Incontro con Edoardo Albinati

 

Ma cosa ci va a fare uno in Afghanistan 

e cosa ci va a fare in carcere?

(Realizzata nel mese di giugno 2003)

 

Edoardo Albinati ha trascorso quattro mesi in Afghanistan come volontario dell’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Le sue "credenziali", quando è stato scelto per partecipare a questa missione, sono state gli anni di lavoro in carcere come insegnante, forse perché, in qualche modo, sempre di situazioni "estreme" si tratta. Ma Albinati è anche uno scrittore: di "Maggio selvaggio", il suo diario dal carcere, avevamo già parlato in un precedente incontro in redazione, questa volta, partendo da "Il ritorno", il suo diario afghano, pubblicato da Mondadori, abbiamo discusso di carcere e Afghanistan, di luoghi della violenza.

 

Francesco Morelli (Redazione di Ristretti): Vorrei che ci spiegassi le ragioni che ti hanno spinto ad andare in Afghanistan e se possibile rispondessi a una domanda che ci siamo posti: è forse più facile condividere quelle ragioni, che entrare a lavorare in carcere? Su questo io ho fatto un ragionamento: infatti vediamo spesso molta attenzione a queste missioni umanitarie, perché si parla appunto di vittime delle guerra, di profughi, sono persone verso le quali è più facile dare la propria attenzione, mentre penso che sia più difficile entrare in carcere, dove appunto noi non siamo esattamente le vittime.

 

Albinati: Bisogna dire prima di tutto che l’intervento umanitario è un vero e proprio lavoro, anche nelle sue accezioni di volontariato: al 99% gli operatori umanitari, in Afghanistan come in altri paesi, sono dei professionisti, svolgono un lavoro umanitario però lo svolgono da ingegneri, medici, sociologi. Sono professioni a cui può essere data una valenza etica particolare, però di fatto è un po’ come il carcere per me, dove io ho un lavoro preciso da svolgere, che è quello di fare l’insegnante.

 

Ma la questione è: cosa ci va a fare uno in Afghanistan ?

Fra le risposte contraddittorie che ho dato, via via, a chi mi poneva questa domanda, ho capito che una ragione unica non c’è, perché secondo me è un po’ falsificante l’idea di andare a "fare del bene".

Senz’altro c’è questa spinta, questo impulso, però io l’ho definito in maniera un po’ più ampia, al limite contraddittoria, un desiderio confuso ma forte di combinare qualcosa, non per me stesso, non per la mia posizione, ma per aiutare qualcuno che è nei guai.

Poi c’è la stanchezza o il disinteresse per le vicende europee, che da un certo momento in poi mi sono apparse un "tiepido lusso". Di fatto io sento che nella nostra parte del mondo accadono cose, che sono effettivamente meno interessanti o meno drammatiche o meno importanti di tante altre cose che succedono altrove.

Naturalmente io considero il carcere come uno dei punti nei quali continuano a succedere cose interessanti, importanti o gravi o difficili; non è quindi che si debba per forza andar fuori dall’Italia per trovare qualcosa da fare, anzi! Però diciamo che la nostra società si è assestata su un benessere relativamente diffuso: ieri sera per esempio passeggiavo per il centro di Padova e mi guardavo intorno, e a un certo punto mi sono chiesto: "Ma la gente qui che problemi ha, in fondo?", includendomi anch’io come italiano, benestante, in questa domanda. Un’altra motivazione importante è la tensione verso la praticità, la semplicità, l’azione fisica. Personalmente trovo che lavorare nel carcere, per esempio, è un modo per fronteggiare dei problemi e cercare di risolverli, è una posizione frontale rispetto alle cose, tu hai dei guai e devi cercare di fare il possibile per venirne a capo, hai un rapporto diretto con le persone, con i detenuti, con gli studenti, nel mio caso come insegnante, e devi cercare di fare delle cose, perché hai poco tempo a disposizione, pochi mezzi e quindi li devi utilizzare tutti, alla massima intensità.

