Incontro con gli agenti

 

Agenti e detenuti: un "non facile" confronto

 

(Realizzato nel mese di marzo 1999)

 

A cura della Redazione

 

I termini tecnici che compaiono in questo articolo sono segnalati con un asterisco e spiegati ai "non addetti ai lavori" alla fine dell’articolo stesso, con poca burocrazia e qualche ironia.

 

Definire "non facile" il confronto tra agenti e detenuti rappresenta, in fondo, un passo avanti: non si parla più, semplicemente, di difficoltà, di tensione, a volte di conflittualità, ma si sottolinea piuttosto che non è così semplice ed immediato trovare un linguaggio comune, rispettarsi, scambiarsi delle idee, quando a confrontarsi sono gli addetti alla custodia con quelli che, malvolentieri, si devono far "custodire".

Uno degli obiettivi che ci siamo prefissi, fin dalla nascita del giornale, è stato però proprio quello di stabilire un rapporto costruttivo con tutte le componenti del mondo carcerario, nella convinzione che soltanto la comprensione dei rispettivi punti di vista possa aiutare a superare i problemi che si verificano in questa particolarissima situazione di convivenza. Così la redazione ha incontrato (in ben due lunghe puntate) alcuni rappresentanti degli Agenti di Polizia Penitenziaria per discutere di molti aspetti complessi del loro ruolo istituzionale.

 

Cominciando dai "nuovi giunti", e da quelli stranieri in particolare

 

Il "nuovo giunto" (nel linguaggio burocratico, è la persona appena "ristretta" in carcere) non ha un’idea precisa di quali sono i suoi diritti e doveri. Non credete che più informazione, anche attraverso la distribuzione di opuscoli sui "diritti e doveri" dei detenuti, semplificherebbe anche il vostro lavoro, evitando disguidi e malintesi?

Ignazio Siracusa, Comandante degli Agenti di Polizia Penitenziaria:

Il rapporto del detenuto con l’istituzione è regolamentato dall’Ordinamento Penitenziario*, e dal relativo Regolamento di Esecuzione, ma anche dalle circolari ministeriali che sopraggiungono a modificare di continuo la normativa vigente. Inoltre ogni Istituto dovrebbe avere un proprio Regolamento Interno, cosa che manca qui al Penale di Padova.

Dovrebbe poi esserci un "estratto" dell’Ordinamento, contenente le principali norme, in ogni cella: non c’è in quanto il Ministero non si è attivato per farlo distribuire e, da parte nostra, non possiamo prendere l’iniziativa senza che ci venga indicato ciò che andrebbe incluso in questo opuscolo. Riportare soltanto alcune parti dell’O.P. sarebbe semplicistico: basti pensare che, in un solo anno, gli "ordini di consegna" sono stati circa 1800.

 

Serve più formazione per gli agenti?

 

Negli ultimi anni la popolazione detenuta è cambiata, con l’ingresso nelle carceri di un numero sempre più consistente di stranieri. Questo richiederebbe una formazione specifica del personale: sono in corso iniziative in tal senso?

Comandante Siracusa: Non ci viene data alcuna preparazione specifica per la gestione del rapporto con gli stranieri e le difficoltà che si verificano più frequentemente sono causate naturalmente dalla lingua e poi dalla differenza nelle abitudini di vita. In questo istituto i problemi maggiori si riscontrano nel 1° blocco*, dove anche la posizione giuridica dei detenuti, tutti in attesa di giudizio, determina in loro comportamenti diversi rispetto ai detenuti ristretti nelle sezioni "comuni".

Anche noi dobbiamo adeguarci e, nell’ambito di ciò che prevede il regolamento, adottare sistemi differenziati. Del resto all’interno dell’istituto ci sono sezioni separate in base alla tipologia dei detenuti: "Comuni", "Protetti", "Alta sicurezza", "Custodia attenuata"* . In ognuna di queste situazioni a noi è richiesto un tipo di lavoro specifico. Oggi sarebbe più opportuna che mai la creazione di "circuiti penitenziari", secondo quanto prevede l’Ordinamento: per esempio di istituti specializzati per la detenzione dei "giudicabili"*, altri per i "definitivi"* con pene medio - basse, altri ancora per chi ha pene elevate.

 

Antonella Barone, educatrice: Ma come avviene la formazione professionale degli agenti di Polizia Penitenziaria e di che cosa sentite la mancanza, nella vostra preparazione?

