Incontro con Olga D'Antona

 

Bisogna avere la capacità di ascoltare

con l’anima le ragioni dell’altro

Olga D’Antona ha incontrato, nel carcere di Padova, la redazione di Ristretti Orizzonti

(Incontro avvenuto nel gennaio 2007)

 

Il video dell'incontro (Mpeg4)

a cura della Redazione

 

Il 20 maggio 1999 un commando delle nuove Brigate Rosse uccideva il professor Massimo D’Antona, esperto di diritto del lavoro. È cominciato proprio rievocando questa storia così drammatica un incontro emozionante, che si è svolto nel carcere di Padova fra la moglie di Massimo D’Antona, Olga, oggi parlamentare, e i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti. Emozionante perché ha toccato temi forti, come il dolore e la frustrazione delle vittime, il loro bisogno di una attenzione vera da parte della collettività.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Innanzitutto grazie per essere qui. Immaginiamo che per lei non debba sicuramente essere semplice, ma anche per noi non è affatto facile. Prendo spunto dal libro Così raro, così perduto, che lei ha scritto nel 2003 con Sergio Zavoli, nel punto in cui si lamenta di una informazione a volte poco rispettosa, che tende al sensazionalismo, e del fatto che da alcuni giornalisti si è dovuta difendere, per chiederle cosa ne pensa dell’informazione che viene fatta in Italia, soprattutto sulle questioni che riguardano la cronaca nera e la giustizia. Penso al recente fatto di Erba, e cioè all’immediata e sbrigativa “condanna” del tunisino da parte degli organi di stampa, ma volevo anche sapere qualcosa in più sulla sua esperienza personale.

Olga D’Antona: Spesso i giornalisti, non tutti per la verità, nel tempo si impara a distinguere, privilegiano un tipo di giornalismo che asseconda quella che è la morbosità della gente, il sensazionalismo appunto, o asseconda certe paure che le persone hanno. Queste battaglie per difendersi da un certo tipo di informazione sono spesso un peso in più per chi subisce un reato grave, un dramma come quello che è toccato a me. Questo accanimento, questo voler attribuire per forza alla vittima un atteggiamento vendicativo anche se non le appartiene, tutto ciò è un di più, ma devo dire che ho trovato anche persone molto sensibili, che dovevano fare il loro mestiere ma che lo hanno fatto con il tatto e con la misura che si addiceva a questo tipo di circostanze.

 

Marino Occhipinti: A me sono rimaste impresse altre cose, del suo libro, che sono poi quelle che ci appassionano e che ci interessano di più. In un punto dice: “Ricordo che, nei primi mesi, dopo la morte di Massimo, sentivo in me il desiderio di capire. Se ne avessi avuto la forza, sarei andata nelle carceri per conoscere i brigatisti reclusi, parlare con loro nell’illusione di un possibile dialogo, di un possibile ravvedimento da parte loro. Nel tempo, conoscendo un po’ meglio questo mondo, ho perso interesse, ho avuto paura di trovarmi di fronte alla banalità, di fronte a persone non all’altezza della tragedia che avevano compiuto”.

Dalle sue parole si percepisce forse un desiderio di riconciliazione. Mi viene da pensare che lei non si accontenti delle condanne delle persone che hanno ucciso suo marito, ma che sia tanta la voglia di capire, forse addirittura di incontrarle. Come si pone di fronte alla mediazione penale, alla giustizia riparativa, temi certamente difficili da affrontare ma molto importanti?

Olga D’Antona: In effetti è un argomento molto complicato. Tenete conto che la mia era una famiglia come tante altre, mio marito quella mattina prende il caffè, mi saluta sulla porta, scende per andare a lavorare e incontra due persone che gli sparano sei colpi di pistola nel cuore. Io non capivo cosa mi stava succedendo, perché, di cosa si trattasse, da che parte fosse venuta questa aggressione. Una famiglia come la nostra, noi ritenevamo di non avere nemici, e quindi la mia prima esigenza era quella di capire cosa mi stava succedendo e perché, e l’altra cosa che immediatamente dentro di me ho sentito è stata: “Ma le persone che hanno commesso questo delitto, anche se dovessero pentirsi veramente, comunque non potrebbero mai sanare ciò che è accaduto”. La cosa che mi colpiva era l’irreversibilità di quell’atto: anche se queste persone dovessero ravvedersi, non potrebbero fare niente per sanare questo dramma.

