Gli incontri di "Ristetti"

 

Sostegno e controllo: il difficile ruolo degli assistenti sociali

Incontro in redazione con il Centro Servizi Sociali Adulti di Padova

 

CSSA sta per Centro Servizi Sociali Adulti, ed è una sigla che i detenuti conoscono bene: quando sono in carcere, perché si lamentano di non incontrarli quasi mai, gli assistenti sociali del CSSA, quando sono fuori, in misura alternativa, perché attribuiscono a loro, gli assistenti sociali, lo spiacevole ruolo di controllori. Allora questa volta li abbiamo finalmente incontrati in redazione, sei al colpo, quasi l’intero CSSA di Padova, per discutere di questo complesso ruolo di sostegno e controllo, così difficile da capire e accettare. Hanno cominciato loro la discussione con una domanda per i detenuti, ribaltando da subito le posizioni, da intervistati a intervistatori.

 

Dobbiamo farvi prendere coscienza di quello che facciamo e di quello che possiamo realmente fare…

 

Leonardo Signorelli (Direttore del CSSA): Per cominciare oggi vorremmo che, con molta franchezza, ci diceste come ci vedete, come vedete gli assistenti sociali del CSSA. Anche perché poi la cosa importante è che noi dobbiamo farvi prendere coscienza di quello che facciamo e di quello che possiamo realmente fare…

 

Francesco Morelli (Ristretti): Dall’interno del carcere la prima difficoltà è proprio quella di percepire il lavoro svolto da un assistente sociale. Perché chi è detenuto non può vedere quello che succede all’esterno e gli unici rapporti con l’assistente sociale che il detenuto ha sono nella stesura della "sintesi" e nei relativi colloqui, che spesso avvengono dopo attese notevoli.

Leonardo Signorelli: Su 45 mila persone che vivono l’esecuzione penale all’esterno del carcere, siamo circa 1.100 operatori, in 58 Centri Servizi Sociali, si fa presto a capire cosa possiamo fare.

 

Marino Occhipinti (Ristretti): Indipendentemente dai numeri c’è poca conoscenza dei problemi, anche tra noi che facciamo un’attività di informazione, figuriamoci tra gli altri. Spesso l’assistente sociale viene vista come la persona che arriva per farti un danno: se viene l’assistente sociale in casa ti tolgono i bambini…, un luogo comune al quale personalmente non credo. Secondo me, quindi, bisognerebbe informare meglio, perché altrimenti ha spazio solo chi dice: "Se io chiedo di parlare con gli assistenti sociali non li vedo mai", e per chi è in carcere aspettare due mesi perché la sintesi non si chiude possono sembrare tanti, mentre magari per voi, nella routine del vostro lavoro, sono pochi.

 

Non c’è sul territorio quell’accoglienza che dovrebbe esserci

 

Leonardo Signorelli: Nessuno si permette di giudicare il peso anche di un solo giorno di carcerazione, noi sappiamo benissimo che non riusciamo a fare nemmeno il 30% di quello che dovremmo fare: abbiamo dei fascicoli dove ci sono persone e, purtroppo, li dobbiamo considerare dei fascicoli e basta. Di positivo, invece, c’è questo: solo il 5 - 10% del nostro lavoro è per il carcere e il 90% è per evitare che il carcere prenda altre persone. Io non ho problemi a dirvi questo, vi conosco, e sono sicuro che almeno il 30 - 40% di voi potrebbe stare all’esterno, senza rischi per la sicurezza dei cittadini. E sono sicuro che, se oggi noi assistenti sociali venissimo tutti assieme in carcere, nel giro di 20 giorni potremmo portare fuori il 30% delle persone che stanno dentro. Il problema è che non c’è sul territorio quell’accoglienza che dovrebbe esserci. Per "accoglienza" intendo l’attuazione di alcuni servizi, anche nostri.

