Incontro con le educatrici di Padova

 

Rieducazione e revisione critica: che farne?

Un incontro con le educatrici del Due Palazzi

 

(Realizzato nel mese di novembre 1998)

 

A cura della Redazione

 

Cominciamo dal nome: vi va bene essere chiamate "educatrici"? Credete sia indicativo della funzione che svolgete?

Rosa Di Marco: Se consideriamo il significato letterale del verbo educare (dal latino educere = tirare fuori), credo corrisponda ad uno dei nostri compiti, quello di aiutare le persone a dare il meglio di sé.

Lorena Orazi: Su questo tema è in corso una sorta di dibattito per capire se il nome ha ancora un senso e le indicazioni sono di considerare gli educatori penitenziari come altre figure di operatori sociali: incaricati di attivare una serie di risorse e di "metterle in rete", privilegiando il collegamento con l’esterno.

Il ruolo dell’educatore e la terminologia relativa alla sua professione in realtà sono stati introdotti nel 1975, quando l’approccio culturale al problema della devianza era univoco si trattava di una malattia sociale da curare. Per questo il nostro linguaggio ricalca quello dei medici e prevede una "diagnosi" (osservazione scientifica della personalità) ed una "terapia" (programma di trattamento). Dalla riforma penitenziaria sono trascorsi 23 anni e credo sia matura una nuova revisione, perlomeno dei criteri di intervento.

 

Come inizia e si sviluppa il rapporto tra educatore e detenuto?

Rosa Di Marco: Innanzitutto distinguerei il lavoro di "osservazione" dalle cosiddette domandine, poi che molte delle richieste di colloqui riguardano il disbrigo di pratiche burocratiche.

Attualmente a Padova i tempi per arrivare alla stesura della "sintesi", cioè del programma di trattamento che riteniamo più adeguato alle esigenze di ogni persona, sono contenuti: 9-10 mesi, contro i due anni che erano necessari fino a qualche tempo fa.

Giulia Casciani: Il programma di trattamento non è, comunque, un elemento fisso e definitivo ma viene continuamente aggiornato. La posizione di ogni detenuto viene periodicamente riconsiderata, indipendentemente dalle eventuali procedure giuridiche in corso.

Lorena Orazi: Nel rapporto con il detenuto la prospettiva è necessariamente rivolta "in avanti" perché questo non e il luogo in cui viene comminata la pena, ma quello in cui si sconta la condanna. Se una persona ritiene di essere stata ingiustamente condannata io non posso aiutarla a dimostrare la sua innocenza, non posso occuparmi di quanto è avvenuto nel processo: di quello sono competenti i Magistrati. Posso invece pianificare con lei il suo futuro.

Liberata De Lorenzo: Per quel che riguarda il criterio che usiamo per decidere quale detenuto prendere in considerazione per primo, è la data di ingresso nell’istituto che conta; fanno eccezione solo alcuni "casi" particolari, le cui sintesi vengono richieste dal Magistrato di Sorveglianza, oppure persone con pene molto brevi che sarebbero penalizzate dai normali tempi di stesura.

 

Cosa ne pensate della partecipazione degli insegnanti e dei volontari alla fase di predisposizione del programma di trattamento, nel caso sia richiesta dal detenuto stesso?

Rosa Di Marco: La loro partecipazione è prevista dalla legge e noi siamo ovviamente favorevoli; possiamo così raccogliere elementi di conoscenza della persona che potrebbero sfuggirci.

Lorena Orazi: Il volontario o l’insegnante può contribuire alla stesura della sintesi e raccontare il suo rapporto con la persona, però non partecipa alla definizione effettiva del programma, come fanno invece gli operatori istituzionali.

 

Ritenete corretto svolgere la funzione di "rieducazione morale" dei condannati (o comunque di verificare che essa avvenga), cioè richiedere ai detenuti di fare la cosiddetta "revisione critica"?

Liberata De Lorenzo: Non credo che i concetti di "rieducazione morale" e di "rieducazione sociale" possano essere facilmente separati, perché una corretta convivenza sociale presuppone una adesione a dei valori morali.

 

Sì, ma i valori morali dovrebbero appartenere alla sfera della coscienza, che è cosa diversa dal reinserimento in società. E poi a volte succede che una persona sia ingiustamente condannata: come può ravvedersi, o fare la "revisione critica del passato" che gli viene richiesta?

Antonella Barone: La revisione critica è una formula che a volte viene richiesta per avere un "giudizio prognostico" sulla possibilità o meno che una persona torni a delinquere, ma è chiaro che non esiste valutazione scientifica del processo di cambiamento di una persona: noi possiamo solo offrire delle opportunità di cambiare.

Lorena Orazi: Secondo la giurisprudenza l’assenza di revisione critica non è ostativa alla concessione di benefici, anche se è vero che la Magistratura di Sorveglianza a volte respinge le istanze per la mancanza anche parziale della "revisione critica del passato deviante".

Antonella Barone: Solitamente, quando il detenuto è certo della sua innocenza e rifiuta la revisione critica, evito di farne riferimento nella sintesi per non pregiudicarne la posizione.

 

I detenuti possono aver copia della propria sintesi?

Lorena Orazi: Per ragioni di sicurezza la Direzione non può rilasciare copia della sintesi (così come dei rapporti disciplinari); è possibile richiedere copia della stessa tramite il proprio legale, direttamente in tribunale. Presso l’ufficio matricola si può leggere parzialmente il documento in quanto alcune parti potrebbero essere secretate. Personalmente informo sempre i detenuti di cui mi occupo di quanto ho scritto su di loro (anche tutte le altre educatrici confermano lo stesso comportamento).

 

Quali sono le "ragioni di sicurezza" che impediscono di avere copia dei documenti benché esista una legge sulla trasparenza delle pubbliche amministrazioni?