Un altro fattore importante, che si realizza anche in carcere, è il bisogno di stare insieme a persone diverse da me, il più possibile diverse e al tempo stesso di mettermi alla prova, chi sono quanto valgo fin dove ce la faccio.

Altra cosa ancora, e qui il carcere è ancora una volta incluso, è l’attrazione verso i luoghi della violenza. Il carcere è il luogo dove stanno persone che hanno avuto a che fare con la violenza. Lì in Afghanistan invece tu vai direttamente sul campo, dove la violenza si è esplicata o ancora si esplica. Questa serie di cose messe assieme possono spiegare perché uno decida: faccio questo lavoro.

 

Nicola Sansonna: Ho visto che dedichi molta attenzione ai bambini, che dai loro uno spazio enorme nel tuo libro.

 

Albinati: Sì, ma non era una cosa voluta, poi però me lo hanno fatto notare in tanti che questo è un libro sui bambini, che i veri protagonisti sono i bambini afghani, io non me ne ero accorto! Ma questo è tipico dei paesi del terzo mondo, dove vedi tantissimi bambini che ti girano attorno, cosa che in Italia, in Europa, non vedi più. I protagonisti della vita della città o del villaggio sono i bambini, mentre da noi, in particolar modo nelle città, puoi percorrere diversi isolati senza incontrarne uno. Le bambine afghane invece, come dico più volte nel libro, sai che ad un certo momento scompariranno, diventando donne, ed è struggente vedere queste bambine e sapere che ancora hanno, sì e no, un paio d’anni di "semilibertà" e poi dopo finiranno nella segregazione

I bambini sono senz’altro i protagonisti della vita afghana, nel libro racconto del lavoro minorile, da noi si parla facilmente di "cancellare" tale lavoro, invece bisogna andarci piano, in quei luoghi oggi è impossibile cancellare il lavoro minorile, se levi quello la gente muore di fame. Ecco un buon banco di prova del fatto che certi principi astratti, illuministici, giusti, poi nel momento di applicarli possono diventare perniciosi. Se tu oggi proibisci il lavoro minorile, ci saranno un sacco di bambini che moriranno di fame.

La stessa definizione di minore non è scontata: dal punto di vista della legislazione internazionale, chiunque abbia meno di 18 anni va considerato un minore, di fatto in Afghanistan si inizia a lavorare attorno ai 12/13 anni, e considerare minore un ragazzo di 14, 15 o 16 anni è un controsenso. Lo è di diritto ma non di fatto. In realtà i bambini sono le grandi vittime di quella situazione. L’Afghanistan ha una mortalità infantile elevatissima, soprattutto per questa grande emergenza dell’acqua, che del resto sta assumendo proporzioni planetarie. Il vero problema per cui i bambini muoiono in Afghanistan sono le malattie legate alla mancanza di approvvigionamento idrico, il bere acqua non potabile, la disidratazione, il colera. e devo dire che le condizioni igieniche generali sono assolutamente spaventose, inenarrabili!

 

Parlando di Afghanistan, ma anche di quando l’Italia era un paese molto tradizionalista e un po’ "talebano"

 

Francesco Morelli (redazione): In carcere ci sono diversi compagni mussulmani e quando ci capita di parlare della Sharia abbastanza naturalmente difendono le loro tradizioni: A me allora è venuto un dubbio: che il contesto politico-sociale di quei paesi renda anche accettabile quel tipo di legge. Tu hai fatto questa esperienza diretta: hai visto e percepito quegli elementi che noi riteniamo di crudeltà, di ingiustizia nella legge islamica o pensi che in quel contesto sia tutto sommato accettabile?