E poi dovrebbe esserci una diversa quantificazione della pena, c’è gente che deve essere sicuramente, per un certo periodo, messa in carcere, ma c’è tantissima gente che potrebbe benissimo, dopo un certo periodo, stare fuori con tutta sicurezza.

Silvia Quartararo: Tenete presente che nella realtà di Padova ognuno di noi ha in carico mediamente 120 detenuti, oltre alle persone in misura alternativa.

 

Francesco Morelli: Con ciascuno di questi detenuti, riuscite a svolgere almeno un colloquio l’anno?

Cristina Selmi: Gli assistenti sociali chiamano il detenuto nel momento in cui c’è una richiesta, che può arrivare dall’Ufficio educatori, che ci chiede una "consulenza per il buon esito del trattamento"; solitamente quando viene redatto il calendario delle "sintesi", oppure dal detenuto stesso. C’è però un accordo, con l’Ufficio educatori, che molti detenuti non conoscono: a noi arrivano le richieste "filtrate" come prevede la normativa penitenziaria, da parte dell’Ufficio educatori, quindi l’educatore che sa che il detenuto vuol parlare con l’assistente sociale lo ascolta, compatibilmente con i suoi tempi, poi ci segnala per iscritto la situazione di difficoltà o la situazione problematica esterna, familiare, o altro (cfr. art. 72 O.P). Qualche volta invece il detenuto invia una lettera direttamente al CSSA, e noi, compatibilmente con i nostri tempi di lavoro, ce ne occupiamo.

Leonardo Signorelli: Vorrei spiegare con che animo mi accosto a queste lettere. Io so bene che queste lettere non contengono cose stupide, in ogni passaggio, se appena viene letto, si può capire qual è la richiesta. Ma questo significa poi lavorare cinque, sei, sette giorni, solo per quella lettera.

 

Ornella Favero (Ristretti): Qui dentro è difficile far percepire che, quando un assistente sociale ha una persona in carico, se c’è un territorio che non risponde può impiegare mesi per aiutarla a trovare una casa, o un lavoro. Ma il vero problema è che il vostro ruolo ha questa ambiguità, tra controllo e sostegno, e, quindi, viene sempre percepito di più il controllo, rispetto al sostegno.

Leonardo Signorelli: Ma più che denunciare il fatto che gli Enti locali sono assenti, che si può fare? Quello che voglio dire chiaramente, ad esempio, è che una persona che non è residente a Padova, non può avere un posto-letto a Padova attraverso gli Enti locali. Quella che si acquisisce attraverso la reclusione in carcere è solo una residenza giudiziaria, per le notificazioni dell’ufficiale giudiziario, ma la residenza territoriale non esiste, perlomeno per il Comune di Padova. E invece la maggior parte delle lettere che mi arrivano sono di persone meridionali che chiedono - giustamente, secondo me - un intervento presso l’Ente locale. Potete anche non credermi ma, a Padova, la realtà è questa: chi è residente può essere aiutato dal Comune, chi non è residente non può essere aiutato. La legge 328, che stiamo ancora studiando, dice che il Comune nel quale una persona è detenuta dovrebbe pagare e poi farsi dare i soldi dal Comune nel quale questa persona risiedeva prima di essere arrestata. Ma tutto questo è ancora teorico.

In altre città, come Firenze e Bologna, credo che funzioni in modo differente, Padova è sempre stata chiusa. Se risolviamo questo problema vi assicuro che io riceverò il 50% di lettere in meno e potrò rispondere all’altro 50%!

Antonio Ciotti: Per questo tipo di problemi il territorio non risponde come dovrebbe. Ciononostante, abbiamo avuto dei casi nei quali, attraverso una residenza acquisita in Istituto, è stato poi possibile trovare una casa e un lavoro a persone che avevano deciso, per loro scelta, di restare a Padova. Ma ci siamo riusciti a prezzo di una grande fatica. Questa cosa, moltiplicata per 15, 20, 30, quanti sono i casi di questo tipo che trattiamo, significa per noi un enorme lavoro in più.

