Discussioni in redazione

 

Temo ciò che troverò una volta tornata libera

Il dopo carcere, esaurita in fretta l’ebbrezza della libertà, è fatto anche di ansia, di incertezze, del timore di sentirsi “l’ospite in casa”

 

(Realizzata nel mese di ottobre 2005)

 

a cura della redazione della Giudecca

 

Le aspettative che le donne detenute hanno rispetto al dopo carcere: di questo abbiamo parlato in redazione, per capire se una persona si prepara un po’ alle difficoltà dell’uscita dalla galera oppure se si crea tante illusioni e basta. Ed è destinata quindi a subire ben presto un mare di delusioni e a trovarsi a combattere con le frustrazioni che sono tanto più forti, quanto più uno ha coltivato, stando in carcere, sogni e fantasie poco realistici sulla libertà.

 

Ina: Io sto per uscire a breve, molto breve, e aspettative sinceramente non ne ho, nel senso che ho tante certezze, io sono anche presuntuosa a dire questo, però è quello che sento. Sarà perché sono stata tanto seguita da casa mia, da mia figlia in particolare, e quindi quando vado fuori penso di tornare a prendere quello che ho lasciato: le mie amicizie infatti non si sono mai interrotte e i miei rapporti con l’esterno ci sono sempre stati, anzi da qui dentro sono diventati più solidi. Ho anche conosciuto persone nuove che quando sarò fuori sicuramente contatterò. Esco già con un lavoro e quindi sono avvantaggiata rispetto a tante altre ragazze. Certezze, sì queste sono le certezze, poi è ovvio che c’è la paura, la paura di ricominciare, la paura della “lettera scarlatta” che ti puoi ritrovare addosso, che tutti cioè sappiano che sono stata in carcere.

Ornella (volontaria): Ma sei tranquilla anche per quel che riguarda il modo in cui riallaccerai i rapporti affettivi?

Ina: Ma io i rapporti affettivi non credo di doverli riallacciare, io li ho, è il mio contesto, la mia realtà, non ho bisogno di allacciare rapporti affettivi, né con le mie amiche, né con la mia famiglia, né con nessuno. Anche se forse questo dipende dal fatto che in carcere ho passato “solo” tre anni.

Ornella: Tra le tante cose di cui si è parlato nella redazione di Padova si diceva che comunque c’è una gran differenza tra chi vive in un ambiente in cui il carcere è quasi “la normalità”, cioè non sconvolge molto la sua vita perché sapeva in partenza che poteva andare in galera, e chi invece è finito in carcere in modo totalmente inaspettato.

Ina: Per me il carcere è stato un fulmine a ciel sereno, era proprio l’ultima cosa che potevo immaginare. Però tutte le persone che mi conoscono mi sono state vicine, tutte indistintamente, da quella che poteva essere la ragazza del negozio a fianco di quello dove lavoravo, al barista da cui andavo a fare colazione. L’unico che non mi è stato vicino è stato il mio uomo, però poi alla fin fine, pensandoci bene, non ho perso proprio niente, avete capito? La persona che doveva darmi una mano, che doveva starmi vicino, che doveva capirmi più degli altri è stata quella che se ne è andata via per prima.

Adesso però quando vado fuori non ho la smania di trovarmi un uomo, l’unica cosa che voglio è godermi mia nipote che ha due anni, che l’ho conosciuta poco qui ai colloqui, voglio stare con mia figlia, voglio rendermi conto di come vanno le cose con suo marito, perché si sono sposati e hanno avuto la bambina che io ero già in carcere, e quindi non ero presente a niente di questa sua nuova vita. Voglio tornare a Mestre e riprendere il lavoro, voglio fare tante cose, ma non ho l’ansia di farle. Molto probabilmente per gli uomini è un po’ diverso perché loro hanno bisogno sempre e comunque di dimostrare qualcosa, hanno esigenze diverse dalle mie. Non parlo di tutte le altre donne, parlo di me in prima persona: io oggi come oggi non sento questa ansia di andare fuori e avere un compagno, di ricominciare una vita a due, oggi voglio solo pensare a me, prima persona io, ogni verbo per me oggi si coniuga con io.