 

Albinati: Per quanto riguarda l’applicazione o l’efficacia, non tanto della religione islamica in quanto tale, che io non discuto perché non discuto delle religioni o delle loro verità, ma della loro applicazione sociale e politica, io personalmente sono nemico di ogni genere di stato etico. Parlo cioè di quegli stati dove all’individuo bisogna dirgli anche oltre che cosa è il bene o il male, cosa deve fare dalla mattina alla sera, se deve andare in chiesa e quante volte deve andarci eccetera: ebbene, questo modello politico di controllo delle coscienze non mi piace affatto, in generale. Quindi chiaramente uno stato islamico è la cosa più lontana che può esserci dal mio modello ideale. Effettivamente l’Afghanistan si chiama Repubblica Islamica dell’Afghanistan, e questo controllo sulla vita e sul comportamento delle persone pretendeva di averlo anche prima dei Talebani e ce l’ha ancora in buona parte adesso. Certo poi i Talebani applicavano, secondo me, dei principi che non erano appartenenti alla religione islamica, erano delle esasperazioni dovute alle letture iperintegraliste e iperfondamentaliste di alcuni punti del Corano, quindi in realtà i Talebani stessi si erano posti al di là di qualsiasi sensata applicazione della Sharia, perché per esempio la proibizione alle donne di lavorare non sta né in cielo né in terra. La loro era un’interpretazione del tutto fanatica, però chiaramente la legge islamica come ogni altra legge religiosa applicata capillarmente alla società comporta un controllo sulla vita delle persone che è molto elevato, al tempo stesso questo genere di controllo, e qui vengo un po’ a rispondere alla domanda, può funzionare bene, addirittura meglio di quanto funzionerebbe una gestione individualista della comunità, in situazioni d’emergenza, o in comunità di tipo arcaico. Voglio dire che la comunità tribale, come di fatto è quella in cui vive il 90% degli Afgani, funziona, e lo dico anche nel mio libro del resto.

Il sistema di solidarietà reciproca, di aiuto tra le famiglie, l’elemosina come principio obbligatorio, cioè i pilastri dell’Islam, hanno una loro ragione sociale e una loro straordinaria funzionalità; senza di esso un bel po’ di Afghani in più sarebbe sotto terra.

Per altro devo anche dire che la mentalità che governa la società afghana è stata per molti versi per me difficile da sopportare; questo controllo sulla vita, sulle coscienze, sui pensieri, questa obbligatorietà di molti atti, la segregazione delle donne, sono cose che personalmente rifiuto, e le avrei rifiutate anche nel mondo cristiano, come poteva essere l’Italia bacchettona del passato. In realtà io credo che gli italiani di una certa età possano ricordarsi un’Italia tradizionalista e "talebana", sì, non è male questa definizione.

Quest’anno poi per me il carcere è stato un vero disastro perché ho visto uno sfibramento delle forze progettuali, dopo anni d’attesa, per cui gli stessi detenuti hanno detto alla fine: lasciamo perdere, di fatto in questa roccia non si riesce a scavare.

C’è poi un aspetto, diciamo così, tecnico, e cioè che la realtà afghana ha degli aspetti spettacolari, che comunque è bello descrivere, per esempio le duecento donne ammassate che aspettano la razione visivamente offrono un fortissimo impatto, una sensazione di grande bellezza, che è presente anche nelle situazioni più degradanti. Questa cosa il carcere comunque non la offre. Io continuamente ricevo delle proposte per realizzare dei filmati all’interno del carcere e tutto le volte mi chiedo: cosa c’è da filmare lì dentro?! Le stesse difficoltà le ho affrontate anche nel mio libro "Maggio Selvaggio", e infatti ho privilegiato dei dettagli apparentemente secondari, come gli odori, le sensazioni fisiche, resta che dal punto di vista visivo, ottico, questa realtà è difficilmente traducibile in immagini ed è molto difficile trasmetterla agli altri.

 

Ornella Favero: Comunque quando tu parli del carcere fuori, non riesci a far capire cosa vuol dire essere privati della libertà, quindi qualsiasi cosa tu gli faccia vedere, gli sembrerà sempre normale, accettabile, non peggiore di altre situazioni.

Alla Giudecca hanno fatto delle riprese in una cella, con i pupazzetti sui letti, le fotografie appese, il commento è stato "Ah! però carina"! Per cui secondo me è proprio questo che fuori non riesci a comunicare, che anche se uno materialmente non vive malissimo, è l’assenza della libertà la più grande sofferenza.

