Edoardo Albinati

 

I consigli di scrittura di Edoardo Albinati agli studenti

Quasi nessuno sa cosa c’è dietro quelle mura, quelle sbarre

Per questo Edoardo Albinati, scrittore e insegnante a Rebibbia, ha invitato gli studenti, che hanno preso parte al progetto con il carcere, a “tenersi un po’ stretta” quest’occasione che è stata data loro, di entrare in carcere e di vedere e capire qualcosa di quel mondo

 

(Incontro avvenuto nel giugno 2009)

 

Abbiamo chiesto a Edoardo Albinati di scegliere i testi più interessanti per il concorso di scrittura riservato agli studenti coinvolti nel progetto scuole-carcere, perché Albinati è scrittore e insegnante di lettere nel carcere di Rebibbia, e questo suo doppio ruolo gli ha permesso di scrivere “Maggio Selvaggio”, uno dei libri più interessanti sul carcere, nella forma di un diario fra “il dentro e il fuori”. A Edoardo Albinati abbiamo rivolto alcune domande nel corso dell’incontro finale del progetto, quelli che seguono sono i suoi “consigli di scrittura” agli studenti.

 

Molti testi dei ragazzi che abbiamo ricevuto per il concorso sono proprio scritti sotto forma di pagine di diario o di lettera, quindi ti chiediamo se puoi darci dei consigli di scrittura legati anche a questo genere.

Ho letto i racconti che avete scritto, dopo la vostra esperienza di incontro con i detenuti, dentro e fuori il carcere, e in effetti ci sono molte sorprendenti somiglianze con quello che ho scritto io, naturalmente in una forma più estesa dato che da parecchi anni lavoro con il carcere, vi insegno, e ho scritto un libro, “Maggio selvaggio”, che è il diario di un anno scolastico.

Il diario ha di vantaggioso, e di difficile al tempo stesso per chi lo scrive, che in un certo senso non serve pensare molto, non devi scegliere o inventare quello che devi scrivere, devi semplicemente raccogliere alla fine della giornata quello che è accaduto.

Il problema è: che cosa effettivamente è accaduto? cosa finirà sulla pagina e cosa no? in che senso un avvenimento è interessante e un altro no? Una costante in molti dei vostri racconti è la descrizione di questa esperienza che fanno tutti quelli che hanno conosciuto il carcere, o perché ci sono stati chiusi dentro, o perché ci sono andati in visita, come avete fatto voi, che avete avuto la possibilità di farlo, che è l’esperienza del primo ingresso.

Ecco, ho scoperto che è molto difficile da raccontare quel che si prova quando si entra per la prima volta in carcere, quando si sperimenta qualcosa che è assolutamente sconosciuto. Chi di voi ha potuto entrare nel carcere, ha vissuto paradossalmente una esperienza privilegiata, il novantanove per cento delle persone non sanno affatto cosa vi sia dietro le mura. Quindi tenetevela stretta quest’occasione che vi è stata data, perché sia che vi abbia avvicinati a quella realtà, sia che quella realtà vi abbia respinto, qualsiasi cosa voi abbiate pensato del carcere e delle persone che vi sono chiuse dentro, voi avete vissuto un’esperienza unica, se adesso uscite per strada e incontrate la gente, quasi nessuno sa cosa c’è dietro quelle mura, quelle sbarre, eppure molte prigioni stanno davanti agli occhi, a Roma per esempio Regina Coeli è proprio nel centro, come San Vittore è nel centro di Milano, così in mezzo a tante altre città si erge questa fortezza, questo castello, dietro le cui mura nessuno sa bene cosa accada.

Ecco, voi almeno per un istante l’avete attraversato, questo muraglione, questa esperienza-limite, eppure una volta sperimentata, è veramente difficile raccontarla, io personalmente ho sempre avuto parecchi problemi, e a loro volta i detenuti quando scrivono non hanno facilità a parlare della vita carceraria, proprio perché ci stanno immersi dentro, murati dentro.

In alcuni vostri testi ho visto molto ben descritto lo choc emotivo che è fatto soprattutto di percezioni sensoriali, la luce, i rumori, le sagome, proprio uno dei vostri racconti descriveva le sagome delle persone, che erano viste nella luce abbagliante del carcere.

Il carcere è un luogo di contrasti: o è troppo buio, o è troppo luminoso, la luce spesso è fastidiosa oppure manca. Ecco, uno dei compiti più importanti e delicati è proprio descrivere le sensazioni fisiche.