Le cose che dice l’Ordinamento Penitenziario sono tante, e le risorse umane per poterle applicare appieno sono sempre scarse. Così è nata la necessità di filtrare le domandine, perché arrivassero all’assistente sociale quelle situazioni per le quali aveva competenza ad intervenire, cioè le problematiche che riguardano la relazione tra il detenuto e l’esterno e, per "esterno", intendiamo prevalentemente la famiglia.

 

CSSA e detenuti: che cos’è l’inchiesta sociale?

 

Cristina Selmi: Gli assistenti sociali del CSSA lavorano all’interno di un settore specifico che è quello dell’area penale, quindi la competenza matura e cresce all’interno di questo settore. La ricerca della casa, per una persona che ne ha bisogno, compete al Comune. Se la ricerca venisse effettuata da noi operatori commetteremmo "un abuso" rispetto a chi, del Comune, ne ha la competenza e se ne deve occupare. Che cosa si fa, allora, perché l’assistente sociale del Comune venga sensibilizzata rispetto al problema della casa? Noi scriviamo e comunichiamo alla collega del Comune che il signor X ha bisogno della casa. A quel punto la nostra competenza termina ed inizia quella di un altro settore, che potrà attivarsi o meno, finché la persona che ha bisogno della casa non avrà ottenuto una risposta.

Il problema di fondo è che ognuno lavora nel suo "orticello", la specializzazione è rassicurante, dà competenza, ti tutela perché non ti mette a confronto con altri. Sul territorio, di agenzie che si occupano del disagio sociale ce ne sono tantissime, il problema è che non comunichiamo abbastanza.

In specifico, per quanto riguarda la competenza dell’assistente sociale nel rapporto con i detenuti, la cosiddetta "inchiesta sociale" risponde a criteri precisi, è una "griglia" che noi abbiamo in testa, che il Magistrato vuole, e che orientativamente può essere la "fotografia" della vostra situazione attuale, cioè chi siete adesso, com’è la vostra famiglia, oppure un percorso "storico" della vostra famiglia, la cosiddetta "anamnesi", per capire come si è arrivati alla situazione attuale, sia per la storia personale, lavorativa, ma anche per il reato. Il fatto che si chiedano notizie sul reato non è per curiosità, è per capire come si è arrivati ad un certo tipo di problema.

L’inchiesta è pubblica, può essere richiesta quando si vuole, è un documento ufficiale, inviato al Tribunale di Sorveglianza per dare al Magistrato una "fotografia" di quello che siete dal punto di vista sociale (non dell’assistente sociale). Il Tribunale è un organo collegiale, e per la valutazione oltre alla relazione dell’assistente sociale si avvale di tanti altri contributi, dai quali emerge il quadro complessivo della persona. Lavoriamo a "compartimenti stagni": gli assistenti sociali non sanno cosa fanno gli altri organi di cui il Magistrato si avvale per avere la documentazione. Quello che ne esce, alla fine, è l’ordinanza, che esprime ciò che l’organo collegiale decide. Quindi, dall’esito dell’udienza avrete o meno i benefici. Questo è quello che facciamo per chi è dentro il carcere.

Poi c’è il resto, che è la maggior parte del lavoro. 44/45 mila persone in misura alternativa significa che non tutte le persone condannate finiscono in carcere. Le stesse inchieste che facciamo per i detenuti le facciamo anche per chi sta fuori, ma c’è di più, nel senso che entriamo all’interno delle famiglie (visite domiciliari), questo però lo facciamo anche per voi quando ci viene chiesto di approfondire la situazione a casa.

Ogni volta che vado a fare un’inchiesta, spero naturalmente di trovare situazioni semplici, perché nel momento in cui le situazioni sono complesse c’è un dovere di segnalazione, e la segnalazione può far scattare o meno degli interventi da parte dei servizi competenti. Per esempio se c’è una situazione di disagio minorile, non si segnala il minore in specifico, però si segnala la situazione complessiva ai colleghi perché si attivino e effettuino le verifiche necessarie.