 

Albinati: Be, potresti anche far vedere la cella più sovraffollata, ma l’impressione che potrebbe dare questa visione è infinitamente meno forte di quanto sarebbe far vedere come vivono molti immigrati liberi in città, quello sì che è veramente terrificante! Comparando le emergenze, quella del carcere è meno eloquente di quanto lo siano le immagini di povertà, di degrado urbano, di sporcizia e devastazione che ci sono anche nella società italiana.

Anche se le condizioni sono indecenti, la peculiarità della vita carceraria non è esprimibile attraverso il letto a castello, perché letti di quel tipo anche nelle caserme ci sono!

Mi viene in mente un modo "obliquo" per rappresentare il carcere, perché sempre devi inventarti una forma diversa, un oggetto, una sensazione che lo rappresenta.

Sto scrivendo un libro sulla perdita dei sensi, e da un mio amico torinese che è un ex tossicodipendente mi sono fatto raccontare il collasso da eroina e da cocaina. Poi mi sono limitato a trascrivere le sue esperienze.

L’altro giorno in carcere stavamo parlando della scrittura autobiografica, io volevo invogliarli, invitandoli a scrivere qualcosa della loro storia, della loro vita, scrivete quello che vi pare, gli ho detto, imparate però a sfogare, a scaricare il peso delle esperienze. Ecco, per darvi un esempio, se volete vi leggo questa intervista che ho fatto ad un mio amico. Tra l’altro sono in una classe formata in gran parte da ex tossicodipendenti, e la lettura ha avuto un effetto strepitoso, un detenuto alla fine mi ha detto: questa è esattamente la sensazione che si prova! Perché lì si parlava di un tema specifico, di un momento particolare, il collasso da overdose se io avessi chiesto invece al mio amico di parlarmi della sua esperienza sulla droga in generale, o sulla tossicodipendenza, da dove poteva cominciare? Invece lui ha parlato soltanto di una cosa molto precisa, e ciò dell’istante in cui vai in overdose.

Ricordo una bella cosa, scritta da un detenuto che si chiama Giovanni Tamponi, che poi è stata pubblicata sulla rivista "Lo straniero", un testo dedicato agli odori che hanno le diverse celle, dove a seconda degli odori che sentiva, lui ricostruiva la personalità, l’appartenenza etnica di chi ci stava dentro. Aveva fatto un lavoro, secondo me, molto convincente, e questo solo perché aveva scelto non di parlare del carcere, ma di quella cosa lì, attraverso singoli dettagli.

Una cosa geniale è quando lo scrittore americano Truman Capote ha chiesto alla donna che faceva le pulizie in casa sua se poteva poi seguirla durante il suo lavoro. E così cominciano a visitare insieme gli appartamenti degli altri, a New York, e Capote descrive 4 appartamenti che rappresentano quattro mondi, altrettanti modi di vita, delle personalità diverse, la sua è un’ intuizione strepitosa. Se uno ti chiede "Come è New York?", il tema è troppo, invece per capire come vive la gente bisogna partire da un singolo episodio, da come si rifà il letto, quante sigarette trovi nel suo portacenere.

 

Nicola Sansonna: Mi ricordo che anni fa, quando entravi in una sezione dove non conoscevi nessuno, andavi subito a cercarti il posto. Tu quindi arrivavi con il tuo zaino, la "zampogna", la lasciavi per terra e uno dei criteri di scelta della cella era quello di guardare il sacchetto delle immondizie, se i sacchetti erano pieni ciò significava che in quella cella si mangiava.

 

Ornella Favero: Io per esempio, che comunque entro in carcere e ho visto tante carceri diverse, però il momento in cui ho più forte la percezione di quanto orrendo sia il carcere è quando riaccompagno un detenuto di ritorno da qualche permesso, di sera tardi, e sto davanti al carcere e vedo questa persona entrare lì dentro. Ecco, vederlo rinchiudersi in quel posto lì, mentre fuori la vita scorre, è uno dei momenti nei quali ho più chiara l’idea di cosa voglia dire la mancanza della libertà e il grigiore di questi luoghi.