Liberata De Lorenzo: La riservatezza riguarda per esempio eventuali informazioni particolari che sono state raccolte all’esterno come nel caso di rifiuto dei familiari di riprendere il detenuto in casa; sarebbe scorretto, per la persona interessata, venire a conoscenza del fatto in questo modo.

 

Gli operatori che hanno rapporti più frequenti con i detenuti sono gli agenti; qual è, di norma, il loro apporto al lavoro dell’equipe?

Giulia Casciani: Di solito alla stesura della sintesi partecipa un Ispettore della P. P., oppure, se il detenuto che in quel momento è alla nostra attenzione svolge un lavoro o partecipa ad un corso scolastico, l’agente incaricato di seguire queste attività, che riferisce essenzialmente sulla condotta del detenuto ed, a volte, apporta elementi utili che a noi erano sfuggiti.

Rosa Di Marco: Non è vero, tra l’altro, che gli agenti riferiscono soltanto notizie negative, come i rapporti disciplinari. Abbiamo anche avuto da parte loro proposte di ammissione all’art. 21 di detenuti.

 

Quale importanza hanno al Due Palazzi le attività culturali nel percorso di "risocializzazione"?

Lorena Orazi: Basta guardare il numero dei corsi scolastici e tutte le altre iniziative attivate per rendersene conto. Abbiamo anche la fortuna di avere degli Enti locali particolarmente disponibili alla promozione di progetti per il riavvicinamento tra carcere e territorio. Le carceri di Padova, Parma e Rebibbia sono le uniche in Italia dalle quali i detenuti escono per fare del volontariato.

 

Cosa ne pensate delle cooperative sociali costituite da detenuti e/o ex detenuti?

Giulia Casciani: Tutto ciò che può contribuire a portare i detenuti a lavorare fuori dal carcere è bene accetto, quindi anche questo tipo di iniziative.

 

Ritenete che sarebbe opportuno continuare a seguire i detenuti ammessi alle misure alternative?

Lorena Orazi: Per legge il problema non rientra nelle nostre competenze ma in quelle delle assistenti sociali del CSSA; si è voluto definire una netta divisione tra "interno" ed "esterno", ma questa divisione, oggi, non è più così assoluta in quanto le occasioni di contatto sono molto frequenti.

Antonella Barone: In funzione proprio del fatto che sono sempre più numerose per i detenuti le opportunità di accesso al "trattamento esterno", oggi per noi è limitativo e anche artificioso restare confinati all’interno, la nostra professionalità potrebbe meglio esprimersi anche applicata "all’area penale esterna".

 

In una recente dichiarazione anche Alessandro Margara, direttore nazionale del D.A.P. (Dipartimento amministrazione penitenziaria), sostiene l’importanza dell’"osservazione esterna".

Liberata De Lorenzo: Certo una osservazione esterna potrebbe essere molto positiva per approfondire la conoscenza delle persone, che all’esterno, senza i condizionamenti che il carcere impone, sono naturalmente diverse.

Lorena Orazi: D’altro canto bisogna fare attenzione che la nostra presenza non condizioni il detenuto; magari aspettava il permesso per sentirsi libero ed indipendente; si trova invece vicino l’ingombrante presenza della educatrice.

 

Con l’entrata in vigore della legge Simeone - Saraceni è cambiato qualcosa nel vostro lavoro?

Liberata De Lorenzo: ci sono arrivate circa 500 richieste di scarcerazione, abbiamo dovuto lavorare parecchio per corredarle tutte con le opportune informazioni prima di trasmetterle al tribunale. Per ora è stata accolta non più di una decina di domande e quindi pochi detenuti hanno potuto lasciare il carcere.

Il Magistrato di Sorveglianza, infatti, ha potuto decidere solamente sulla concessione della "detenzione domiciliare" per quanti avrebbero avuto "grave pregiudizio" dalla prosecuzione della pena, oltre che sulla sospensione della pena in attesa di affidamento ai servizi sociali.

 

Educatrici per vocazione o per caso?

 

Per finire, come siete arrivate a fare questo lavoro?

Giulia Casciani: Per quel che mi riguarda, il caso ha voluto che si realizzasse un desiderio nato ai tempi del liceo.

Antonella Barone: Potrei dire di essere un’educatrice per caso, ma in realtà è l’unico concorso che ho fatto in vita mia. Credo quindi di esserci stata portata da un certo interesse per la devianza e per la tossicodipendenza, perché sono cresciuta vedendone tanta intorno a me.

Liberata De Lorenzo: Anch’io posso dire di esserci arrivata per caso, ho fatto il concorso senza essere preparata specificamente, poi mi sono iscritta alla facoltà di Sociologia ed ho avuto modo di acquisire una importante e specifica preparazione.

Rosa Di Marco: Ho scelto questo lavoro e sono contenta di averlo fatto perché tuttora mi piace. Nel 1988 feci un concorso e divenni vigilatrice penitenziaria, così ebbi modo di vedere da vicino com’era il carcere e il lavoro che svolgevano le educatrici. Dopo sei mesi mi presentai ad un concorso per "interni" e lo vinsi, divenendo educatrice.

Lorena Orazi: Il concorso l’ho fatto per caso: ero disoccupata ed un’amica mi propose di farlo assieme a lei. Lei non è diventata educatrice, invece io sono qui.

Alessandra (Tirocinante): Lo studio scienze dell’educazione, e non ho ancora deciso se verrò a lavorare in carcere. Ora sto preparando la tesi di laurea proprio sul trattamento rieducativo dei detenuti. Ho comunque sempre avuto una istintiva vocazione a portare aiuto a chi è in difficoltà, e con la stessa vocazione ho scelto l’indirizzo dei miei studi.

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