E nello stesso tempo c’era appunto il bisogno di vedere in faccia queste persone, di avere un dialogo, di raccontare chi ero io, chi era mio marito, di capire io e far capire a loro, insomma, perché ogni atto deve avere una ragione, una finalità, e questa era la mia esigenza primaria. All’epoca avevo dei fantasmi, non sapevo da che parte girarmi: erano le Brigate Rosse, erano altro, che ne potevo sapere? Le cose si sono svelate via via, negli anni, e man mano che la verità si svelava e venivo a contatto con questo mondo, rimanevo sempre più esterrefatta da questi movimenti. Mi viene in mente che una volta, incontrando Carol Beebe Tarantelli* – che aveva oramai avuto occasione di conoscere la verità, la sua storia, era venuta a contatto con queste persone – le chiesi: “Ma che impressione hai ricevuto quando hai incontrato queste persone?”. Mi colpì quello che per me, in quel momento, fu un gesto incomprensibile. Lei alzò le spalle e non disse nulla, come a dire “Niente, non ho emozioni da raccontare, non ho niente da dire”. Ho capito questa sua reazione nel tempo, quando è toccato a me vedere in faccia queste persone, cogliere le loro reazioni.

Ero lì, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, durante il processo, e una cosa che notai fu la diversità. Ad esempio c’era una ragazza giovane, una bella ragazza, e pensai al perché una ragazza avesse distrutto la sua vita, a cosa gliene era venuto di buono. Poteva trovarsi il suo lavoro, costruirsi la sua famiglia, e adesso invece era chiusa lì, insomma mi sembrava veramente una vita sprecata; poi nell’altra gabbia vedevo invece questi che ridacchiavano, che non si rendevano neanche conto di quello che stava avvenendo lì dentro, che ero io presente, che la mia vita era stata devastata dal loro gesto.

Poi, via via che leggevo i loro documenti, mi chiedevo che senso ha oggi tutto ciò, in questo contesto storico, perché voglio dire, noi lo sappiamo che il terrorismo negli anni Settanta e Ottanta è stato ben altra cosa, nel nostro paese; ha avuto aree di consenso, se vogliamo c’era una comprensibile esaltazione collettiva di questi ragazzi, che erano poi prevalentemente molto giovani, e anche solo lo stare insieme, il frequentare certe persone, un certo clima, un certo ambiente, se volete anche in un momento sociale particolare, con le lotte operaie di quegli anni, in qualche modo rendono non giustificabile ma comprensibile la follia di quel momento. Ma oggi veramente mi sembravano delle persone devastate da un’ossessione, senza contatto con la realtà sociale, politica, storica di questo paese, e quindi ho pensato che forse non valeva la pena di confrontarmi con loro.

Invece ho incontrato altre persone che avevano vissuto gli anni del terrorismo in epoche passate, e che hanno anche scontato le loro pene, che hanno fatto un percorso di reinserimento nella società, che oggi svolgono attività nel volontariato, e credo che incontrarsi con queste persone sia stato importante per me e per loro.

 

Marino Occhipinti: Quindi lei desidererebbe un gesto da parte delle persone che hanno ucciso suo marito, quantomeno una richiesta di scuse?

Olga D’Antona: Certo che sì, e qui ho qualcosa da raccontare che per me è stato molto doloroso. Innanzitutto io parlo per me, non vorrei che si pensasse che le mie parole rappresentino tutti quelli che hanno subito violenze di questo genere, infatti io racconto un’esperienza che è molto personale e molto particolare, perché credo che ognuno viva il dolore a suo modo, ognuno ha poi un suo percorso pregresso, una sua formazione culturale, un suo vissuto che lo porta a vivere le situazioni in un modo piuttosto che in un altro, e ci tengo a chiarirlo che la mia è una testimonianza personale.

Certo che è la cosa che ho sempre sperato, un ravvedimento di queste persone, vero, reale, concreto, ma per il momento non sembra praticabile, questo terreno, perché invece sembrano persone fortemente ossessionate, soprattutto la Lioce, da questa idea di lotta armata, per raggiungere non si sa bene cosa, quali obiettivi, in questo contesto. Diverso è stato, ve lo dico con grande sincerità, con l’unica collaboratrice di giustizia, che è stata Cinzia Banelli. Il suo comportamento mi ha veramente ferito, perché questa è una persona che ad un certo punto, non so se si è resa conto di aver sbagliato oppure no, ma si è fatta i suoi conti e ha deciso che non voleva vivere il resto della sua vita in prigione, che voleva avere un figlio, che voleva rientrare nella normalità: questo è auspicabile, ma non tutti i mezzi sono giustificati per un certo fine. Io ho trovato veramente spregiudicato il suo modo di comportarsi, quello di utilizzare qualsiasi strumento pur di uscirne fuori, da questa storia, nel migliore dei modi per se stessa. Ciò che mi ha veramente ferita è stata la lettera che lei scrisse a me e alla signora Biagi.