Paola: Prima di tutto, per le donne forse più che per gli uomini, il problema grosso adesso come adesso è il lavoro, perché le proposte che ti fanno sono lavori di pulizia, ma sinceramente io vorrei avere qualche possibilità in più, anche solo andare a fare l’assistenza agli anziani potrebbe andarmi meglio comunque, ma vabbè insomma quello che viene viene. È chiaro che da ex-detenuta o comunque da detenuta in alternativa è più difficile che per gli altri, nel senso che io vorrei tornarmene nella mia città, ma le cooperative non offrono molti lavori per le donne perché non c’è un carcere femminile, e quindi è un po’ più complicata la faccenda. Però è un problema che hanno anche fuori, ho visto mia sorella che quando ha chiuso l’attività sua, che aveva da vent’anni, perché sono andate male delle cose, è rimasta due anni senza lavorare, ha dovuto fare dei corsi, è stata assunta dopo questo corso dell’Unione europea da una cooperativa di Mestre, quindi va su e giù tutte le mattine da Padova a Mestre e non è facile neanche per lei a quarant’anni ricominciare un lavoro, ricominciare una vita.

Ornella: Mi sembra più realista questo atteggiamento, di una che dice che anche per le persone fuori non è mica così facile, invece tante volte ho la sensazione, parlandone con gli uomini, che tanti abbiano l’idea di essere gli unici ad avere certi problemi e di credere che fuori tutti abbiamo delle relazioni che funzionano, un lavoro che dà soddisfazioni, una vita piena… le donne forse sono più concrete.

Paola: Io andando fuori in permesso ho visto gli amici di mia sorella, coppie, fondamentalmente coppie, magari insieme da anni, con delle crisi enormi, gente che si sta per separare, gente che quando parla si abbaia addosso: la vita non è semplice neppure fuori, quindi le relazioni sociali e anche le relazioni affettive non sono così facili. Io fuori ho gli amici, non ho un uomo, però lo trovo, non è mica un problema, un uomo lo trovo sempre, ma io famiglia non ho intenzione di metterla su quindi che me ne frega.

Ornella: Ma forse non è un caso che una donna che resta sola, o perché si separa, o perché le muore il marito, non è che ha questa smania di iniziare una nuova convivenza.

Paola: Sai che cos’è? Forse una donna riesce a gestirsi meglio la quotidianità di un uomo, perché una donna sa, senza togliere niente ai maschi, per l’amor di Dio, magari ci sono uomini che sono molto più bravi di tante donne, però una donna sa gestirsi in tutto e per tutto, gestisce i figli, gestisce il lavoro, la casa, quello che è il suo io. Un uomo di solito si concentra sul lavoro e fatica ad arrangiarsi su tutto il resto.

Ina: L’importante comunque è andare fuori e iniziare e credere in se stesse. Quelli che ho vissuto io sono stati tre anni di carcere passati cercando di relazionarmi il più possibile con l’esterno. A me da dentro sembra che magari fuori sia tutto facile perché ho queste certezze, però può darsi che quando sono fuori mi accorgerò che non è così. Sicuramente se io ascolto mia sorella quando viene a colloquio, quando torno in sezione prenderei una corda e mi impiccherei, perché mi dice che fuori è così, è difficile, ma molto probabilmente io sto camminando in questo momento come i cavalli che guardano solo avanti.

Sonia: Per me se tutto va bene c’è ancora un anno davanti di carcere, io il lavoro in teoria ce l’ho già, avrei il posto a casa di mia madre, però vivere con mia madre è da suicidio, e poi lei non ha mai accettato mio marito e quindi non ci penso proprio a questa possibilità.

Ornella: E rispetto ai rapporti con tua figlia?

Sonia: Paure non ne ho, la mia paura è che non mi diano i benefici e dover stare qui quattro anni in più. Ma certo quando ci vediamo mia figlia non è mai da sola. Lei viene qui al colloquio ogni quindici giorni, viene due ore perché ha problemi, è minore e deve essere accompagnata. È logico che il rapporto è cambiato un po’ perché il tempo è quello, ti ricordi di volerle dire un sacco di cose e poi nella sala colloqui non c’è solo lei, c’è mia madre, mio fratello, mia cognata e logicamente non posso parlare solo con mia figlia e avere solo un rapporto con lei. Così la sento più lontana e lei poverina non se la sta vivendo bene sicuramente, lo vedo sulle lettere che mi scrive, mi dice sempre: “Io sto bene dove sono, mi vogliono bene, però mi mancate sia te che papà”.