 

Albinati: Il modo migliore, anche nel libro sull’Afghanistan che ho scritto, e nel libro sul carcere in particolare, per rendere significative le cose è creare un contrasto visivo d’immagini, per esempio per descrivere il carcere è necessario descrivere la vita libera, infatti il contrasto è molto eloquente e secondo me chi fa dentro e fuori come il volontario o l’insegnante deve farlo sentire il più possibile.

Avere davanti entrambi i mondi, libero e recluso, per poter capire il mondo recluso. In "Maggio Selvaggio" mi torna in mente un’immagine molto forte, che poteva sembrare anche crudele, quando il giorno di festa del 25 Aprile io vado al mare e mi mangio un piatto di spaghetti alle vongole sulla spiaggia, pensando che due giorni dopo tornerò in carcere e racconterò questa cosa, e la forza, il godimento di compiere un gesto, per altro abbastanza normale, come andare un giorno al mare, esplode a contrasto con la vita reclusa.

Per me comunque il punto focale dell’immagine carceraria, per quanto riguarda la mia esperienza, è l’ingresso in carcere, l’ingresso e l’uscita sono i momenti topici. E siccome è importante sempre visualizzare un singolo problema, mi era piaciuto sul vostro giornale il racconto del ragazzo albanese, che parlava del giorno dell’udienza per la concessione dei giorni di liberazione anticipata, raccontava con precisione quella giornata lì, non la situazione carceraria in generale.

Una cosa che ho fatto fare una volta ai miei studenti è stata di raccontare il giorno della cattura, l’ultimo istante in cui sono stati liberi, e sono uscite fuori delle cose notevoli. In molti casi, l’istante prima della cattura c’era stata una specie di sensazione, simile a quello che si dice avvenga prima della morte, quando a uno sembra di vedere tutto, capire tutto. Ricordare quel passaggio è una cosa molto forte e chi poi legge il racconto lo sente.

Allora secondo me sarebbe meglio scegliere sempre dei punti topici della vita carceraria, o della vita criminale, dei frammenti però decisivi, approfondendo quelli. Trovo che lo strumento, se ben usato, dell’intervista e del puro racconto sia la cosa migliore.

 

Ornella Favero: Qui dentro, infatti, è stata una delle battaglie più importanti quella perché le persone imparassero a raccontare e a raccontarsi..

L’imperativo era: Raccontatevi, perché altrimenti alla gente non gliene frega niente di leggere cose generiche sul carcere… In realtà, molti giornali del carcere hanno questo vizio: di proporre articoli generici sul fatto che il carcere fa schifo, però se tu non racconti come lo vivi, i discorsi di denuncia sui mali della galera non arrivano da nessuna parte.

 

Albinati: Mi viene in mente una cosa, la dico e accettate la mia franchezza nel dirla, come io accetto la vostra eventuale evasività. C’è una cosa che non viene mai detta, che non ho mai visto scritta da un detenuto, ed è la questione del sesso. Ecco, che cosa vuol dire per una persona quando la sua vita sessuale viene interrotta dal carcere?!

Io temo che questo non verrà mai scritto e forse è anche giusto così.

Però questo argomento, per me che lavoro in carcere da nove anni, e che ho ricevuto confidenze anche molto intime, quella cosa lì rimane intoccata e secondo me sarebbe la cosa più terribilmente eloquente. Il carcere è anche quella cosa lì! Quando si parla con la gente di come funziona il carcere, poi alla fine tema viene fuori: ma come fanno quelli lì, cosa gli succede realmente? Una delle domande che viene sempre posta dalle persone che si interessano del carcere è quella dell’omosessualità, perché sul tema dell’omosessualità nel carcere ci sono tante leggende…

La questione allora si potrebbe impostare così: quanti hanno praticato l’omosessualità? Ma chi avrebbe il coraggio di parlare liberamente di un tema cosi intimo e personale?! Questo è uno dei casi più clamorosi di una cosa che non viene detta, ma se venisse detta sarebbe esplosiva.