Vi devo dire che avrei tanto voluto crederci, e questa forse è la cosa che oggi mi ferisce di più, perché quando ho visto questa lettera sono rimasta fortemente turbata, la mia reazione è stata quella di fare un gesto di generosità e di renderla pubblica, questa lettera – eravamo a pochi giorni dal processo –, poi qualcuno mi ha fatto riflettere e quindi ho deciso di tenere la lettera nel cassetto, col proposito di rileggerla dopo il processo, per vedere se è possibile un dialogo con questa persona oppure no, però non volevo influenzare in alcun modo il corso del processo. Volevo che la giustizia facesse la sua parte, perché noi vittime veniamo totalmente espropriate dalla giustizia, anzi ho percepito che la vittima nel processo è un ospite indesiderato, quasi di disturbo; addirittura quando si decide col rito abbreviato, anche nei casi di terrorismo come in tutti gli altri casi gravi, lo si fa senza nessun coinvolgimento della parte lesa, e se volete questo dovrebbe farci riflettere.

Due giorni prima del processo però questa lettera fu data in pasto a tutti i principali organi di informazione: La Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa, e allora ditemi voi, chi può averla divulgata? Il suo avvocato, i suoi parenti? E quale finalità secondo voi può aver avuto la lettera, stampata sui giornali due giorni prima del processo, quando io, in tutti i modi, avevo pregato di lasciarla nel privato, che ne avremmo riparlato dopo il processo?

Cinzia Banelli ne è uscita con 12 anni ai domiciliari, mentre io passo il Natale sola in casa, e vi lascio immaginare cosa può essere per me il Natale, e sono sette anni e mezzo che mio marito è morto, mentre appunto Cinzia Banelli è a casa con i suoi genitori, con il suo bambino, con suo marito, con i suoi affetti.

 

Marino Occhipinti: Però, comunque, dividerei il discorso del pentimento per convenienza da quello che può invece essere un ravvedimento profondo, una questione di coscienza, perché sono due cose completamente diverse. Lei è stata ferita da una lettera a due giorni dal processo, che aveva probabilmente il chiaro intento di arrivare a uno sconto di pena, alle attenuanti, alla collaborazione. È ovvio che lei ne rimane ferita, ma se invece una lettera fosse stata scritta in un altro momento, è chiaro che forse a lei avrebbe fatto piacere.

A volte il timore nostro è anche questo, e ne parlavamo recentemente a proposito della mediazione penale: se e come rientrare nella vita delle persone alle quali abbiamo devastato l’esistenza, alle quali abbiamo tolto qualcuno. È meglio che si presenti un mediatore penale, cioè una persona preparata, attenta, che non faccia altri danni, che non ti arriva come invece può arrivarti una lettera in casa, all’improvviso? Anche noi siamo perplessi di fronte alle varie modalità di mediazione che si potrebbero adottare, e sono molto crudo ma vorrei chiederle cosa preferirebbe lei, come vittima.

Olga D’Antona: Non è facile rispondere, perché non tutti reagiscono allo stesso modo e il dolore, le ferite, sono sempre aperte. Per quel che mi riguarda, non ve ne so spiegare nemmeno la ragione, ma per mia fortuna, e dico per mia fortuna, non ho mai sentito in me sentimenti di vendetta, non sono stata vittima dell’odio, che credo sia la cosa più devastante, un veleno, un qualcosa che ti fa stare ancora più male. Forse perché il mio dolore, il senso di perdita era talmente grande che non c’era più spazio per altro tipo di sentimenti.

Io non ho una famiglia, e neppure mio marito aveva una famiglia: eravamo due persone sole che si erano incontrate e che rappresentavamo tutto per noi, la mia famiglia era tutta lì, quindi quando mi è stato tolto questo, sono stata lasciata nel deserto affettivo, perciò ero così presa da questo senso di privazione da non lasciare spazio ad altro. O forse all’inizio non sapevo nemmeno nei confronti di chi provare questa ostilità, perché c’erano dei fantasmi, non c’erano delle persone in carne ed ossa, sono passati parecchi anni prima che si vedessero delle figure. Una cosa, però, vi posso dire, che per me è stata importante nel processo, e che in un certo senso un po’ mi ha placato, è proprio non avere più dei fantasmi davanti ma delle persone in carne ed ossa.