 

Quel duplice ruolo di sostegno e controllo…

 

Antonio Ciotti: È bene fare una precisazione, a questo proposito, perché l’idea comune, purtroppo, è che l’assistente sociale toglie i bambini. Invece, in realtà, l’assistente sociale che opera correttamente, sul piano professionale e sul piano etico, fa di tutto per cercare di mantenere il minore in famiglia migliorando le condizioni che creavano il disagio. Questo lo posso dire anche se è improprio detto da me, perché non opero nei servizi che tutelano i minori, però a volte ho collaborato con colleghi di quel settore e vi posso assicurare che la primaria attenzione è quella di mantenere il minore nel proprio contesto famigliare e relazionale di vita.

Per quanto riguarda il controllo e il sostegno, di cui si parlava prima, sono funzioni difficili da far convivere; ovviamente l’abilità professionale sta anche nel riuscire ad esprimere un atteggiamento, un ruolo, delle funzioni che possano essere accettabili, perché abbiamo nei confronti dell’affidato il compito di essere, per quanto possibile, una figura di riferimento per la soluzione di situazioni nelle quali la persona si trova e, al tempo stesso, però, abbiamo il mandato istituzionale di controllare che la misura alternativa abbia uno svolgimento non in contrasto con le finalità per le quali è stata concessa.

Complessivamente, tra affidati, semiliberi, liberi vigilati e, ultimamente, usciti con l’indultino, a Padova abbiamo oltre 400 persone in area penale esterna. Tra gli affidati, circa il 70% non sono passati per il carcere, ma hanno avuto l’affidamento direttamente dall’esterno.

 

Un tasto dolente: le revoche delle misure alternative

 

Ornella Favero: Parliamo di una cosa scottante: le revoche delle misure alternative. Che ruolo avete, rispetto alle decisioni del Magistrato? Perché le revoche sono una cosa dolorosa…

Antonio Ciotti: Per quanto riguarda le revoche il Servizio Sociale ha la possibilità di contestualizzare la situazione che ha prodotto la revoca, cioè fornire alla magistratura spiegazioni che derivano dalla conoscenza che si ha dell’affidato. Quindi, quanto più è profondo il rapporto tra assistente sociale e affidato, tanto più si ha la possibilità di fornire alla magistratura informazioni attendibili sulle situazioni che hanno prodotto la revoca, informazioni che dal freddo rapporto delle forze dell’ordine non arriverebbero. Ci sono anche situazioni rispetto alle quali non c’è molto da dire, perché il comportamento, l’irregolarità, l’infrazione, scaturisce proprio da una volontà, da parte dell’affidato, di non attenersi alle prescrizioni, di non viverle come prescrizioni, anzi di viverle come un’imposizione negativa.

Cristina Selmi: Vorrei cercare di "trasportare" in questo contesto la logica della "riduzione del danno", che si fa nei Ser.T. quando una persona usa da anni le sostanze stupefacenti. Ciò che si cerca di fare non è togliergli completamente la sostanza ma ridurne il più possibile l’uso. Rispetto al carcere si fa riduzione del danno attraverso le prescrizioni contenute nelle "misure alternative". Se leggete i verbali delle prescrizioni, a volte sembrano veramente semplici, per esempio: tornare a casa alle dieci di sera, non uscire prima delle sette del mattino…" ma il vero significato è di cercare, per un certo periodo di tempo, che equivale a quello della pena, di capire come e quanto la persona riesce a "stare all’interno di un contenitore". Lo Stato, che cosa dice ad una persona che ha trasgredito? Tu hai commesso un certo tipo di reato, non sei stato alle regole che sono quelle socialmente accettate, non le riconosci. Allora, per un certo periodo ti faccio stare all’interno di questo contenitore, vediamo se questo "patto" lo accetti. La misura alternativa è un "patto" che serve per evitare di entrare in carcere. Nel momento in cui la persona sbaglia però non c’è la "fucilazione". La logica della riduzione del danno, che cosa propone: "Parliamone, vediamo come sei in grado di portare avanti la misura alternativa. Come mai hai sbagliato, …e se sbagli ancora… Tanti "come mai", fino a che il patto si "rompe".