Assistente Capo Delli Novelli: Prima di entrare in servizio effettivo seguiamo un corso preliminare della durata di sei mesi, poi altri brevi corsi di aggiornamento, comunque ben poca cosa.

Inoltre bisogna considerare che abbiamo un Regolamento* del Corpo vecchissimo, entrato in vigore addirittura nel 1937!

Comandante Siracusa: I problemi che ci troviamo ad affrontare sono molto diversi a seconda dell’Istituto in cui operiamo.

Nel Giudiziario i detenuti sono all’inizio del loro percorso ed hanno atteggiamenti, esigenze, reazioni diverse rispetto ad un Penale. Chi è "definitivo" è più tranquillo: ha colloqui e telefonate con i familiari, frequenta corsi scolastici, a volte ha un lavoro.

Assistente Capo Delli Novelli: Nel Penale, in effetti, i detenuti sono più disponibili al dialogo e si può lavorare meglio, nel Giudiziario c’è maggiore tensione e disordine.

Comandante Siracusa: In questo Istituto abbiamo una situazione ancora più estrema: un Giudiziario* con quasi tutti stranieri, che non possono usufruire di colloqui e di benefici* e quindi non sono incentivati al mantenimento della buona condotta; inoltre sono abituati a vivere con altre regole rispetto a noi e mantengono queste abitudini finche stanno tra loro. La controprova si ha quando uno straniero passa nelle sezioni comuni e diventa in fretta un detenuto "normale", abituandosi alle nuove regole di convivenza, ad esempio quella di non gridare in sezione.

 

La vostra formazione professionale è cambiata rispetto al passato?

Comandante Siracusa: E’ cambiata in maniera sensibile, ma oggi più che mai sentiamo il bisogno che venga definita la precisa identità del nostro lavoro. Le indicazioni che riceviamo sono spesso generiche e rimangono dichiarazioni di intenti, senza strumenti che ci consentano di metterle in pratica. Il concetto di fondo è quello di una integrazione tra le varie figure professionali esistenti nel

carcere, educatori, psicologi, assistenti sociali, agenti, in modo che il detenuto possa essere accompagnato in un determinato percorso, durante il quale ci deve essere una sua crescita culturale.

 

E’ opportuna la presenza del difensore civico* e di mediatori culturali?

 

Pensate che in un carcere sia opportuna la presenza di operatori come il difensore civico ed il mediatore culturale?

Comandante Siracusa: Se possono servire ad un miglioramento della situazione generale il loro contributo è senz’altro gradito, in altre circostanze non ne vedo una utilità pratica.

Dipenderà molto dalle scelte gestionali che lo Stato vorrà compiere, ad ogni modo perché un operatore possa giudicare deve prima conoscere bene la materia: fino ad oggi nulla di preciso è stato deciso, a livello legislativo, quindi non si sono preparate "figure di controllo" competenti per la realtà carcerarla.

Lorena Orazi, educatrice: Si verificano circostanze nelle quali i diritti fondamentali dei detenuti andrebbero difesi, ad esempio quello dei colloqui con i familiari. Agli stranieri spesso è impossibile effettuarli, anche telefonicamente, nonostante non sia scritto da nessuna parte che è vietato. In queste situazioni può trovare un suo ruolo questa "figura di controllo" che è il difensore civico.

Comandante Siracusa: In questo caso il problema è applicativo: l’autorizzazione alle telefonate non arriva, perché i controlli sull’utenza (il numero telefonico - N.d.R. -) nel Paese straniero sono lunghi e complicati; oppure perché manca l’interprete che ascolti la conversazione (la legge prevede che le telefonate siano ascoltate e, in determinati casi, registrate N.d.R. -). Servirebbero piuttosto regole più semplici.

 

Dolenti note: i rapporti disciplinari*

 

Ma anche quando veniamo mandati davanti al consiglio di disciplina e ci viene contestata un’infrazione al regolamento avvertiamo la necessità di un difensore: ci sembra di non essere sufficientemente tutelati con l’attuale procedura.

Comandante Siracusa: Il problema non è propriamente di nostra competenza, comunque il detenuto viene ascoltato e ha modo di esporre le sue ragioni, sia durante la fase istruttoria che davanti al consiglio disciplinare.