Lo raccomanderei come esercizio a chi ha voglia di farlo, perché il diario in fondo è la forma più semplice e più primitiva di scrittura, lo può scrivere chiunque, non c’è bisogno di essere uno scrittore, né tanto meno un grande scrittore per tenere un diario, bene, in questo diario inviterei a mettere sulla pagina le proprie sensazioni fisiche, quello che abbiamo provato di piacere, di dolore, di visivo, di uditivo.

Cioè quello che colpisce prima di tutto i nostri sensi, poi verranno i pensieri, le riflessioni, verranno le idee, ma dopo, la prima cosa è un’altra, è la propria percezione corporale, fisica.

Ecco, la cosa più difficile da descrivere del carcere probabilmente è proprio la percezione sensoriale, per esempio quella dello scorrere del tempo. Quindi bravo chi di voi è riuscito a metterla su carta. Fra l’altro una cosa io dico sempre, un po’ per tranquillizzare le persone, i ragazzi, i miei detenuti che sono degli omaccioni grandi e grossi, eppure hanno un po’ paura della scrittura, in realtà hanno paura di molte cose, ma anche la scrittura li intimorisce, li intimidisce il fatto di non essere capaci, “io non so scrivere”, allora io gli dico, guardate che nessuno sa scrivere, non è una cosa naturale, parlare è naturale, invece scrivere è comunque una operazione innaturale, artificiale, artigianale, bisogna un po’ imparare a farla, ma per imparare a farla bisogna cominciare a farla, quindi è una ben strana attività la scrittura, in cui tu impari quello che stai facendo soltanto se lo fai e mentre lo fai, nessuno può imparare prima di avere scritto.

Perciò bisogna cominciare con dei fallimenti, scrivendo male, bisogna accettare il fatto che non si sia capaci, non vi è niente di diverso, se ci pensate bene, dal tirar fuori il suono da uno strumento musicale, o praticare uno sport, all’inizio questa cosa non la si sa fare, nessuno salta l’asta al primo tentativo, nessuno “nasce imparato”, nessuno nasce scrittore.

Il diario è forse la forma più immediata, semplice, diretta, però, ed ecco la difficoltà di cui parlavo prima, è anche una forma molto impegnativa perché siamo costretti a parlare di noi stessi, siamo costretti a rivelarci, a dire ciò che abbiamo provato e pensato, le nostre debolezze, le nostre paure.

In uno dei vostri racconti, una ammissione che mi ha colpito per la sua franchezza, per la sua onestà, è là dove l’autrice dice: bene, ho conosciuto alcuni detenuti, ma sono stata delusa dal fatto che tra di loro non vi era un assassino. Come mai? Perché se ci fosse stato un omicida l’esperienza sarebbe stato più “entusiasmante”, le avrebbe fatto provare sentimenti più forti. É una confessione forte quanto paradossale: ma come, ti fa più piacere incontrare uno che ha versato sangue, che ha ammazzato qualcuno? Bene, questa ragazza ha avuto l’onestà di ammettere che l’omicida sprigiona un suo sinistro fascino, una sua sinistra attrazione, ed è molto onesto ammetterlo, e del resto basti pensare al cinema e alla letteratura, i cattivi, più sono cattivi, e più attirano, anche morbosamente, la nostra attenzione.

Allora è importante essere molto franchi, essere sinceri, diretti, e non avere paura di dire cose sconvenienti, mentre il nostro più grande timore è proprio quello di apparire sconvenienti, tutti vogliono sembrare migliori di quello che sono, in un diario è un po’ difficile, siccome stai parlando con te stesso, non puoi barare. Per cui occorre essere spregiudicati, e al tempo stesso onesti, poi dopo può darsi che si svilupperà un’abilità, una capacità, e verrà la scrittura vera e propria.

 

Proprio per questa tua esperienza a metà tra carcere e scuola, tu poi hai insegnato anche fuori, ti abbiamo sentito più volte paragonare per certi aspetti la scuola al carcere. Puoi tornare su questa riflessione, e dirci che cosa hanno di simile queste due realtà?

Voglio naturalmente esagerare, però effettivamente la scuola, quella normale, quella in cui andate voi, quella in cui siamo andati tutti, è una forma larvale ed estemporanea di reclusione, bene o male star chiusi dentro ha un po’ del carcere. Se uno se le fa tutte, le scuole, dalla prima elementare fino al diploma, ci sta parecchio “in galera”, è una pena lunga, sono 13 anni!

É vero anche che poi all’una, all’una e mezza, alle due, si esce e si torna nel mondo libero, ma nel momento in cui si è dentro la classe, non si può andare via, un ragazzo insomma non può “evadere”.