 

Francesco Morelli: Il problema è che vedere le prescrizioni scritte sulla carta è una cosa, accorgersi di cosa vuol dire doverle rispettare giorno dopo giorno è una cosa diversa, e allora è lì che possono nascere dei problemi…

Antonio Ciotti: Va precisato che il nostro controllo non è un controllo di polizia. Noi controlliamo, ad esempio, che il semilibero sul posto di lavoro rispetti la puntualità, si rapporti correttamente con i compagni di lavoro, cerchi per quanto possibile di rispondere alle aspettative di produttività del datore di lavoro. Il controllo sugli orari di rientro lo fa un altro tipo di istituzione, che è la polizia, o sono i carabinieri. Quel tipo di controllo è implicito nell’esecuzione penale, in semilibertà o in affidamento, perché il legislatore dice: "Apro con te un contratto, però detto anche delle condizioni, adotto delle misure che mi dimostrino che il beneficio che ti viene accordato sia bene utilizzato".

 

Amhet Karaboga (Ristretti): In tutto io ho fatto dieci anni di carcere, tra detenzione, articolo 21 e semilibertà. Quindi ho rispettato per dieci anni dei patti, e sono uscito fuori con delle promesse di reinserimento e di recupero. L’unica cosa che ho ottenuto è stata un’ora di libertà prima del lavoro e un’ora dopo il lavoro, quindi tutto si è risolto nel dirmi: vai a lavorare e accontentati! Sono anche andato a pretendere, a cercare di convincere, per ottenere qualcosa in più che mi permettesse di reinserirmi in questa società che per dieci anni mi ha detto che mi avrebbe reinserito, ma inutilmente. Questo patto, allora, secondo me è un patto incomprensibile!

 

Ornella Favero: Uno che esce dopo essersi fatto molti anni di galera, esce abbastanza logorato e si ritrova con un patto che molto spesso lo rende simile a un bambino. Cioè il concetto di responsabilità, in quel patto, qualche volta non è responsabilità, è obbedienza, e non è facile da accettare. Il secondo problema che vedo è che questo patto molto spesso prevede che uno debba annullare il suo carattere. Cioè viene visto con sospetto il fatto che uno ha un carattere. Allora, mio padre diceva sempre una cosa sacrosanta: "Chi ha carattere ha cattivo carattere". È vero, se uno non è un’ameba, ha un carattere con delle punte seccanti, fastidiose, etc…, ma deve per forza cambiarlo? Si tratta poi di un patto a volte vecchio, perché legato all’idea che è il lavoro che ti salva la vita, invece questo non è molto vero! Allora, questi patti come fanno a funzionare? Se si parte da questi due presupposti: che uno viene da anni di galera, in cui deve continuamente rispettare dei patti e diventare un bambino che obbedisce sempre, ed è in carcere perché probabilmente non riusciva a rispettare le regole, è difficile pensare che improvvisamente dovrebbe diventare capace di rispettare delle regole che sono tantissime e piccolissime. Io in questo vedo delle forti contraddizioni.

Leonardo Signorelli: Se ci fosse tempo i patti si potrebbero pure cambiare. Io, con una mia indagine personale, ho visto che tutte le persone che vanno bene nelle misure alternative hanno una famiglia che le apprezza e le sostiene. Per le persone che non hanno famiglia, o ce l’hanno lontana, certo che è dura stare in semilibertà o in affidamento ai servizi sociali, ma noi che possiamo fare!?