Natasha: Io invece cosa volete che vi dica del mio futuro? Non posso avere progetti perché tutto è lontano, però quando si tratta di affetti ho i miei bambini e la mia famiglia e comunque ho due amiche che mi scrivono sempre, quelle che ho da trent’anni. Ogni tanto penso e ho paura di quello che troverò fuori quando uscirò. È dura quando si tratta di bambini e si perdono i contatti, io il mio non l’ho visto per due anni e due mesi, la piccola non l’ho vista per quasi due anni, per quei soli dieci minuti a settimana al telefono parlo con loro ma parlo anche con mia madre e mio padre, e dieci minuti passano in fretta e non puoi dire quello che vorresti ed è come se non avessi parlato con nessuno. Mio figlio ha diciotto anni e ha bisogno di spiegazioni, aspetto quando potrà venire qui per parlargli a quattr’occhi perché per lettera e telefono non è che posso spiegare quello che sento, comunicargli le mie ansie, raccontargli le mie paure.

Paola: Quando hai il fine pena lontano non ti ci metti neanche a pensare com’è la vita fuori, pensi solo alle persone che ti interessano di più, ma a volte non vuoi neppure immaginare cosa farai e se avrai paura quando andrai fuori.

Annamaria: Mia figlia ultimamente mi dice sempre più spesso: “Non siamo capaci di stare insieme”. Come se io potessi davvero scegliere di stare lontana da lei. Io le racconto che alla sua età non avevo nessuno, non avevo un padre che mi seguisse, una madre che mi dedicasse del tempo. Ora per lei sta cominciando l’età più brutta, vuole sapere, vuole conoscere, si è fatta tutti i castelli in aria possibili, è il momento più difficile guarda, il più disgraziato, e non avere la possibilità di esserci per me è pesante. Lei immagina chissà che tipo di vita da miliardaria posso aver fatto io quando avevo quattordici anni come lei, io le rispondo che forse ha più lei di quanto ho avuto io alla sua età, ma lei in questo momento mi dà la colpa di tutto quello che non va. E io in fondo non posso che chiederle scusa per come sta vivendo.

Mia figlia ha quattordici anni e non conosce niente di me, io la prima carcerazione l’ho fatta nel novantasei, da allora ad oggi con lei ho vissuto un anno, dal duemila al duemilauno, per il resto sono sempre stata lontana per reati vecchi, perché l’ultimo reato commesso è del novantaquattro, appunto questo che sto pagando, che è una ricettazione. Lei ora mi vuole conoscere meglio, abbiamo fatto un colloquio solo di pianto, diceva che era stanca di non avere nessuno con cui sfogarsi davvero.

Paola: Io sono stata arrestata quando mia figlia aveva quindici anni, quindi non me l’ha mica perdonata, e per telefono non mi vuole parlare. L’ultima volta che ho telefonato prima di andare in permesso mi ha risposto lei, e infatti la telefonata è durata due minuti e mezzo. Io a questo punto ho rinunciato a fare la madre perché lei non mi accetta come tale. Allora faccio l’ospite in casa, le ho anche detto: “Ma scusa, perché non mi chiami Paola invece di chiamarmi mamma?”. Bisogna lavorarci piano piano, è chiaro che il carcere significa che tu abbandoni tua figlia, questo è quello che vivono loro. Quindi quando ti dicono delle cose che possono ferirti tu devi accettarle e devi elaborarle, sei tu la madre non sono loro, e loro hanno tutti i diritti di buttarti in faccia quello che pensano, è meglio se te lo buttano in faccia e non se lo tengono dentro.

I nostri figli sono costretti a crescere più in fretta e magari non ne hanno voglia. Mia figlia ogni tanto mi dice, come per consolarsi: “Ma tanto vedo che hanno un sacco di problemi anche quelle che hanno la madre in casa…”. Però è chiaro che non me la perdona. Mi ha accompagnata lei in stazione quando sono tornata a Venezia, mi ha accompagnata lei e mi ha portato la valigia, ha cominciato lei a riavvicinarsi, perché io non ho più fatto niente, nel momento in cui lei mi rifiutava io ho detto: “Aspetto, so che lei avrà i suoi tempi”.