Da parte nostra non c’è di solito la volontà di accentuare l’aspetto punitivo: il compito dell’agente è quello di segnalare un fatto accaduto, che può avere o meno rilevanza penale. A volte basta un chiarimento, una verifica, per rendersi conto che non è necessario avviare alcun procedimento disciplinare.

 

E’ pur vero che un detenuto ha modo di dare la sua versione dei fatti, di difendersi o giustificarsi, tuttavia ciò che dice, di solito, non viene tenuto in gran conto, ameno che si tratti di una completa ammissione di colpevolezza. Accade poi che, in attesa di essere sottoposti al giudizio disciplinare, ci vengono sospesi i colloqui* e le telefonate supplementari. A volte attendiamo per mesi prima di riottenerli, anche se risulta che non abbiamo commesso alcuna infrazione.

Comandante Siracusa: I colloqui "premiali" sono concessioni del direttore e possono essere revocati, indipendentemente dall’esito del procedimento disciplinare.

In altre circostanze, per motivi di sicurezza, al detenuto viene preventivamente vietato di partecipare alle attività in comune (con la chiusura permanente in cella o il suo spostamento nella sezione di isolamento), ma in questi casi il consiglio di disciplina si tiene entro due giorni dall’inizio della misura cautelare.

 

Celle chiuse, aperte, regolamentate

 

In questo Istituto le celle un tempo rimanevano aperte per diverse ore al giorno. Non è anomala l’attuale condizione di chiusura, trattandosi di un "penale"?

Comandante Siracusa: La chiusura delle celle è diventata necessaria a seguito di atti di prevaricazione da parte di alcuni detenuti su altri più deboli. In questi casi l’intervento dell’agente in servizio era reso difficoltoso anche dalla "partecipazione passiva" di altri detenuti, che ad esempio richiamavano la sua attenzione lontano dal luogo dove stava per compiersi una aggressione. Lo spazio non è comunque stato completamente "chiuso" ma "regolamentato": la socialità è ancora possibile effettuarla nelle celle e nella sala comune. Questa misura serve soprattutto per evitare disordini ed infatti, da quando le celle sono chiuse, la conflittualità è diminuita del 70%.

 

Lorena Orazi: Non poteva anche succedere che un agente avesse paura a stare in una sezione con 50 detenuti liberi di muoversi?

Comandante Siracusa: Questo non succedeva, perché ogni agente di solito sapeva bene che eventuali atti di violenza sarebbero avvenuti tra i detenuti e non verso di lui.

Soltanto al giudiziario si sono verificati momenti di forte tensione; questa sezione è sempre stata un problema particolare e di conseguenza coloro che vi sono ristretti hanno sofferto qualche disagio in più. Se si comportano come gli altri da noi sono trattati esattamente come trattiamo gli altri detenuti.

 

L’Ordinamento Penitenziario dice che la perquisizione personale "deve essere effettuata nel pieno rispetto della personalità". Come interpretate ed applicate questa norma?

Comandante Siracusa: Vi chiederei io cosa intendete voi per "rispetto della personalità": che non avvenga la perquisizione?

 

Intendiamo per esempio non… spogliarci in una stanza assieme ad altre lo persone, mentre la gente passa davanti alla porta spalancata, ed anche al freddo.

Comandante Siracusa: Su queste richieste mi trovate d’accordo e credo si possano studiare accorgimenti perché la perquisizione all’uscita dei colloqui si svolga in condizioni di maggiore privacy.

 

Ma da che cosa dipende la vostra insoddisfazione, e il fatto che vi lamentiate spesso di essere pochi, nonostante il rapporto detenuti/agenti in Italia sia molto più favorevole per voi che negli altri paesi europei?

Comandante Siracusa: In Gran Bretagna, per esempio, esistono carceri interamente automatizzate, nelle quali un solo operatore è sufficiente al controllo di tutti i reclusi, l’ambiente è asettico, in sezione non c’è neppure un agente, a chiamare i detenuti è uno speaker.

In altri paesi europei, invece, ci sono circuiti differenziati: in alcuni si privilegia l’aspetto trattamentale della pena, in altri quello della sicurezza. Naturalmente nelle carceri dove si svolgono tante attività e si vive meglio, serve un numero maggiore di agenti.

La legislazione italiana parla di trattamento e rieducazione e ha fatto la scelta di umanizzare la pena, quindi necessariamente il rapporto numerico agenti/detenuti da noi dovrebbe essere più elevato che altrove.