 

Francesco Morelli: Mi pare che una delle rivendicazioni dei semiliberi sia quella di avere degli spazi per costruirsi delle relazioni sociali al di fuori dal lavoro. Perché se uno non ha questi spazi e non ha una famiglia, non potrà neanche mai crearsela, una famiglia, con i pochi spazi che gli sono dati.

Silvia Quartararo: Teniamo conto che le prescrizioni indicate sul programma di trattamento possono e vengono spesso modificate; ogni semilibero ha infatti, in media, tre programmi di trattamento. I programmi vengono modificati proprio perché, durante l’esecuzione della semilibertà, l’interessato può presentare nuove esigenze, possono essere individuate altre risorse sul territorio o dei riferimenti amicali e/o affettivi: una fidanzata, una convivente, un amico, una struttura dove poter espletare attività socialmente utili. Quindi, ben vengano le modifiche ed i cambiamenti; il programma di trattamento deve adattarsi alla realtà nel suo evolversi. Ovviamente, laddove il semilibero ha una famiglia convivente, è più rapido e scontato l’ampliamento del programma di trattamento; se non ci sono familiari di riferimento, comunque, l’équipe lavora affinché si creino degli spazi significativi da poter valorizzare durante il corso della misura alternativa.

Prima dell’udienza di revoca, su richiesta del Tribunale di Sorveglianza, l’équipe di osservazione è tenuta a redigere una relazione di aggiornamento sull’andamento della semilibertà, e sui motivi - per quello che a noi risulta - che hanno determinato l’instaurarsi del procedimento di revoca. Ricordiamoci che la decisione sulla eventuale revoca e quindi l’ultima parola, spetta al Tribunale di Sorveglianza. Possiamo trovarci in linea o no… dipende: effettivamente, certe revoche fanno un po’ pensare e lasciano l’amaro in bocca anche a noi. Talvolta noi diciamo, per esempio, che la violazione della prescrizione, per quanto reale, non ci sembra pregiudicare il regolare andamento della misura… queste sono parole fondamentali, vogliono dire che, pur essendoci stata una leggerezza, non ci sembra che essa possa pregiudicare o inficiare un percorso trattamentale e di reinserimento. Noi, quindi, cerchiamo di "far luce", fornendo ulteriori chiarimenti sui fatti, e questo molte volte aiuta il semilibero ad essere riammesso alla misura, altre volte il Tribunale, che è l’organo collegiale superiore, discorda dal nostro parere e non resta che rimettersi alla sua decisione. Il ruolo degli operatori è di consulenza.

Antonio Ciotti: Non sempre condividiamo le decisioni della magistratura, però dobbiamo rispettarle. Questo vale anche per la mancata concessione delle misure alternative. A volte facciamo un lavoro non solo di conoscenza, ma anche di progettazione, con la persona, non sulla persona, sulla quale abbiamo aspettative forse elevate. Poi succede che la magistratura, diversamente da noi, non le condivide e dobbiamo accettare le sue decisioni, non possiamo opporci. Che esista, poi, una diversità di vedute sul modo di interpretare la norma è dimostrato anche dal fatto che, ad esempio, attualmente, le semilibertà sono concesse, quasi al 100%, soltanto se c’è un’attività lavorativa, quando invece la norma recita che può essere concessa anche per "attività socialmente utili e utili al reinserimento". In altri casi capita anche che quando un semilibero chiede, non solo di avere un riferimento dove trascorrere il tempo libero dal lavoro, ma di poterlo utilizzare ad esempio per andare al cinema, abbiamo delle difficoltà, perché non era previsto in ordinanza. Allora qualcuno, con coraggio, ha inserito queste possibilità, altri invece si sono attenuti al fatto che l’ordinanza contemplava solo la possibilità di svolgere attività lavorativa, quindi il programma di trattamento doveva essere concepito esclusivamente per quello.

 

 

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