Guardate, la verità è fondamentale: una volta sentii la testimonianza di Giovanni Moro, il figlio di Aldo Moro, che disse: “Ma noi non chiediamo più neanche giustizia, vogliamo almeno verità”, e mi sono resa conto che la verità è l’unica cosa che aiuta; potersene fare una ragione, sapere da che parte ti è venuta quell’aggressione, sapere con cosa hai avuto a che fare, capirne le ragioni, perché altrimenti veramente non c’è pace, e questo senso di maggiore tranquillità si ottiene quando si riesce ad avere un po’ di verità. Ecco perché in Parlamento stiamo cercando di far procedere la proposta di legge per limitare il segreto di Stato, perché questo è l’unico paese dove il segreto di Stato è eterno, per capire tutte le stragi – di piazza Fontana, di piazza della Loggia, del treno Italicus – dove non si riesce ad avere un briciolo di verità. La verità è più importante della giustizia! A me non interessa se gli assassini di mio marito sono in prigione o sono fuori, non è la loro punizione che allevia la mia sofferenza, non cambia niente nella mia vita. Quello che invece mi ha un po’ aiutato è quel briciolo di verità che è venuta fuori.

 

Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Per prima cosa grazie perché raccontandoci la sua esperienza ci ha fatto capire meglio quella che è la condizione di chi subisce sulla propria pelle il reato. Quello che invece le volevo chiedere è un consiglio: noi siamo tutti condannati, e con l’attività della redazione ci siamo posti lo scopo di fare dell’informazione verso l’esterno per sensibilizzare un po’ l’opinione pubblica, e anche i politici, sulle condizioni delle carceri e quindi della nostra vita. Facendo questo tipo di lavoro, ci troviamo spesso a confrontarci con istanze diametralmente opposte, nel senso che mentre noi cerchiamo di migliorare la nostra condizione, i magistrati, gli educatori ci ricordano sempre che non dobbiamo parlare soltanto di noi, ma anche del male che abbiamo fatto e quindi delle vittime. Proprio perché è un tema difficile, a maggior ragione per noi che siamo stati parte direttamente in causa, volevo chiederle qual è, secondo lei, il modo migliore per affrontare questa questione,  perché non vengano davvero dimenticate le vittime.

Olga D’Antona: Essendo il mio nome conosciuto, e svolgendo attività politica, sono stata una persona che ha avuto voce, ma il dramma di molti – parlo delle vittime del terrorismo perché quelle conosco in modo particolare – è stato l’essere ignorati, e guardate bene che anche se sono state fatte delle leggi con delle forme di tutela nei confronti delle vittime, in realtà poi queste persone si scontrano con una burocrazia ostile, che ha a volte un atteggiamento di fastidio nei confronti delle vittime, che vengono spesso considerate lamentose, rivendicative.

È capitato a quella persona lì, che era su quel treno, in quella stazione, in quella banca, in quella piazza, poteva capitare a chiunque altro di noi, e quindi mi piace pensare che c’è una collettività, rappresentata dallo Stato, che si fa carico di un gesto di solidarietà nei confronti della persona colpita.

Purtroppo molto spesso queste persone non hanno sentito questa vicinanza, e quindi più forte diventa l’ostilità quando vedono magari gli autori del reato che salgono alla ribalta, che rilasciano interviste televisive, che fanno conferenze, che scrivono libri, che ricoprono cariche istituzionali. Mi sembra di percepire che in questi ultimi tempi si comincia a capire questo dramma, e vi consiglio di leggere il libro che ha scritto un giornalista, Giovanni Fasanella, che è I silenzi degli innocenti, dove c’è una raccolta di queste voci. L’opinione pubblica è sempre più attratta dalla figura del brigatista, che apparentemente è una figura eroica, l’aggressore è sempre più interessante della vittima, e questo fa sì che poi la vittima, nella sua frustrazione, non riesce a perdonare, non riesce ad accettare quello che invece, secondo me, dovrebbe essere via via accettato, che cioè quando una persona ha scontato i suoi anni di carcere, quando ha dato dimostrazione di essere utile alla società attraverso associazioni di volontariato, attraverso un’attività positiva, dovrebbe essere riaccolta.

Perché mi preme, questo? Perché quando mi è capitata la tragedia, immediatamente ho percepito il senso di responsabilità, che non era un dramma soltanto mio, personale ed individuale, ma era un dramma sociale, collettivo, da condividere con gli altri. E quindi l’attenzione della stampa faceva sì che io mi sentissi ancora più responsabile, dovevo stare attenta ai miei comportamenti, alle parole che dicevo – si dice che le parole diventano pietre, no? – e bene o male le mie parole avevano un peso superiore proprio per quello che simbolicamente io rappresentavo, al di là della mia persona. Quindi il mio primo intento era di dare un contributo perché il terrorismo non diventi di nuovo quella piaga sociale che ha devastato un’intera generazione o quasi, sia da parte delle vittime che dei terroristi, perché anche quelli che hanno compiuto questi atti hanno devastato le proprie vite.