 

Claudio Darra: Probabilmente siamo in un paese cattolico, dove sacerdoti e suore vivono, per loro scelta, l’astinenza sessuale, per cui tanta gente ritiene normale che possano benissimo fare a meno del sesso anche i detenuti, forse sarà per questo che la curiosità di sapere qualcosa su questo argomento viene repressa.

 

Francesco Morelli: Nel nostro sito c’è un forum di discussione e uno degli argomenti è l’affettività, la sessualità nel carcere. Qualche giorno fa ero fuori in permesso e ho trovato un messaggio di uno che scrive: secondo me ai detenuti andrebbe anche amputato il pene, così non potrebbero neppure più masturbarsi! E conclude con: "La verità fa male". Io gli ho risposto: "La verità a volte fa male, la stupidità fa male sempre!".

Parlare della sessualità è comunque davvero difficile.

 

Albinati: Io direi però, se posso permettermi, di non parlare mai, volendo veramente raccontare le cose come sono, della "sessualità", in astratto, altrimenti siamo di nuovo ai problemi generali, l’affettività, gli standard, le percentuali, il 50 %, il 15 %, questo va bene per un sessuologo che fa un’indagine sul carcere, ma dal punto di vista di chi in carcere ci sta l’unica modalità possibile è raccontare l’esperienza soggettiva o raccogliere l’esperienza soggettiva di un altro.

 

Francesco Morelli: Tu stai parlando di persone che hanno una curiosità verso questo argomento, il mio timore è che la maggior parte della società sia totalmente disinteressata e che percepisca come assolutamente naturale il fatto che tu sia privato della tua vita sessuale perché sei detenuto.

 

Albinati: Non è importante sapere cosa fanno in detenuti come un’entità generica, ma cosa fa quel detenuto x, dove il detenuto x non deve essere per forza un detenuto reale. Allora tu non mi stai raccontando la sessualità in carcere, stai raccontando quello che è successo a te, oppure puoi anche farlo in modo fittizio, perché a questo punto non c’è bisogno che il "detenuto x" si riveli lui, però potrebbe raccontare una storia esemplare di un altro, quindi facendo salvo il suo pudore.

 

Nicola Sansonna: Ma un conto è se glielo chiedi a uno che ha vent’anni, un conto a uno che ne ha quaranta, e poi molto dipende anche da quanti anni di galera ha da fare o si è già fatto.

 

Albinati: La differenza tra chi si è fatto vent’anni di galera e chi ne ha fatto o ne deve fare solo uno secondo me è molto interessante da raccontare. Uno all’inizio crede che i detenuti vivano tutti più o meno la stesse. Invece non è così. A Roma per esempio vengono chiamati gli "scemetti" quelli che devono fare otto mesi, un anno al massimo di carcere, e hanno un atteggiamento totalmente diverso da quello che ha 20 anni da scontare.

Quando parlo di un detenuto x, intendo dire non che ha un nome e un cognome, ma che è una persona fisica in carne ed ossa, oppure che è anche fatta di parti di persone diverse. Sempre in "Maggio Selvaggio", un sacco di personaggi li ho creati prendendo la testa di uno e il corpo di un altro, io per primo ho dovuto evitare il fatto che fossero chiaramente identificabili: un po’ di "condensazione narrativa", prendendo spunto da varie storie, la si può fare. Comunque intendiamoci, non è che diventa falso solo per il fatto che gli cambio il nome o mescolo le carte, un personaggio è vero nel momento in cui è vera la storia, nel senso che succede o può succedere realmente.

 

Nicola Sansonna: A me per esempio viene rimproverato che io, che noi detenuti tendiamo ad idealizzare la donna.