Credo che sia questa l’immagine comune che noi tutti abbiamo del carcere, magari non ci siamo mai entrati, in una galera vera e propria, però abbiamo sperimentato l’essere coatti, l’essere costretti, e in un certo senso anche i professori, cosa che di solito non viene mai sottolineata, prima di essere insegnanti delle loro rispettive materie sono dei custodi. Un grande scrittore americano, John Updike, diceva che in definitiva la scuola è il luogo dove vengono rinchiusi gli individui quando la famiglia non li vuole più, e il mondo del lavoro non è ancora in grado di assumerli.

E ormai questo fenomeno lo fanno a cominciare dai 3 o dai 4 anni, addirittura la scuola è anticipata con i nidi, le famiglie si disfano dei loro figli già a pochi mesi di vita… però diciamo che sicuramente tra i sei e i diciotto anni, dove devono andare queste persone, quando la mamma e il papà non vogliono o non hanno tempo di badarci, però non sono ancora così autonomi da andare a lavorare? La scuola svolge questa funzione primaria che molto spesso viene dimenticata. E allora, dato che devono stare lì dentro ogni giorno per 5 o 6 ore, o di più, tanto vale anche insegnargli a leggere e a scrivere, a far di conto, e poi il resto, la chimica, la storia dell’arte, l’inglese… ma insomma è una piccola caserma o forse un riformatorio.

Per questo mi sono chiesto: ma allora scusa, se questi già sono in carcere e per di più, io e gli altri professori, li sottoponiamo ad una ulteriore disciplina, ad un ulteriore restringimento, cioè dentro alla galera c’è una piccola galera che si chiama scuola, sto così forse aumentando il peso della loro reclusione? Ma poi ho pensato che, della reclusione, l’unico aspetto positivo, se mai ce n’è uno, è il fatto che si viene separati dal resto, e mentre si viene separati dal resto ci si può dedicare a qualcosa che altrimenti non si farebbe, in questo caso lo studio.

Allora è vero che la scuola in carcere è un’ulteriore restrizione, ma almeno in quelle 3, 4, 5 ore viene fatto qualcosa che forse è difficile, noioso, in qualche misura anche doloroso, perché imparare è difficile e doloroso, come dicevo prima a proposito del progredire in uno sport o suonare uno strumento. Mettetevi a eseguire scale di pianoforte per ore e ore, è una cosa estenuante, mettetevi a fare esercizi di matematica, è duro, faticoso, però quest’obbligo, questa disciplina, lo sforzo di fare vasche di nuoto o giri di campo fino a tirar fuori la lingua perché si è senza fiato, questa “forzatura” dei limiti di un individuo lo fa crescere, lo trasforma, lo mette in grado poi di esprimere meglio ciò che egli è.

Dunque, dentro il carcere, la scuola è essa stessa una coazione che almeno ha qualche dignità, un po’ di senso. Be’, ci sarebbe anche il lavoro… in prigione ci sarebbe un’altra cosa che è dura, noiosa, faticosa eppure utile, che si chiama lavoro, ma purtroppo nel novanta per cento dei casi i detenuti non riescono ad averlo, un lavoro,e dunque sono destinati a stare chiusi in cella.

Io insegno nel nuovo complesso di Rebibbia, e tranne le poche ore d’aria al giorno, il resto della giornata della gran parte dei detenuti è la cella, stare in branda, e chiuso in cella nessuno può sviluppare niente, zero, ci si aspetta che possa recuperare, ci si illude che possa riabilitarsi, che possa migliorare rispetto a ciò che era quando è entrato in prigione, ma non si vede in che modo questo possa avvenire.

Allora la scuola, la lettura, l’attività fisica, il lavoro, sono le poche occasioni che il detenuto ha per utilizzare il tempo, impiegare il tempo. L’arte più difficile da apprendere nella vita, ma in galera ancora di più, è l’arte di passare il tempo, cioè letteralmente come si fa ad arrivare dalla mattina alla sera. Ogni detenuto studia un suo modo, un suo percorso, trovandosi quasi sempre in una specie di deserto di occasioni.

 

Tu hai detto che la scrittura non è una cosa naturale, ma artigianale, forse in carcere è anche un modo di darsi una disciplina, delle regole. Allora in che cosa, e come ci si può esercitare? Quale forma di artigianato è la scrittura? E un’ultima questione: come si può lavorare sulle parole? Nei testi dei ragazzi c’è, per esempio, molto spesso una parola che ci innervosisce, che è “buonista”, cioè è sufficiente ragionare, cercare di riflettere su una realtà cosi complessa come il carcere, senza accettare i luoghi comuni, semplicemente desiderando andare più a fondo e vederne tutta la complessità, per venire accusati di essere buonisti.

Ecco ci piacerebbe allora ragionare anche sulle parole, e su questa parola.