Certo è che comunque dobbiamo auspicare il reinserimento nella società di persone che hanno sbagliato e che si sono rese conto di aver sbagliato; soprattutto in determinati casi ci troviamo davanti a ragazzi che all’epoca avevano venti anni, e che magari venti o trenta anni dopo ancora si trovano questo marchio addosso. Io mi sono ritrovata a difendere Sergio D’Elia, che ora è un mio collega parlamentare, perché vedendomelo davanti mi rendo conto che è una persona che ha scontato la pena, che ha fatto il suo percorso, che lavora da anni per i diritti civili e contro la pena di morte, insomma questi esempi dovrebbero in qualche modo servirci per dire, soprattutto ai giovanissimi che già si trovano ad avere problemi con la Giustizia: “Guardate che c’è una via d’uscita, la società vi sa riaccogliere…”, ma certo che quel parente di vittima che non ha avuto giustizia ha difficoltà ad accettare tutto questo, e allora vanno capiti entrambi.

Io dico anche che non può essere la società a sbarrare le strade a queste persone, a buttargli il marchio dell’infamia per sempre, però nello stesso tempo serve un po’ di ragionevolezza, capire, da parte di queste persone, quanto dolore c’è. Bisogna andare in punta di piedi, serve un po’ di senso di opportunità da parte loro, serve dire “questa è una società che mi ha saputo riaccogliere, ma io mi devo muovere in modo tale da non ferire certe sensibilità che sono state così fortemente colpite”.

 

Alì Abidi (Ristretti Orizzonti): Quella di prendere le parti di D’Elia è stata una scelta sua personale o una scelta dettata da motivi politici?

Olga D’Antona: La ragione è molto più complessa, e molto più generale, nel senso che, al di là della mia appartenenza politica, la mia preoccupazione era un’altra. Perché oggi sono qui? Perché a tutti, anche a voi che siete in carcere, certo, noi dobbiamo dare una speranza. Nessuno può vivere senza una speranza! Io contrasto quelli che tendono – per strumentalizzazioni politiche – ad assecondare un sentimento vendicativo di tante persone che nasce dalla paura: la paura dell’immigrato, la paura della violenza, la gente che si sente minacciate le proprie sicurezze.

Certo sarebbe auspicabile da parte di queste persone, che hanno avuto un ruolo da protagonisti nel terrorismo, una autoregolamentazione, una sensibilità, il buon senso, tenere conto del dolore che c’è, di cui invece non sempre tengono conto. Evidentemente c’è un portato di personalità che li ha resi protagonisti allora in senso sbagliato e li rende protagonisti oggi. È molto spiacevole, è molto doloroso, ma penso che non debba essere lo Stato a regolamentare per legge questa questione, che dovrebbe esserci un senso di buon gusto, di rispetto, insomma di riflettere sul fatto che comunque ci sono delle cose che sono irreversibili, che non potranno mai essere sanate.

Io però partecipo poco agli scontri tra fazioni politiche. Io ho un’altra missione, che è quella che mi porta ad essere qui con voi oggi, che è quella di impedire che la violenza prenda il sopravvento in questo paese, perché la violenza è l’annientamento delle intelligenze e delle coscienze, perché quando si fa ricorso alla violenza vuol dire che si è rinunciato a far lavorare la propria intelligenza, la propria capacità di comprensione, e quindi in qualche modo ci si disumanizza. Nel dolore che mi è toccato di vivere, questa missione, questo impegno, mi danno una ragione di vita e di speranza.

 

Franco Garaffoni (Ristretti Orizzonti): Da parte di molti terroristi c’è una forte presenza sui media con interviste, trasmissioni tv, libri, ed emerge a volte una immagine di persone che accettano di essere state sconfitte, ma non di avere sbagliato, e forse la mancanza arriva proprio dallo Stato: in Sudafrica, certo in una situazione molto diversa, ma c’è stato questo scambio verità-perdono, e anche in Italia si sarebbe dovuta chiudere questa questione, ed invece mi sembra che da parte dello Stato ci sia stata una incapacità di chiudere questo periodo storico.

Olga D’Antona: Questo è un discorso aperto, molto dibattuto. In realtà non si è ancora avuto il coraggio, in questo paese, di affrontare il tema del terrorismo, ed io invece penso che sia tempo, motivo per il quale diciamo “adesso basta con questo segreto di Stato”, perché non si è mai fatta verità. Io ho una personale opinione, che poi non è soltanto mia, che in realtà nella stagione del terrorismo le aree di contiguità fossero molto vaste, anche in ambienti borghesi, colti, e molti di quelli che si sono “salvati”, oggi occupano posti importanti, sono classe dirigente di questo paese.

Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma dobbiamo affrontare questa questione aprendo un dibattito che coinvolga tutti, mentre la vicenda del Sudafrica ha uno scenario unico, perché quelle persone dovevano continuare a vivere nel loro paese, e quindi se non si voleva arrivare ad un bagno di sangue è stata trovata una strada di saggezza, che è questo discorso sulla verità, ma è stato fatto nei villaggi, casa per casa, penetrando proprio nelle viscere e nel dolore della gente.

È stato un lavoro straordinario, ma mi torna in mente la frase: “Dimmi la verità. Perché io ti possa perdonare devo sapere che cosa ti perdono”. Guardate, neanche questo è facile. Io non sono cattolica, non sono portata a rivolgermi ad un essere superiore nei momenti di difficoltà – cerco di far leva sulle mie energie, sul mio senso di giustizia, sul mio modo di relazionarmi con gli altri – ma allo stesso tempo non dico che non sono credente perché invece lo sono fortemente, nel senso per esempio che credo nel dialogo, che le persone possano guardarsi negli occhi e cercare insieme una ragione comune, cercare di capirsi, e quindi il concetto di perdono, e se volete anche il concetto di odio, mi appartengono poco. Certo è faticoso, è doloroso e bisogna anche affrontare il confronto con una grande umiltà, spogliandosi di tutte le proprie tradizioni, dei propri radicamenti, se vogliamo, di pensiero, avendo la capacità di ascoltare con l’anima le ragioni dell’altro.

 

Elton Kalica: Lei prima diceva che le vittime si sentono ignorate dallo Stato, e da quel che conosco io la legge credo che per certi versi sia vero, perché la Giustizia si occupa di condannare gli autori del reato e basta, mentre ci sono altri aspetti della vita delle vittime nei cui confronti lo Stato è spesso inadempiente. D’altro canto ci sono gli autori dei reati, ai quali viene spesso ripetuto di pensare alle vittime, sia in fase processuale sia in fase di espiazione della pena.

Nel mio paese, l’Albania, nel regime prima del 1991, alle famiglie delle vittime delle forze dell’ordine o agli operai morti per incidenti di lavoro, lo Stato concedeva delle agevolazioni, le teneva altamente in considerazione: avevano una pensione in più rispetto agli altri, avevano il posto a teatro prenotato, avevano le ferie a spese dello Stato, insomma c’era una normativa che teneva conto delle vittime e che cercava in tutti i modi di far sentire lo Stato vicino a loro.

Ora è comprensibile che un detenuto, che è già in galera, è lontano dalla famiglia, non ha una lira, ha una famiglia rovinata anche lui, alle vittime può e deve pensarci in coscienza, ma materialmente è difficile che possa occuparsene. Non sarebbe importante allora una solidarietà di questa organizzazione collettiva che è lo Stato?

Olga D’Antona: Ci sono delle norme, dei provvedimenti a favore delle vittime, delle leggi in questo senso, in particolare la 206 che in questa finanziaria è stata rivista, ma quello che noi rileviamo – ad esempio quando ci sono persone invalide in famiglia, che mettono in crisi tutto il nucleo nel suo complesso – è che queste leggi sono strappate sempre con grande fatica nonostante le associazioni si battano molto, e spesso la stampa mostra veramente scarso interesse. I familiari delle vittime sono voci che disturbano, che sono noiose, che la gente non legge volentieri, perché producono sensi di colpa di cui la collettività non vuole sapere.

Quello che tu dici quindi è giusto, però c’è una scarsa sensibilità proprio da parte degli organi dello Stato, perché dal punto legislativo il Parlamento fa le leggi, ma spesso queste leggi o non vengono applicate o sono applicate con grandi ritardi o con grandi resistenze. Bene o male sono fondi che devono essere tirati fuori dalle casse dello Stato, e che si preferirebbe utilizzare in modo diverso, questa purtroppo è la verità.

 

Marino Occhipinti: Lo Stato può intervenire per quanto riguarda la solidarietà, i risarcimenti, ma non può che essere l’autore del reato a chiedere scusa o perdono, e qui vorrei fare una differenza. Lei ha citato più volte il perdono, ma noi quando affrontiamo il tema della mediazione non parliamo quasi mai di perdono; io sono condannato per omicidio, e nonostante il desiderio di incontrare le persone che per causa mia hanno perso qualcuno, credo che non riuscirei mai a chiedere loro perdono. Non riuscirei a chiedere perdono perché è una cosa grande, una richiesta che presuppone una risposta, mentre delle scuse non comportano nulla in cambio.

