diritto alle relazioni con i familiari. Stavo pensando che congiuntamente questi due articoli, cioè il fatto di avere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia e il diritto alla relazione familiare, dovrebbero far sì che chi ha la famiglia in Italia, regolarmente inserita nella società in cui vive da alcuni anni, al momento del fine pena, mentre adesso con la Bossi-Fini deve essere espulso, rimanga invece nel territorio italiano in rispetto al diritto all’unità familiare.

Alessandro Margara: Nell’articolo 100 si favorisce il riconoscimento, se l’esecuzione della pena è stata soddisfacente, che l’espulsione deve venire meno, e che l’espulsione revocata condiziona i provvedimenti amministrativi, nel senso che i provvedimenti amministrativi sono soccombenti rispetto alla decisione di revoca del Magistrato di Sorveglianza. L’espulsione della Bossi-Fini è un’espulsione che ha la caratteristica di nascere esecutiva, cioè se viene data si viene espulsi, e allora contrasta un poco con questa parte qui riguardante l’esecuzione della pena terminata in modo soddisfacente. Posso dire che c’è stata recentemente una questione che riguardava una ragazza sudamericana, che era fuori con il lavoro all’esterno, stavano per decidere se concederle la semilibertà, ma nel frattempo è andata sotto i due anni di pena e le hanno dato l’espulsione. Ecco, per la verità il Tribunale di Sorveglianza è stato chiamato a dire se in questi casi l’espulsione incideva su una sorta di diritto che lei aveva maturato in relazione a quelle sentenze che riguardavano la semilibertà, secondo cui, quando uno è già dentro il percorso di reinserimento, non gli si può levare quello che ha già avuto, allora l’espulsione non dovrebbe essere data in questi casi. Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ha deciso in questo senso.

Francesco Maisto: La disciplina legislativa, cioè la legge sull’immigrazione, si deve ispirare a principi, diciamo sani, così come anche la disciplina sugli stupefacenti; poi viene il problema del regime penitenziario, invece molte volte attraverso un modo vizioso e viziato, si cerca attraverso il penitenziario di risolvere le grane che dà la disciplina sull’immigrazione o quella sugli stupefacenti. Ma questo è sbagliato, perché è chiaro che la legge penitenziaria, se resta l’articolo 4 bis, non può che dire: “Chi è associato a delinquere per traffico di stupefacenti (articolo 74), resta nel 4 bis”, però se si modifica il 74, prevedendo per esempio una diversificazione delle associazioni, nel senso che non tutte le associazioni sono uguali, e nel senso che non tutti gli associati sono uguali, allora vedete che il riverbero sul penitenziario è diverso.

Alessandro Margara: Una riflessione che si può fare per concludere su questo punto è che l’intervento che si è adottato all’interno di questa proposta di legge è molto limitato, e che si può fare senz’altro qualcosa di più “estroso”, a partire dal riconoscere se l’autore del reato è veramente un soldato oppure se è un graduato o addirittura se è un generale, allora le cose cambiano, e poi, probabilmente si può determinare un maggior rispetto della necessità di non seguire le vie del “tipo di autore di reato”.

 

 

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