Annamaria: La storia comunque per me è diversa, nel senso che tu sei stata insieme a lei fino ai quattordici anni. Mia figlia invece sostiene che io sono gelosa di mamma Maria, che poi è la zia che l’ha cresciuta, e dice: “Ma mamma Maria c’era quando mi sono tolta il primo dente, quando sono diventata signorina, quando stavo male”. Sì certo, mamma Maria è una figura importante, non lo metto in dubbio, però adesso io devo combattere con un altro problema, che è quello di ricostruire il mio rapporto con lei senza che ci facciamo troppo male.

Ornella: Ma, secondo voi, gli uomini in carcere lo vivono diversamente il rapporto con i figli?

Paola: Io non credo neanche nell’istinto materno a tutti i costi, perché, voglio dire, ne vediamo tutti i giorni di storie. Una donna non è madre perché è biologicamente madre, non è così naturale, così automatico, altrimenti non ci sarebbero tanti bambini nei cassonetti, quindi non è quello il problema, uno è genitore e basta. È chiaro però che il maschio è diverso dalla femmina, quindi anche il rapporto con i figli è diverso, però io non lo so come lo vivono gli uomini, io so come lo vivo io, non posso giudicare e non posso sapere quello che provano altre persone.

Ina: Forse un uomo in carcere che ha figli, e sa però che la moglie è presente e li segue, vive la sua condizione con un po’ meno di angoscia di quello che viviamo noi madri qui dentro, perché sa che il figlio è accudito. Ci sono donne qui che hanno i figli magari in balia degli istituti e quindi sicuramente il problema si presenta in un’altra maniera. Io più di tanta angoscia per mia figlia non l’ho vissuta, perché mia figlia è grande, ha trentun anni, e quindi il problema è stato più che altro il fatto che lei ha avuto una svolta nella sua vita, il matrimonio, la casa nuova, il parto, e io non ho potuto essere presente.

Però mi sembra che ci sia da parte delle donne un realismo maggiore per quel che riguarda le difficoltà che uno incontra dopo, per esempio anche rispetto ai figli. Noi abbiamo un rapporto più stretto con i nostri figli, sappiamo leggere di più tra le righe, e non ci fermiamo all’apparenza delle cose. A volte le persone quando escono dal carcere si aspettano che i figli gli buttino le braccia al collo. Molti uomini poi si nascondono dietro al fatto di dire: “Ah, ma in fin dei conti se ho fatto qualcosa l’ho fatto per far star meglio la mia famiglia”. Allora penso che diventi per loro quasi un diritto avere questa riconoscenza dai figli, per questa idea che “in fin dei conti ho commesso questo reato per darvi una vita migliore”. Ma è una giustificazione che ci diamo noi, perché ci sono genitori che si alzano alle quattro del mattino e vanno a lavorare, non comprano il Rolex ai figli, però hanno una vita dignitosa.

Paola: Noi siamo più realiste anche proprio nella vita di tutti i giorni, questa è la differenza che c’è tra noi e gli uomini. Loro magari fanno imprese più grandi proprio per quello, perché sono più “visionari”, hanno un’altra visione delle cose. Noi sappiamo che arrivare a fine mese e guadagnare la pagnotta non è così semplice, sappiamo che se i figli sono ammalati non possiamo muoverci di casa; loro le cose di tutti i giorni le pensano molto poco e poi però hanno anche delle pretese, come diceva prima Ina, cioè: io ho fatto questa cosa per darle un futuro migliore, quindi è giusto che lei adesso mi butti giù i tappeti rossi quando io esco di galera, è questo il discorso che ho sentito tante volte. Questa è la mentalità di tanti uomini, non di tutti ovviamente. Molti pensano che siccome hanno fatto il reato per la famiglia adesso la famiglia deve fare per loro, ma i figli tu li metti al mondo non perché poi ti mantengano, tu li metti al mondo perché è tuo dovere crescerli, dargli un futuro, e dopo loro vanno per la loro strada. Non puoi pretendere che ti stiano dietro, e che se tu li hai mantenuti fino a vent’anni poi ti debbano mantenere a loro volta.

 

 

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