Olga D’Antona: Certo. Io la mediazione la vedo più come un incontro tra due o più persone che cercano delle ragioni da condividere, e allora non sarebbe sufficiente dire: “Io ho riflettuto su quello che è accaduto, e mi rendo conto che è stato un errore, e oggi come oggi, dato il percorso e le riflessioni che ho fatto, non ripeterei la stessa azione”? Non sarebbe meglio dire questo? Allo stesso tempo, è rispettosa da parte tua la consapevolezza ed il riconoscimento che, per chi deve perdonare, è una richiesta forte, e perciò capisco perfettamente quello che tu mi vuoi dire, anche perché ho conosciuto persone alle quali costerebbe molto perdonare, che proprio non ce la fanno.

 

Ornella Favero: C’è poi questo nodo sul quale non c’è grande chiarezza, che è appunto la cosiddetta “revisione critica”, il chiedere ad una persona detenuta di dare prova di avere rivisto il proprio passato. Ad esempio nei confronti della brigatista Barbara Balzerani, la Procura generale, nel fare ricorso contro la recente concessione della liberazione condizionale, ha motivato che “non ci sono segni tangibili di ravvedimento”. Ma quali sono i segni tangibili? Io ad esempio diffiderei molto di uno che mi venisse ad ostentare il suo ravvedimento.

Olga D’Antona: Infatti anch’io ho dovuto non solo diffidare, ma proprio rendermi conto che Cinzia Banelli non era in buona fede con la sua lettera. Però a volte ho anche pensato che se a chi deve scontare la sua pena si chiedesse di scrivere ogni giorno una lettera alla persona che ha “ferito”, come un diario, senza pretendere che la persona ferita debba poi leggere quelle lettere, no?, ecco, io credo che anche se inizialmente le cose scritte non fossero tutte vere, comunque alla lunga questo percorso diventerebbe una riflessione.

Non sto dicendo questa cosa come una proposta, ma ve la riporto come una mia farneticazione notturna di una persona che ha vissuto ciò che ho vissuto io. Non lo dico con l’intento della riconciliazione, perché non si può neanche imporre alla persona che ha subito di accettare questo tipo di dialogo, che invece deve essere spontaneo e deve far bene a tutti. Insomma i casi sono molto individuali e molto personali, però io credo che un percorso di riflessione sia comunque importante, altrimenti che senso ha chiudere una persona in una gabbia, a chi giova? A volte me lo chiedo: ma io mi sento meglio, se Nadia Lioce soffre o sta bene? Non mi dà sollievo pensare che quella persona subisce delle sofferenze, perché la mia condizione, purtroppo, resta quella che è.

 

Marino Occhipinti: Lei affronterebbe un percorso di mediazione penale, incontrerebbe chi ha ucciso suo marito?

Olga D’Antona: Per il senso sociale che ho, anche se mi costerebbe molta fatica, non credo che mi tirerei indietro, mentre altre persone rifiutano totalmente perché prese dal risentimento, dall’odio, ognuno vive il dolore in modo diverso.

 

Adnene El Barrak (TG2 Palazzi): Io vengo dalla Tunisia, e 12 anni fa ho partecipato ad una rissa dove è morto un ragazzo. Io non ho mai avuto contatti con la famiglia della vittima, ma la sua presenza oggi mi ha molto emozionato, mi ha fatto riflettere, non ho mai avuto uno stato d’animo così, perché lei mi ha fatto pensare alla madre o alla sorella del ragazzo che morì in quella rissa, e nonostante tutto lei ci ha detto che la società ci deve riaccogliere…

Alì Abidi: Ma quali sono le vere ragioni che possono portare una persona a dare il suo perdono a chi gli ha fatto del male? Cosa rimane dentro, dopo un incontro del genere?

Olga D’Antona: Per me, ripeto, non c’entra il concetto di perdono, non mi appartiene, non l’ho vissuta così. Nel momento in cui mi sono trovata ad incontrare persone che in anni precedenti avevano compiuto questi atti, e che appunto avevano fatto il loro percorso di ravvedimento, è stato importante anche per me, ho avuto modo di capire meglio. La cosa che fa più male sono i fantasmi, immaginare quello che non è, perché la propria fantasia può produrre mostri quando poi, in realtà, ci si trova di fronte a persone in carne ed ossa e con la loro umanità.