C’è da dire poi che le traduzioni (ce ne ha parlato l’ispettore Taranto, che è il responsabile di questo servizio), che prima erano affidate ai Carabinieri, sono diventate dal 1996 competenza della Polizia Penitenziaria e impiegano moltissime risorse, forse più di quanto si poteva prevedere.

 

A Rebibbia si è verificato di recente un brutto episodio che ha fatto esplodere roventi polemiche: un carcerato psicolabile ha sequestrato un agente e, per alcune ore, nessuno si è accorto dell’accaduto. I rappresentanti sindacali della Polizia Penitenziaria hanno protestato, chiedendo il blocco di tutte le attività organizzate nell’istituto dai volontari*. Voi che ne pensate?

I nostri interlocutori non condividono questa presa di posizione: Margarucci sottolinea che i volontari non hanno alcuna responsabilità dell’accaduto: si è trattato di un episodio isolato, probabilmente evitabile se l’agente avesse conosciuto meglio il detenuto che gli era stato affidato.

Aggiunge Siracusa: A Padova c’è stato un forte sviluppo delle attività promosse dai volontari, soprattutto a partire dal Settembre 1996, e ciò prosegue anche perché noi diamo parere favorevole sulla sicurezza, ma non è sempre facile trovare un giusto equilibrio, perché poi quando avvengono delle evasioni, come è successo di recente a Milano Opera e al Circondariale* di Roma, la responsabilità ricade sugli operatori, che perdono credibilità e posto di lavoro senza trovare alcuna comprensione nell’opinione pubblica, sempre pronta a indignarsi contro di loro: una volta accusandoli di eccessiva severità, un’altra di lasciarsi scappare i criminali.

 

In alcuni istituti sono stati avviate iniziative molto particolari che intendono rimettere in discussione il tradizionale rapporto detenuto agente, che è "freddo" nella migliore delle ipotesi e talvolta conflittuale. Si è pensato di farli lavorare assieme in laboratori teatrali, gruppi musicali, attività sportive. Voi che ne pensate di esperienze simili?

I pareri, qui, sono opposti.

Siracusa si dichiara personalmente favorevole a situazioni di lavoro comune, perché "la sicurezza non significa soltanto chiudere le porte a chiave". Secondo Margarucci, invece, "l’ordine e la disciplina risentirebbero negativamente di una frequentazione simile: il rischio sarebbe che si fraternizzi e nascano complicità e confusioni di ruoli".

 

Possibilità di colloqui coi famigliari non "controllati a vista"

 

Altra questione di stretta attualità sono i colloqui "riservati" che dovrebbero permettere una vita affettiva decente anche a chi sta in carcere. Su questo tema ci saremmo aspettati critiche e perplessità, invece i nostri ospiti lo hanno valutato da una prospettiva funzionale al loro lavoro, ma non per questo meno interessante. Ritengono valida l’idea di consentire incontri riservati, che l’ispettore Margarucci preferisce però considerare una misura premiale*, del tipo dei colloqui supplementari che sono possibili ora. Essi contribuirebbero anche ad allentare le tensioni che a volte si determinano negli istituti.

 

In breve, questi sono alcuni dei problemi più sentiti dalla Polizia Penitenziaria: il sovraffollamento, la mancanza di lavoro per i detenuti, l’esistenza di una sezione giudiziaria molto conflittuale. Inoltre il personale è insufficiente, ridotto a causa di "temporanei" trasferimenti ad altri istituti e dell’impegno con le scorte e i piantonamenti in ospedale. Gli agenti rimasti sono spesso costretti a svolgere doppi turni e per questo si verificano i disagi che ci troviamo ad affrontare: chiusura di alcuni spazi, ritardi e disguidi in alcuni servizi. Sono disagi finora accettati con maturità dalla gran parte dei detenuti, che vedono con i loro occhi la precaria situazione nella quale si trovano a lavorare gli agenti.

Ciò non toglie che, a questi problemi, bisognerà dare una soluzione prima o poi e tutti, da una parte e dall’altra, sperano che sia "prima " per non dover pagare un prezzo troppo alto!

 

In definitiva, vivere qui non piace a nessuno, né da custodi né da custoditi, eppure dobbiamo starci cercando di "coabitare" e accettare il confronto nel miglior modo possibile: per ottenere questo ci sono delle regole che dobbiamo conoscere e rispettare, e delle quali possiamo e dobbiamo anche noi pretendere il rispetto, quando è il caso di farlo.

 

 

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