La “scuola” per imparare a scrivere, è prima di tutto ovviamente una scuola di lettura, si impara ad avere confidenza con le parole leggendo libri di ogni tipo.

Quest’anno avevo come studente un detenuto, che timidamente verso la metà dell’anno scolastico ha cominciato a chiedermi dei libri da leggere, io non avevo ancora capito che tipo era, allora che cosa gli dovevo dare da leggere? qualcosa di facile, oppure di difficile, gli dovevo dare Dan Brown, piuttosto che uno scrittore inglese del 700? Con i detenuti, ma con i ragazzi a scuola è la stessa cosa, anzi con chiunque, cosi generalizziamo, insomma se qualcuno viene lì e ti chiede un consiglio, “cosa devo leggere?”, tu devi avere il fiuto di suggerirgli proprio la cosa giusta. Se questa persona verrà respinta dalla lettura che gli hai consigliato, perché magari è troppo difficile, o troppo stupida per lui, poi non so se ci sarà una seconda occasione, una seconda richiesta, quindi lo devi beccare al momento giusto con il libro che fa per lui.

Allora con questo mio studente ho fatto una specie di esperimento suicida, gli ho dato da leggere Goethe, Le affinità elettive, e mi sono detto: o la va o la spacca, se passa questo, se non si infrange alla pagina 20, come mi ero infranto io, a 18 anni, la prima volta che ho provato a leggerlo… allora potrà leggere tutto il resto. Tutto. Beh, mi è andata bene, ci è andata bene, il libro gli è piaciuto, lo so, è stato un rischio, è come fare un tuffo con un coefficiente alto, per cui hai senz’altro più probabilità di sbagliare. Ma adesso lui ha capito che gli piace davvero leggere. E se può leggere Goethe, allora si arriva anche a Dan Brown, invece di fare il contrario. Normalmente la gente crede che si debba incominciare con Moccia e arrivare a Dante. Invece io penso che se cominci con Moccia, a Moccia rimani, quindi tanto vale fare degli esperimenti più audaci, insomma.

Sulla questione delle parole, purtroppo ve ne sono alcune che entrano in circolo come un automatismo, e di solito sono i giornali o le televisioni a trasmetterle, e le trasmettono non solo ai ragazzi, ma anche agli adulti, gli adulti parlano in modo stereotipato tanto quanto i ragazzi, anzi forse di più.

Quando io ho fatto il concorso a cattedra, insieme alla persona seduta accanto a me, che aveva 35 o 40 anni e stava presentandosi al concorso probabilmente per la decima volta, commentavamo il testo un po’ strampalato del tema che ci era stato dato da svolgere. Allora, per dire che dovevamo rassegnarci, lei mi guardò negli occhi e disse: “be’, che ci vuoi fare, o così… o Pomì!”, capito, “o così o Pomì”, cioè lo slogan pubblicitario di una salsa di pomodori che all’epoca passavano in TV tutte le sere. Ricordo che pensai: madonna santa, questa è una laureata in lettere! è una futura professoressa, prima o poi questo benedetto concorso lo passerà e comunque sta già insegnando da qualche parte come supplente a dei disgraziati studenti… e adopera questi stereotipi televisivi!

Anche l’accusa di “buonismo” viene ripetuta in tv nei dibattiti politici, continuamente, fino alla nausea, la usano persino i ministri! Il nostro cervello è pigro, tende a servirsi automaticamente delle formule più banali, che ne so, per dire che un uomo è virile si dice che è un “macho”, ma “macho” è un termine insensato quanto buonista.

Non so se avete notato in questi ultimi tempi l’abuso dell’espressione “quant’altro”, non si era mai sentita nella lingua italiana, invece da qualche anno quando si fa una lista alla fine si dice “…e quant’altro”.

Nei dibattiti, per contestare e ridicolizzare le opinioni di un altro, se per esempio sulla questione della galera si dimostra un pochino dalla parte dei detenuti nel difenderne i diritti minimi, ovvii e fondamentali, lo si accusa di essere un “buonista”, e lo si butta lì con un po’ di disprezzo, con un sorrisetto di compatimento, come per dire: tu vivi nel mondo dei sogni, vedi tutto rosa, sei come Biancaneve.

Ma le parole dalle quali guardarsi sono tante. Pensate per esempio a “tsunami”, dopo che c’era stato lo tsunami vero e proprio, in Indonesia, quello sì davvero terrificante, beh è diventato “uno tsunami” qualsiasi cosa… ci sono tsunami nella politica, in economia, nelle squadre di calcio, cadono due gocce d’acqua e c’è stato lo tsunami…

 

 

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