Ogni volta vedo davanti a me una persona con una storia, con un modo di sentire, con una cultura ed un’educazione che è tutta sua, con le sue sofferenze, gli errori pagati, e quindi cerco di capire chi mi trovo di fronte, e non mi riesce di immaginare i terroristi o gli assassini o i delinquenti come categoria univoca. E anche nel caso di persone che ho incontrato, che appunto avevano compiuto atti di terrorismo, mi sono trovata davanti persone molto diverse l’una dall’altra. Di qualcuno ho apprezzato il percorso ed il modo di avvicinarsi alla mia persona, e di altri meno, e mi sono resa conto che per alcuni di loro era importante avvicinarmi perché in me identificavano non la mia persona per quello che sono, ma una persona colpita da un atto che era molto simile a quello che loro avevano compiuto. Proiettavano sulla mia persona le loro vittime, che non avevano potuto incontrare, e quindi raccontare a me le loro storie in qualche modo li aiutava a farsi capire, a capire se stessi, a farsi una ragione. In qualcuna di queste persone vedevo invece la protervia di quelli che hanno sbagliato perché hanno perso, perché se avessero vinto sarebbero stati nel giusto, e quindi una non consapevolezza.

Come ho detto prima, c’era un’esaltazione collettiva, e a vent’anni si segue il gruppo, il branco, e se c’è quell’ideologia, a vent’anni se volete c’è una generosità nello spendere se stessi e la propria vita per una causa che si ritiene in quel momento giusta. Poi ci si rende conto di aver sbagliato, poi ci si rende conto dell’insensatezza e dell’irreparabilità di certi gesti, del dolore che si è creato e che è irreversibile, per cui quando c’è il ravvedimento perché non incontrarsi, perché non farsene una ragione? Affrontiamola la storia, questo pezzo di storia così oscuro per questo paese, togliamo i veli, parliamone insieme, usciamo da questo tunnel di odio. È questo quello che io nel mio piccolo cerco di fare.

 

Ornella Favero: A me sembra importante anche una mediazione, che ad esempio avvenga ad anni di distanza, che non abbia niente a che fare con il processo. E penso che anche se uno lo fa strumentalmente o per un beneficio, e può essere, l’incontro comunque colpisca le persone ed aiuti. Anche per la vittima, dare un volto all’autore del reato e riconoscerlo come persona forse può farla stare meglio.

Olga D’Antona: Sì, l’importante è fare tutto con le giuste cautele, camminando in punta di piedi per non rischiare di aggiungere dolore al dolore.

 

Marino Occhipinti: Ho notato che – oltre al bisogno di verità di cui abbiamo già parlato – è ricorrente il timore delle vittime che ciò che è accaduto, che il loro dolore, possa essere dimenticato…

Olga D’Antona: Questo è un paese che tende alla rimozione, consumiamo tutto in fretta, consumiamo notizie, consumiamo eventi, e invece bisogna anche fermarsi a riflettere, perché se non sappiamo da dove veniamo, e purtroppo questa è una società che rischia molto di dimenticare da dove viene, facciamo poi fatica ad andare avanti. Non è soltanto la memoria del proprio dolore individuale, è una memoria collettiva che deve essere condivisa, invece ognuno vede certi accadimenti da un punto di vista diverso, e molto spesso determinati fatti vengono strumentalizzati anche dalle diverse fazioni politiche, e questo noi non lo possiamo accettare. Dobbiamo cercare di trovare unità almeno contro la violenza, di dare una lettura unitaria di quello che è accaduto in questo paese. Credo che aprire un dibattito su questi temi, e fare verità, serva anche a questo, a trovare finalmente una condivisione dei fatti accaduti, a leggerli tutti nello stesso modo. Ci riusciremo mai?

 

Ornella Favero: Ci piacerebbe, per finire, una sua riflessione sul senso della pena

Olga D’Antona: È una domanda alla quale è molto complicato rispondere, perché forse io mi distinguo anche da altri modi di sentire, ma a me non dà sollievo pensare che una persona viene chiusa in una gabbia. Vorrei che esistessero forme di rieducazione e di riabilitazione che non so neanche immaginare, però di tipo diverso. Purtroppo la società in qualche modo si deve difendere da persone che possono rappresentare un pericolo, ma certo non mi piace l’accanimento: laddove le persone mostrano di non rappresentare più un pericolo sociale, io non sono di quelli che si accaniscono. Mi piacerebbe molto che questa società sapesse trovare forme preventive, che si trovasse il modo – e in alcuni casi non dovrebbe essere così complicato – di prevenire certi reati piuttosto che mettere in campo soltanto attività di tipo repressivo, che forse alla fine sono le più facili quando il delitto è già avvenuto.

 

* Moglie di Ezio Tarantelli, l’economista ucciso nel 1985 dalle Brigate Rosse

 

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