 

Albinati: E’ l’elemento alieno, è la donna angelicata di Dante, potremmo fare una bella lezione su questo tema, abbiamo un tema per il prossimo incontro, l’idealizzazione per via della separazione. In Afghanistan è incredibile il rapporto che c’è tra gli uomini, che in Europa o in Italia verrebbe considerato automaticamente omosessuale. In realtà non lo è, ma tutti i rapporti umani che tu hai, anche di gioco, di divertimento, di corteggiamento, di scambio, tranne che nella vita matrimoniale, che però è ristretta alla realtà domestica, avvengono tra uomini, e quindi gli uomini fra loro sono affiatatissimi. C’è una attenzione, una cavalleria, che noi siamo abituati a vedere tra uomo e donna, e invece avviene tra uomo e uomo. Del resto un certo numero di volte al giorno o al mese, chiunque di noi ha bisogno di abbracciare, baciare, scambiarsi gesti affettuosi.

La cosa si nota sempre quando in una compagnia solo maschile poi arriva una donna o più donne, e comincia subito un po’ di fermento, e non solo per un fatto strettamente sessuale. Lo dico anche in "Maggio Selvaggio", dove racconto che per molti detenuti avere delle donne che ti guardano, andare ai colloqui fa sì che uno si cura un po’, mentre nei reparti totalmente chiusi la gente si lascia andare. Allora una presenza del diverso, dell’altro, in questo caso dell’elemento femminile, fa sì che noi ci sentiamo messi in gioco, quando invece tutto avviene solo tra persone dello stesso sesso, alla fine diventa sempre un po’ una caserma. Certo le donne possono rappresentare, se vogliamo, anche un elemento di disturbo, e infatti, quando si va in barca, donne mai… Insomma, l’elemento di fermento può diventare anche l’elemento di disturbo

Dunque il ragionamento diventa: siccome noi non vogliamo il disturbo, allora leviamo pure il fermento. Il problema delle aperture alle donne in società come quella afghana è dovuta al terrore che poi questa apertura provochi dei guai; però levando la possibilità dei guai, leva il fermento, cioè anche la possibilità di inventare qualcosa.

Società fatte così non avanzano mai, ma non solo perché le donne potrebbero essere migliori avvocati o scienziati ecc. ma perché mancando totalmente una parte della società, la società stessa rimane fissa, immobile, è ferma lì, non riceve stimoli.

 

Francesco Morelli: Io invece ho un altro episodio da raccontare, su cui mi piacerebbe riflettere insieme. Adesso che faccio qualche permesso ho notato parecchie cose strane, ma una particolarmente mi ha colpito ultimamente: qui dentro noi ci conosciamo abbastanza tutti, quindi assumiamo bene o male delle espressioni come tra persone che si conoscono, non hai un’espressione indifferente, anche se un compagno non lo conosci molto il viso aperto glielo mostri. Fuori non è così, al mattino prendevo il vaporetto per andare a Venezia, e lì ho notato il vero significato dell’indifferenza: persone che non ti conoscono, con musi lunghi, espressioni brutte come non le ricordavo da molto tempo, di certo non ricordavo, prima d’entrare in carcere, d’aver visto tanti musi lunghi come di questi tempi.

 

Albinati: Vi manderò allora qualche copia del mio libro "19", dove viene descritta l’umanità che viaggia in questo tram, e la cosa che impressiona in questi miei giri in tram è che le persone sono tutte come le descrivi tu, se non fosse per certe coppie di innamorati, che potevano eventualmente rappresentare un briciolo di felicità, una volta una coppia di neri africani, un’altra una coppia di turisti, un’altra ancora una coppia di sordomuti che si scambiano effusioni. Tutti gli altri emanano una gran quantità di problemi, sono immersi nei loro problemi. Io ho cercato di ricreare le frasi che loro stanno pensando, e sono tutte frasi legate a malattie, a problemi pratici o affettivi, ai soldi, alla moglie che ti ha lasciato, alla moglie che non ti ha lasciato, le cosiddette rogne che attraversano la mente delle gente…

 

La conversazione si interrompe qui perché il carcere "si fa vivo" con i suoi orari e le sue imposizioni: tutti fuori gli "esterni", tutti in cella i detenuti.

 

 

 

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